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Chi è il nemico? L'integrazione. Recensione a «Restare barbari»



Pubblichiamo una recensione di Massimo Ilardi a Restare barbari. I selvaggi all’assalto dell’Impero, libro recentemente pubblicato da DeriveApprodi.


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Il breve saggio di Louisa Yousfi, Restare barbari. I selvaggi all’assalto dell’Impero (DeriveApprodi 2023), potrebbe essere un’ottima lettura da consigliare a tutti coloro che da anime belle e da incalliti sognatori pensano che l’inferno delle periferie urbane, le banlieue francesi, per l’autrice abitate dai barbari contemporanei, i figli della prima e seconda generazione della immigrazione magrebina, si possa mitigare attraverso la solidarietà, l’accoglienza, la condivisione e cioè mettendo in atto quella retorica neutra e mistificante dell’Altro. Perché è qui, proprio in questo inferno, che, secondo loro, questi universali troverebbe il terreno più fertile per essere praticati. Un bel confronto ne verrebbe fuori con Louisa Yousfi che scrive invece che è l’odio il sentimento più diffuso che si manifesta nelle banlieue, un odio che non ha nulla di universale, «non fa appello a nessuna istituzione, non sensibilizza alcuna coscienza, non si aspetta più nulla dal mondo esterno, non vuole avere più nulla da dirgli». Un odio che cementa le appartenenze e stabilisce chi è amico e chi è nemico, dunque «salva i suoi, non salva chi capita». Un odio, come afferma Walter Benjamin, che si alimenta all’immagine degli antenati asserviti, non all’ideale dei discendenti liberati. E d’altra parte, come mettere insieme la produzione di universali che portano inesorabilmente all’uguale con la rivendicazione delle differenze e delle alterità che attraversa questi territori e che segnala il fallimento di ogni sintesi? Per i PNL, gruppo rap famoso non solo in Francia, scrive infatti l’autrice, «raccontarsi in un territorio ostile significa innanzitutto “assicurarsi” un luogo di enunciazione che garantisca l’intransigenza e la fondamentale rottura con il nemico». E il nemico è l’integrazione forzata, perseguita dalla politica postcoloniale francese, che addomestica, contamina e alla fine fa scomparire la storia, la cultura, l’anima di un popolo che è stato dominato e asservito. Per questo si deve allora rimanere barbari, ammonisce Yousfi, non per ritrovare ciò che eravamo quanto per resistere a ciò che stiamo diventando. Ma cos’è questa barbarie originaria che dobbiamo conservare? Che vuol dire rimanere barbari? Come possiamo piangere un’autenticità mai conosciuta eppure veramente perduta, si chiede ancora l’autrice? Cos’è questo impulso di conservazione senza scopo? E risponde: «È un’evanescenza, un sentimento paradossale: è la nostalgia di ciò che non è accaduto. Quale discendente dell’immigrazione non lo sente nel profondo? Non sente forse ciò che lentamente, con il procedere dell’integrazione, lo abbandona per sempre?». Certo, dal punto di vista politico, sono domande inammissibili, accusate di spianare la strada alla feticizzazione di una fantomatica età dell’oro, alla fabbricazione di un’autenticità precoloniale eretta a dogma. Ma proprio ciò che in questi barbari rimane inassimilabile che può trasformarsi in elemento politico. Rifarsi infatti a una cultura primigenia e pura non ha nulla di nostalgico o conservativo se diventa un mezzo per costruire appartenenze nemiche alla cultura dominante. Il passaggio che si realizza è dunque quello che va dall’addomesticamento programmato costruito dal potere e dai suoi codici a quello della riscoperta di un’appartenenza culturale altra che si costruisce al presente ma con un balzo nel passato. Un esempio: all’età di dieci anni Elijah Yaffa «fece il suo primo viaggio in Senegal, la patria di suo padre. Lì ha visitato l’isola di Gorée, l’antico centro della tratta degli schiavi per più di due secoli. Si immagina nelle celle, i neonati strappati dai genitori, le donne violentate, gli uomini torturati, i corpi smistati come bestiame e legati. L’immagine lo colpisce, gli rimane impressa per sempre […] Qualcosa è stata piantata in lui». Al ritorno in Francia, Yaffa si trasformerà in un eroe nero tornato per vendicare i suoi antenati: sarà delinquente, spacciatore, assassino, sarà una figura del Male.

Ha ragione Manuel Castells quando sostiene che i valori culturali sembrano oggi divenuti più importanti del denaro nella determinazione delle scelte e dei comportamenti. Le categorie culturali prendono il posto delle categorie sociali. Valori culturali, nel senso che Theodor Geiger individua come mentalità, che tendono a porsi, per definizione, come indisponibili e non negoziabili. L’appartenenza a una cultura e a una definita realtà territoriale non produce infatti confini permeabili o contorni smarginati. Anzi, finché vive, opera differenze, costruisce valori, disegna recinti duri e invalicabili. Inoltre, nessuna appartenenza vivrebbe a lungo se non si opponesse a qualcos’altro o se non fosse cementata da un nemico.

Ed è proprio questa chiarezza nell’individuare il nemico che ridefinisce lo stesso concetto di libertà e le sue pratiche. «Volevano civilizzare i selvaggi», scrive nella postfazione l’artista Wissal Houbabi, «chi si è ribellato è stato chiamato barbaro. Allora sì. È così che intendo la Libertà». La libertà, affermerà più avanti, non ha nulla a che vedere né con la giustizia, né con l’identità, né con l’uguaglianza, né con la dignità del lavoro. Essere liberi non vuol dire «pensarsi» liberi o costruirsi una differente coscienza di sé: essere liberi o è una pratica che si dispiega e si materializza immediatamente sul territorio combattendo contro ogni impedimento che ne ostacoli la marcia o non è. Per questo la domanda di libertà viene prima di ogni scelta politica o ideologica non fosse altro perché né la politica né l’ideologia riescono oggi a dare forma alle pratiche di libertà che attraversano i territori metropolitani. Solo la musica rap riesce a farlo perché è capace di costruire un terreno di immediato riconoscimento di un conflitto radicale, un terreno «scelto per riproporre la grande divisione coloniale: barbarie contro civilizzazione, natura selvaggia contro Impero». Raccontarsi come barbari diventa allora un modo paradossale di raccontarsi come esseri umani senza abbandonarsi ai buoni sentimenti della civilizzazione e al suo perverso miserabilismo.




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Massimo Ilardi, sociologo urbano, responsabile scientifico della collana «Territori» per le edizioni Manifestolibri. Ha insegnato alle facoltà di architettura di Pescara (Università G. D’Annunzio) e di Ascoli Piceno (Università di Camerino). Ha diretto le riviste «Gomorra» e «Outlet». Tra le sue pubblicazioni: L’individuo in rivolta (Costa & Nolan,1995); Negli spazi vuoti della metropoli (Bollati Boringhieri, 1999); In nome della strada. Libertà e violenza (Meltemi 2002); Recinti urbani. Roma e i luoghi dell’abitare (con C. Cellamare, R. De Angelis, E. Scandurra, (manifestolibri, 2014); Il tempo del disincanto (manifestolibri 2016); Le due periferie. Il territorio e l’immaginario (DeriveApprodi, 2022).

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