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Che cos'è il carcere?



Continuiamo le pubblicazioni su carcere e condizione carceraria, tema di stretta attualità, pubblicando degli estratti da «Che cos'è il carcere?» di Salvatore Ricciardi, recentemente ristampato da DeriveApprodi. Come ha scritto Erri De Luca, si tratta del «più completo manuale di istruzioni per futuri carcerabili».


* * *


Contrastare l’annientamento

Nella mente del carcerato qualcosa comincia a prendere forma quando la sua coscienza mette a fuoco le funzioni del carcere, le sue dinamiche invasive e devastanti. Quando il carcerato cessa di essere ripiegato su se stesso e, insieme ad altri, combatte la sofferenza che lo isola, inizia un percorso collettivo di contrasto dell’annientamento.

Dentro le mura del carcere la persona si rivela capace di resistenze che si traducono in nuove forme di bisogno di tenerezza, di innamoramento e di ironia, di cura di se stessi, del proprio aspetto, di forme alternative di comunicazione, ma anche, purtroppo, di cadute in stat i depressivi. Rinchiuso nelle mura di un carcere la persona scopre capacità di resistenza impensabili. Anche individualmente. La cura eccessiva di se stessi, del proprio aspetto, il corpo come baluardo della resistenza stanno a significare: tu carcere non mi devasti. L’innamoramento permanente: il detenuto si innamora di chiunque gli scriva una lettera affettuosa; di chiunque gli mandi una fotografia; il detenuto scrive poesie d’amore in continuazione; il detenuto escogita anche un linguaggio dissacrante e tutto viene passato al vaglio dell’ironia. E poi fantastica e sogna in continuazione, e inventa forme alternative di comunicazione allontanandosi sempre più dalla realtà. Le grandi passioni per le persone o per le idee si coltivano con illusioni, con sogni e fantasticherie… se le misuri con la realtà vien fuori una sensazione misera. La realtà, difatti, è spesso grama. Ma è la lotta collettiva del carcerato che rompe la solitudine: lo sciopero del vitto, la fermata all’aria, la battitura oppure la deflagrante rivolta ricostruiscono un’identità solida in grado di resistere. Ma in carcere si lotta anche con la cura per la preparazione dei cibi, con la pulizia della cella, col costruirsi un’attività propria opposta alle attività offerte dal sistema carcere, con l’occuparsi del proprio aspetto e di quello dei propri compagni, col vestirsi decorosamente. Per il prigioniero il corpo reale è un territorio di resistenza. Infatti egli si ingegna quotidianamente per la costruzione metaforica del proprio corpo.


Quali regole per resistere alla galera?

Devo ricordare bene le regole per «reggere la galera» nei primi momenti. Appena entrato in cella devi ispezionare attentamente i muri, palmo a palmo, battere con le nocche della mano su ogni centimetro quadrato di muro per sentire se dietro c’è il vuoto. Le celle sono miniere di oggetti preziosi per il detenuto, sono nascosti nel muro o negli interstizi del water, all’interno dei tubi metallici che formano l’intelaiatura della branda, oppure dietro gli stipetti, ovunque. Il detenuto li nasconde per poi recuperarli al momento opportuno. Ma succede che venga trasferito improvvisamente e quell’oggetto resta lì. Per questo motivo, spesso, il trasferimento è fatto all’alba e senza preavviso dalle guardie, per impedirti di recuperare ciò che hai nascosto. Cosa nascondono i detenuti? Ogni cosa che è vietato tenere e che ciascuno si è procurato e nasconde per evitare che una «perquisa» la trovi. L’attenzione quasi maniacale per i particolari è l’arma principale del detenuto. Qualsiasi imperfezione, ogni irregolarità può rivelarsi utile per scoprire un difetto nel sistema di controllo del carcere. Non può esistere un sistema di controllo perfetto, anche il più accurato ha una falla. Si tratta solo di scoprirla. Questo era il mantra dei vecchi carcerati che ho incontrato nella precedente carcerazione. Era il periodo del perfezionamento delle carceri speciali, «a prova di evasione e di rivolta», strombazzavano i ministri sui giornali. Generali ed esperti, provenienti da tutta Europa, mettevano a punto congegni invalicabili. Radio carcere commentava: «quel carcere è sicuro finché qualcuno non scoprirà la crepa e se ne andrà a casa». Ed era proprio così! A cena qualche «detenuto di lungo corso» ci spiegava la teoria generale del carcere: «a prova di evasione e di rivolta è solo quel carcere dal quale i detenuti non pensano più di evadere né di ribellarsi». Questa teoria non vale solo per la galera. Vale ancor di più fuori, per i «liberi»: l’esaltazione parossistica dei meccanismi e dei sistemi di controllo statali e padronali fa parte dei tanti motivi addotti per giustificare l’intenzione di non lottare. Il silenzio imposto dal sistema carcere al corpo prigioniero lo costringe a tornare all’origine della parola, là dove è il silenzio. Le parole, così reinventate, possono narrare ed esporre concetti non rimanendo coinvolte. La speranza dei prigionieri è che le loro parole, dopo aver rotto il silenzio al silenzio tornino.


La pratica delle rivolte

Giugno 1968. Venivano portate avanti parole d’ordine piuttosto avanzate sulla riforma delle carceri e contro la carcerazione preventiva (e non va dimenticato che sia alle Nuove che a San Vittore aveva avuto una certa importanza il contatto con gli studenti arrestati per le lotte universitarie), d’altra parte si poteva rilevare un carattere episodico dovuto sia alla mancanza di organizzazione interna, sia all’importanza eccessiva che vi ebbero motivi di contenuto immediato. La rivolta si estese a San Vittore e a Poggioreale. Aprile 1969. La rivolta. Non a caso è cominciata nel giorno dello sciopero generale per i fatti di Battipaglia, col ribadire la richiesta di riforma e con una azione di denuncia e di appello all’opinione pubblica. Si è continuato con la critica a tutto l’ordinamento giudiziario, alla giustizia di classe (negli slogan e nelle dichiarazioni ai giornali i detenuti introducevano spesso duri attacchi all’istituto della difesa d’ufficio, e soprattutto a quello della custodia preventiva, che sono due nodi fondamentali del sistema classista della giustizia italiana) (…)

A lanciare parole d’ordine fu un «comitato di base» costituito da elementi giovani che si impossessarono del ciclostile per diffondere una «carta rivendicativa» in cui si proponeva l’elezione di un comitato delegato a fare una conferenza stampa e l’impegno di astenersi dai danneggiamenti nel caso le autorità avessero preso impegno di non dar corso a punizioni e trasferimenti. Le autorità non si assunsero impegni. In seguito a ciò, nell’ultimo giorno il comitato non riuscì minimamente a indirizzare la rivolta, che si fece violentissima. Bisogna ricordare che, nella fase non violenta e protestataria la polizia già seguì una tattica di brutale repressione, imbottendo il carcere di bombe lacrimogene. La giusta violenza dei carcerati fu non solo una risposta alla repressione, ma anche un tentativo pratico-politico di riforma carceraria a modo loro. Infatti fu distrutta la cappella (la religione è una delle chiavi del cosiddetto sistema rieducativo basato sulla violenza); l’ufficio matricola; l’ufficio fascicoli personali, dove il detenuto riceve il marchio di reietto; l’infermeria simbolo della discriminazione classista interna, in quanto è noto che le persone di elevata condizione (o che possono pagare) vi sono ricoverate sine die. Furono distrutte le fogne del 1857 e le tubature d’acqua antiquate, i miseri «impianti» per l’igiene, con lo scopo dichiarato di farle costruire nuove e come denuncia di una condizione di vita disumana. Furono resi inservibili i macchinari delle lavorazioni su cui si fatica otto ore per guadagnare 350 lire al giorno. Le autorità dapprima reprimono duramente, poi invece

è il trionfo del paternalismo e delle promesse a buon mercato. Conclusione: l’ordine è ristabilito, col trasferimento punitivo verso carceri lontane: questo significa aggravare l’isolamento del recluso e prolungare di molto la detenzione preventiva, visto che i giudici istruttori rimangono a Torino ed in questo modo le procedure si allungano di anni. Dopo una rivolta a pagare rimangono sempre e solo loro, i detenuti. E sono anni di galera in più.

[Documento detenuti, carcere di Torino, 11 aprile 1969].


Cronaca della rivolta di San Vittore. Milano, sabato 12 aprile 1969. Incontro tra il procuratore della repubblica e i rappresentanti dei detenuti. Nei giorni precedenti, per due volte i detenuti non entrano in cella dopo l’aria: si protesta contro i buglioli, le bocche di lupo e il letto di contenzione; contro il codice penale fascista; contro la carcerazione

preventiva. Il procuratore promette i servizi igienici e più colloqui coi parenti. Dice no all’abolizione della censura sulla posta, alle licenze extra, alla riduzione delle pene (non dipendono da lui, si sa). Le notizie da Torino e da Marassi (Genova) fanno esplodere il quinto raggio (ore sedici di lunedì 14). La parola d’ordine: riforma dei codici, rispetto dell’uomo. Alle sedici e trenta tutto il carcere è in rivolta, in mano ai detenuti. La Tv si affretta a mostrare lo spettacolo a tutti gli italiani: attorno alle mura i Ps con elmi e fucili; in alto, aggrappati alle sbarre, i rivoltosi gridano slogan alla gente sulla strada. Alle ventidue, duemila tra Ps e Cc circondano San Vittore: la battaglia è iniziata; la forza pubblica entra in carcere, tegole, inferriate e sassi lanciano i detenuti; raffiche di mitra, colpi di pistola, centinaia di bombe-gas la polizia. Fiamme dappertutto, la battaglia dura quindici ore. In piazza Filangieri, davanti a San Vittore, dalle finestre del Beccaria (minorile) piovono bicchieri, piatti, panini e cartelli: «siamo tutti uniti con voi!», «sciopero della fame», «giù le mani dai minorenni», «la morte viene data troppo spesso». Decine e decine di feriti, cento persone gravemente ferite tra cui una trentina di agenti. Le guardie prese in ostaggio sono liberate sane e salve. Alle sette del mattino di martedì 15 aprile la resa definitiva: su San Vittore è issata una bandiera bianca. I detenuti con le mani in alto contro il muro sotto il tiro dei mitra, detenuti incatenati subito trasferiti in altre carceri, poliziotti in barella: il carcere quasi completamente distrutto, il folto pubblico benpensante del «Corriere» e della Tv abbandona lieto ed eccitato il campo di battaglia: lo spettacolo è finito, i «nostri» sono arrivati (da Padova, Gorizia, Bolzano, Bologna) «celeri», la virtù ha trionfato, i sonni possono essere di nuovo tranquilli.

[Documento detenuti carcere di Milano].



Il tempo della libertà… o una via d’uscita

Espletate le pratiche della matricola, un sacco nero con dentro le mie cose, imbocco il corridoio che avevo percorso in senso inverso, entrando. Eccolo, l’ultimo cancello. Ora ho la strada davanti. La volta scorsa, dopo vent’anni di mancanza, ho provato a sciogliere gli occhi sulla strada, guardandola come un miraggio. Si muoveva, oscillava, era qualcosa che non riuscivo a calpestare. Dev’essere simile a ciò che provano i minatori quando

risalgono dalle profondità della terra, dopo una lunga permanenza a seguito di crolli di gallerie. Ora con più facilità riesco ad attraversare la via e fermarmi sul marciapiede opposto per guardare da fuori quel luogo. Sono fuori dal carcere. Se il carcere rimane vivo e continua a ingoiare corpi, l’uscita dal carcere non è libertà ma solo una «via d’uscita», una «via di fuga».


Mi trovavo all’ergastolo di Porto Azzurro dove, per quale legge non l’ho mai capito, al prossimo «liberato» venivano fatti scontare gli ultimi quindici giorni nell’isolamento, cioè in una cella da solo dove gli venivano così impediti i contatti con gli altri detenuti. A distanza di qualche mese si apprendeva che il tizio uscito in tale data, non era a casa sua, ma in casa di cura o in manicomio. Una volta che chiesi a un sottufficiale il motivo dell’isolamento, mi rispose: «si ritiene necessario per evitare che si possa consegnare, al liberante, degli scritti da portare fuori clandestinamente e soprattutto per evitare, a chi resta, lo spettacolo della partenza. È dannoso – mi diceva – per chi ha molto da scontare, vedere spesso qualcuno che lascia il carcere mentre egli non può.

[Lettera dal carcere di Alessandria, 30 maggio 1968].


Contrastanti le sensazioni che ti accompagnano lungo il percorso per arrivare alla libertà. I tuoi passi lungo i corridoi, su per le scale, attraverso i cortili segnano il percorso dalla tua cella, dove ti notificano che puoi uscire, e la strada. Quale percezione nel momento in cui fai un respiro profondo e nuovo perché alle tue spalle i cancelli e le porte di ferro si chiudono rumorosamente. Prima di quel respiro, c’è l’esultanza eccessiva tenuta a

bada dalla incredulità, «ma davvero?». I compagni di cella ti hanno abbracciato facendoti le congratulazioni,

la stretta di braccia amiche ti chiarisce che non è un sogno. Ma poi guardi in faccia quello che ti ha abbracciato e

quell’altro che si accinge a farlo e ti assale una tristezza infinita, «loro resteranno dentro». Se ne accorgono i tuoi compagni di cella del lampo di tristezza che ha attraversato il tuo sguardo, e sono loro a rincuorarti, a dirti che «ci vedremo fuori a bere un bicchiere tutti insieme, tra un po’», ma si sa che è una pietosa bugia.

La vera sofferenza è preparare il sacco. Cosa porterai via e cosa lascerai ai compagni di detenzione. Questo libro a te, questa tuta a te, il fornelletto lo lascio alla cella, ne servono sempre. Questo al lavorante quando più tardi passa. Ogni cosa che lasci è un pezzo di te che rimane lì dentro. Gli oggetti in carcere non sono gli stessi oggetti che hai fuori. Qui dentro sono stati compagni di una lotta impossibile, ma combattuta strenuamente, per ritagliarsi pezzi di vita nel luogo senza vita e senza tempo. Il contrasto di emozioni ti accompagna per tutti i passi che ti portano fino alla matricola. Esci dalla cella, la «tua» cella. Lì dentro hai sognato, hai resistito, è diventata tua alleata, la tua fortezza. Lì dentro ti sei sentito uno sconfitto, una nullità, uno finito. Lì dentro hai trovato la forza, una mattina, di alzarti di scatto e dirti, «devo resistere, devo continuare», e hai iniziato a pulire e ordinare la cella mentre gli altri, sotto le coperte, ti implorano di lasciarli dormire domandandoti se «hai incrociato i cavi», se sei «uscito pazzo». La tua cella, la tua trincea di resistenza. Poi i saluti a tutta la sezione. Esci di cella e cominci a muoverti

per il corridoio rimbalzando da un cancello all’altro come una palla da biliardo. Nomi, saluti, mani che stringi, regali libri, accendini, padelle, cose, prometti, esorti a resistere. Ma sei tu che hai bisogno di essere rincuorato.

Infine esci dalla sezione, il cancello si chiude alle tue spalle, a destra ci sono le scale che portano all’aria, quel cortile di cemento che viene chiamato passeggio, dal corridoio a destra sferragliando giunge il carrello della spesa. Verso la matricola attraversi corridoi su cui si affacciano celle, quelle del transito, dove vengono «appoggiati» i detenuti appena arrivati in attesa che il direttore decida in che reparto rinchiuderli. Le conosci bene quelle celle. Vi si affacciano visi sconvolti dagli sguardi interrogativi. Sono arrivati da poco e vorrebbero fare domande su quel

carcere, conoscere le mille cose che ignorano, ma non trovano ancora il coraggio delle parole. Dal carcere non esci solo. Ti accompagna la memoria degli incubi che hai conosciuto lì dentro. Ti accompagna il tuo «stato», quel marchio indelebile che precede il tuo nome e sovente lo sostituisce. Insieme al marchio ti accompagna il panico,

non appena svanisce l’ebrezza della frase «lei può uscire!». Il timore di non essere in grado di ricominciare da capo, di ricostruire relazioni, di inserirti in nuovi ambienti e con nuove persone, sapendo che quel marchio segnerà ogni parola e ogni silenzio che ti rivolgeranno gli «altri». Esci dal carcere e senti vergogna. Un senso di colpa, come quello che si prova alla fine di una guerra per non essere nemmeno morto. Anche in questa guerra i compagni e i proletari morti sono stati tanti, altri non sono stati più in grado di uscire da quei cancelli. Sono usciti orizzontali in una lettiga o in una bara. Oppure senza più l’energia per vivere. Quando esci dal carcere hai due alternative. Dimenticare tutto quello che hai trascorso lì dentro e passare oltre. Una parentesi, a volte lunga, molto lunga, da dimenticare. Oppure mantieni fede alla promessa che hai fatto al momento dell’uscita. Tutti fanno quella promessa ai compagni di cella: «mi farò sentire presto»; «farò di tutto per portarvi fuori»; «mi impegnerò a fare di tutto per combattere il carcere». Poi devi fare i conti con la cruda vita quotidiana che non ti lascia rifiatare. Se scegli di raccontare il carcere scopri che tutti quelli che parlano di carcere hanno conoscenze disparate e confuse, ma anche superficiali, distanti dalla realtà. L’altra volta, uscito dal carcere dopo tanto tempo, rientrando nella società mi sono accorto di un cambiamento avvenuto nel linguaggio di quelli che erano diventati, di nuovo, miei concittadini. Il passare del tempo aveva prodotto l’uso di aggettivi forti, superlativi: «assolutamente, pazzesco, agghiacciante, spaventoso», per compensare pensieri e passioni sempre più deboli. Anche questa volta dunque è arrivata. Arriva quasi sempre quel momento. La liberazione. Tranne per gli ergastolani «ostativi», ultima produzione di un regime che si immagina democratico,ma che è in via di disfacimento reazionario. E si esce dalla galera. Ma anche stavolta qualcosa è rimasto dentro. La piccola radio, il fornelletto, i libri, le buste e i fogli da lettera li ho lasciati dentro volontariamente. Ma un’altra cosa sta ancora dentro. E io sono rientrato proprio per sapere cosa avevo lasciato l’altra volta e cercare di riprenderla. E l’ho trovata! È quella passione che si chiama «odio» per la galera e per tutto ciò che gli somiglia e che la riproduce. Quell’odio l’avevo lasciato dentro. E ora? Ma no! Non lo porto via nemmeno stavolta, non deve uscire. Ne assaporo soltanto il gusto aspro e ruvido per poi inondarne le strade e le piazze e per introdurlo nelle case. Il resto rimane all’interno delle mura. L’odio deve rimanere dentro il carcere e accompagnare quelli che prenderanno il mio posto nella branda della cella 12 e nelle altre brande. L’odio terrà loro compagnia, agiterà i loro sonni, li farà urlare e, forse, renderà attivi i nuovi carcerati, organizzati e combattivi. L’odio per tutto quello che il carcere rappresenta non abbandonerà mai quei luoghi. Resterà lì, ben chiuso dentro e crescerà fino a raggiungere livelli talmente alti da distruggere tutte le galere. E i sistemi sociali che se ne servono. Ora ho capito il vero motivo di questo ritorno. Sono tornato in carcere per sentire di nuovo il sapore acre dell’odio verso la galera, per esserne di nuovo contagiato, non per portarlo via.


Odiare il carcere

Sentirsi liberi di «scegliere» di poter odiare il carcere, e la struttura sociale che lo produce e lo riproduce, è parte fondamentale della lotta per la libertà. Della lotta per sottrarsi allo spirito del tempo, oggi occupato da ossessioni «forcaiole», dalla sudditanza a un ordine immobile, dalla dipendenza gerarchica. Sono ossessioni utili a far dimenticare i responsabili del malessere dilagante. L’odio verso il carcere ci aiuta a individuare i veri nemici

e lottarci contro. La battaglia contro il carcere va intensificata con la convinzione che stavolta non siano i detenuti a soccombere ma il carcere.

Che finisca! Che venga abolito!

Chi siamo noi per osare dimenticare?


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Salvatore Ricciardi (Roma, 1940 - 2020) dopo gli studi tecnici e il lavoro in un cantiere edile è assunto in qualità di tecnico nelle ferrovie dello Stato. Svolge attività sindacale nella Cgil e politica nel Partito socialista di unità proletaria. Partecipa al movimento del ’68 studentesco e del ’69 operaio. Negli anni successivi è tra i protagonisti dell’autorganizzazione nelle realtà di fabbrica e dei ferrovieri. Dopo aver militato dell’area dell’autonomia operaia nel ’77 entra a far parte della Brigate rosse. Viene arrestato nell’80. Alla fine di quell’anno con altri prigionieri organizza la rivolta nel carcere speciale di Trani. Condannato all’ergastolo, alla fine degli anni Novanta usufruisce della semilibertà. Dopo trent’anni di detenzione, riacquista la libertà. È stato redattore di Radio onda rossa a Roma.

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