Sociologo fuori norma
Charles Wright Mills (1916-1962) è stato un sociologo scomodo, fuori dalla convenzione accademica allora, allo stesso modo in cui lo sarebbe oggi e ciò non ha favorito la sua popolarità tra gli studiosi di scienze sociali. Più che confutato è stato dimenticato, accantonato, rimosso, nascosto dietro la facciata rispettabile con la quale si giustifica il mestiere di sociologo e la committenza. Vi sono varie ragioni che spiegano l’impopolarità di cui ha goduto e gode attualmente il suo pensiero e la sua opera, tante quante erano quelle che lo resero popolare negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso tra i ricercatori sociali e in una generazione che si preparava a contestare il sistema-mondo per cambiarlo. Mills è stato uno degli autori, assieme a Herbert Marcuse e altri, che ha influenzato il movimento nascente della nuova sinistra americana, puntando il dito contro la società di massa, le élite di potere al governo che svilivano il valore della partecipazione democratica alla vita sociale e politica, svelando il ruolo ormai apologetico del liberalismo politico. Morì proprio mentre si stavano preparando i fermenti per la scossa generazionale che avrebbe animato la scena politica mondiale nella seconda metà degli anni Sessanta. Nel 1968, al culmine della rivolta dei movimenti giovanili in vari paesi del mondo, nonostante fosse morto da sei anni, la CIA lo annoverava ancora come uno dei più influenti intellettuali della Nuova sinistra a livello mondiale, cogliendo una verità.
Oggi non occorre tanta immaginazione per ritrovarlo, basta cercarlo tra i problemi da lui posti negli anni Cinquanta per riconoscerlo nel nostro tempo. Buona parte di coloro i quali denunciano le ingiustizie connesse all’attuale sistema economico-sociale, non hanno sentito parlare di Mills, pochi conoscono i suoi lavori, tuttavia, la sua nozione di élite al potere è in sintonia con la crescente consapevolezza che la troppa ricchezza e il troppo potere raccolto nelle mani di poche persone, mina la democrazia, la spoglia di sostanza e contenuto, attraverso l’abuso di potere da parte di chi pretende e ottiene il consenso dei cittadini mediante la manipolazione delle coscienze. Consapevolmente o meno, il concetto di élite del potere è ampiamente usato dai media per descrivere l’indignazione per gli enormi profitti delle imprese e delle banche che si accompagnano con la crescita delle diseguaglianze e il connubio sempre più stretto col potere politico.
Poco prima di morire Luciano Gallino, nel 2015, aveva dato alle stampe il suo ultimo libro, Il denaro, il debito e la doppia crisi, nel quale descriveva i vincitori di oggi, le oligarchie dominanti di un sistema economico-sociale-finanziario che dobbiamo, diceva, ancora e più di prima, chiamare capitalismo, termine schivato dal fior fiore degli intellettuali ed economisti, parlanti dagli schermi televisivi. In un momento di sconfitta del movimento di emancipazione dei lavoratori e delle lavoratrici, proseguiva il sociologo torinese, anche gli intellettuali hanno rinunciato al compito di essere, perlomeno, osservatori critici della realtà, non apologeti interessati. Anche Mills visse in un periodo di ripiegamento del movimento operaio americano, di integrazione subalterna dei dirigenti sindacali, di eminenti sociologi che indicavano la fine della lotta di classe e con essa delle classi, la fine delle ideologie e l’avvento della società postmoderna. Puntava il dito critico verso gli intellettuali del suo tempo, accusandoli di essere dei deboli, degli sconfitti a priori, pronti a occultare quel che ancora sapevano e comprendevano dietro un angosciante lavorio mentale e numerose forme di autoinganno. Mills invece rivendicava il dovere di utilizzare il proprio sapere per rendere la società e la vita degli individui meno ingiusta e più libera.
Con Marx oltre Marx
Dotato di una «penna facile» e felice nella scrittura, sorretto da un modo di ragionare vigoroso, capace di farsi intendere anche dai non addetti alla sociologia, era cresciuto in un paese attraversato da grandi trasformazioni economiche e sociali. Era nato il 28 agosto 1916 a Waco nel Texas, da una famiglia della classe media di origine inglese-irlandese. Giovane studente negli anni segnati dalla Grande depressione, dall’ascesa in Europa del fascismo e del nazismo, dall’affermazione dello stalinismo in Unione Sovietica, dalla guerra civile spagnola e dalla preparazione della Seconda guerra mondiale. Il suo primo amore universitario fu per la filosofia, si laureò infatti con una tesi sul pragmatismo analizzato però con intento sociologico; poi conobbe la sociologia e fu amore senza condizioni. Pubblicò le sue ricerche più famose negli anni Cinquanta della Guerra fredda e calda di Corea, della campagna inquisitoria di McCarthy, della resa degli intellettuali al potere dell’establishment politico, economico e militare, conquistandosi un posto da outsider nella sociologia allora dominante, cosa che non gli impedì di avere una cattedra all’università Columbia di New York e di trovare finanziamenti e pubblico per i suoi lavori.
Similmente al suo appetito, che aveva aspetti pantagruelici, divorava letture di testi classici della sociologia e non solo, dai quali estraeva appunti, spezzoni di teorie e metodologie per costruire paradigmi e orientarsi nell’agitato e immenso mare dei fatti sociali come, probabilmente, aveva imparato a fare seguendo il consiglio di Max Weber il quale aveva scritto che spesso le costruzioni teoriche sono luoghi sicuri in cui rifugiarsi per imparare a orientarsi nel mondo vasto e grande dei fatti empirici. La sua riflessione è ardita, attraversa confini disciplinari e teorici, per nulla timorosa del pericolo di incoerenza epistemologica anzi, disposta a correre quel rischio pur di uscire da un pensiero chiuso, formalmente corretto, ma incapace di cogliere la contraddittorietà del movimento reale. Quelle che possono essere rilevate come incoerenze logico-formali, diventano punti di forza, capaci di aprire nuove prospettive di analisi in una costruzione di una teoria sociologica che paradossalmente trae impulso da incoerenze felici e produttive. Questa condizione di incoerenza felice era un aspetto tipico degli intellettuali radical-liberali americani. Disgustati dal decadimento a ideologia del liberalismo, dalla reazione maccartista e capitalistica, dal militarismo imperialista statunitense, dal comunismo sovietico stalinizzato, avevano sviluppato un atteggiamento pragmatico verso lo studio dei processi sociali più importanti della loro epoca, finendo coll’essere attratti dal socialismo, senza però accettare la teoria marxista in tutti i suoi aspetti.
Per sua stessa ammissione, l’ombra di Marx lo aveva inseguito per tutto il corso della sua vita. Mills era attratto dalla scientificità del metodo di Marx, ma cauto e diffidente verso il determinismo che vi riscontrava e la metafisica hegeliana della dialettica, presente nella sua opera. Lo scienziato sociale doveva tener conto di Marx per andare oltre, per costruire una teoria sociale di cui il marxismo era solo una parte, seppur importante. Riconosceva che il quadro teorico d’analisi della società capitalistica elaborato da Marx era il migliore del suo tempo, ma necessitava di una rivisitazione per adeguarlo allo studio delle società altamente industrializzate della metà del XX secolo. Il suo modello di storia era brillante e approfondito, ma occorreva far attenzione a non cadere nella trappola del fascino narrativo col quale Marx descriveva la successione dei modi di produzione nella storia e l’inevitabile susseguirsi.
Le puntualizzazioni e gli aggiornamenti che introduceva nell’analisi dell’opera di Marx riguardavano gli assi portanti della sua analisi: rapporto tra struttura e sovrastruttura, tra classe, sfruttamento del lavoro e coscienza di classe, polarizzazione di classe e impoverimento assoluto, il soggetto agente della trasformazione, lo Stato e le sue funzioni, il concetto di classe dominante, il determinismo economico e la concezione della storia. La sua formazione culturale lo conduceva a rifiutare il Marx filosofo della storia, a ritrarsi da quello che considerava il carattere metafisico del materialismo dialettico e ripiegare su un marxismo valido come metodo di analisi storico-sociale, senza cadere però nella costruzione di leggi del cambiamento rigide e prefissate, che escludevano la possibilità della libera azione delle persone e dei soggetti collettivi.
Il concetto di struttura sociale andava riformulato secondo le categorie della sociologia del potere, andare oltre Marx con l’ausilio di Weber. La struttura socioeconomica si fondava non solo sul potere economico, occorreva considerare il potere militare, quello politico-amministrativo, e il «nuovo» potere rappresentato dai mezzi di comunicazione di massa. Nel capitalismo moderno il motore del cambiamento e della lotta politica non poteva più essere ricondotto alla sola struttura economica, bisognava considerare il peso e l’influenza esercitata dalle istituzioni del potere politico e militare.
Per Mills non vi era alcun meccanismo automatico che provasse la diretta corrispondenza tra collocazione di classe e sviluppo di una conforme coscienza di classe. La lotta di classe non è un dato scontato, è solo una probabilità fattuale che si verifica in specifiche circostanze di tempo, di luogo e di forme diverse. Nessun automatismo garantisce la maturazione dei lavoratori salariati da classe in sé a classe per sé, cosciente del ruolo di agente nel processo di cambiamento della struttura sociale. La coscienza di classe non è implicitamente conficcata nella classe, è una possibilità, una prospettiva, non una certezza. La conflittualità non necessariamente sfocia in una coscienza trasformativa e rivoluzionaria del sistema; può accadere che essa produca l’istituzionalizzazione dei conflitti, l’assorbimento e l’integrazione nel sistema e non obbligatoriamente una lotta politica di classe per il potere. Proprio accettando questo presupposto Mills basava la sua previsione sulla ormai data per acquisita passività dei lavoratori, assolutizzava il dato e affermava che la grande narrazione del movimento operaio, come agente primo della trasformazione rivoluzionaria, era terminata. Occorreva cercare nuovi soggetti capaci di essere agenti della trasformazione sociale e attorno a essi costruire una nuova sinistra.
La conclusione alla quale giungeva Mills era che le classi sono soltanto una delle basi sociali dalla quale può formarsi la coscienza dei propri interessi: altre variabili pesavano e interferivano nel processo di formazione o meno della coscienza di classe. Il suo ragionamento non riguardava solo le classi subalterne, una concezione economicista inficiava anche l’individuazione della composizione di quella che era chiamata - sbrigativamente secondo Mills - classe dominante. Infatti, nelle sue ricerche aveva abbandonato quella definizione e introdotto quella di élite del potere. Non era solo una questione terminologica: la prima definizione rischiava di riproporre il determinismo economico che portava a considerare solo la funzione dei ceti proprietari nelle sfere alte del dominio. Con la seconda invece si poteva cogliere, accanto al potere economico, il peso e la funzione, esercitati dall’ordinamento politico e dall’istituzione militare, nell’indirizzare le scelte della classe dominante.
Un autore di successo
Negli anni Cinquanta pubblicò i libri che lo resero celebre, in particolare Colletti bianchi. La classe media americana (1951), uno studio sui nuovi ceti medi, e L’élite del potere, un’analisi sulla classe dominante americana, considerata nella sua tripartizione di potere: economico, politico, militare. Nella ricerca sul nuovo ceto medio, il quadro di riferimento storico-interpretativo era dato dalle trasformazioni della struttura proprietaria nell’economia americana. Finita l’epoca dei produttori indipendenti, delle imprese a proprietà familiare, tipica del XIX secolo, a partire dalla Prima guerra mondiale l’assetto economico si caratterizzò per la presenza di grandi imprese oligopolistiche nei settori della produzione, del consumo, della finanza, della vendita all’ingrosso e per l’estendersi dell’apparato amministrativo e burocratico dello Stato. Migliaia e migliaia di «colletti bianchi» dipendevano da questi settori. Erano impiegati, segretarie, commesse, tecnici, ingegneri, dirigenti. Erano dei lavoratori dipendenti e ricevevano un salario. La loro condizione lavorativa e la collocazione nei rapporti di produzione e potere, li rendeva del tutto simili ai proletari, cioè lavoratori espropriati dei mezzi di produzione. Ne tratteggiò la psicologia di soggetti privi di una propria soggettività, la cui percezione di sé era ricavata dalla realtà costituita dall’uniformità della società di massa che li aveva modellati e li manipolava per fini a loro sconosciuti.
La società di massa era descritta con tonalità orwelliane: imperava l’organizzazione burocratica, la manipolazione delle coscienze. Dai «colletti bianchi» non c’era da aspettarsi nulla di buono in termini di presa di coscienza e di sviluppo di forme antagoniste e di lotta, comprese quelle minime sindacali. Erano bollati come le truppe di retroguardia del capitalismo, con il loro «squallido» modo di vivere, le loro malsane aspirazioni. Erano un predicato incapace di diventare un soggetto, scivolati silenziosamente nella società, senza pretese tali da farne una classe omogenea, senza progetti per il futuro, costretti a dipendere da forze più grandi di loro. Chi erano queste forze più grandi? Chi comandava negli Stati Uniti e più in generale nelle società industriali avanzate? Nel rispondere Mills operava in due direzioni: la definizione concettuale di cosa si intende per potere, attraverso una rivisitazione dei classici della sociologia, e la raccolta di dati statistici, documentari, biografici riguardanti le persone che esercitano potere. Il risultato fu il libro L’élite del potere, del 1956. Fin dal titolo era rintracciabile il concetto chiave, «élite», che reggeva la sua esposizione, mutuato dalla rilettura-rivisitazione dei teorici dell’élitismo: Gaetano Mosca, Vilfredo Pareto e Roberto Michels che avevano introdotto nell’ambito della sociologia politica una serie di concetti classificatori per definire i ruoli di potere nella vita istituzionale, sociale ed economica.
La classe dominante, intesa come relazione tra gruppi di individui che hanno in comune il controllo sulla proprietà dei mezzi di produzione, gli parve un concetto parziale, utile per individuare un gruppo di persone dominanti in ambito economico, ma incapace di spiegare - se non stabilendo relazioni meccaniche tra economia e società - altre forme di potere inerenti l’ambito politico, statuale, militare, istituzionale, come aveva fatto Max Weber, letto dal nostro come autore che riprendeva e concludeva l’opera di Marx, integrandone le parti mancanti. Definì l’élite in termini istituzionali: gruppi di persone che occupano posizioni di primo piano nelle grandi imprese economiche e finanziarie, nelle forze armate, nel governo, nell’amministrazione, nei mezzi di comunicazione. Indagò gli elementi che legavano i tre «ordini» di potere in quanto gruppi aperti, nel senso dell’interscambio di personale e di risorse: si entrava e si usciva dai comitati direttivi secondo il sistema delle porte girevoli.
L’analisi della élite del potere era collegata alle caratteristiche che aveva assunto la società americana negli anni Cinquanta: una società di massa, fondata sull’atomizzazione del pubblico. Il trionfo dell’uomo-massa era anche la risultante della perdita di sostanza e pregnanza del movimento operaio. Negli Stati Uniti il venir meno di questo soggetto, unito alla rapida integrazione subalterna dei sindacati nel sistema e all’assenza di un partito dei lavoratori, era una delle cause del degrado della democrazia sostanziale, della trasformazione delle elezioni in farsa, del monopolio delle élite sui mezzi di comunicazione, della riduzione di milioni di lavoratori e lavoratrici in «automi» con pensieri e gusti prefabbricati. Individui-massa senza opinioni proprie, ricettori passivi delle opinioni altrui, diffuse dai grandi strumenti d’informazione: stampa, radio, televisione, cinema. Il potere decisionale si concentrava sempre più nelle istituzioni militari, politiche ed economiche, per di più organizzate burocraticamente dove le decisioni, affidate alla procedura, seguivano un percorso artificiale che sfociava nell’irresponsabilità generalizzata. Un meccanismo impersonale pericolosissimo, individuato come una delle possibili cause dello scatenamento di una nuova guerra mondiale (Le cause della Terza guerra mondiale, 1958).
Uno stile di vita contrastivo
Critico sociale potente e controverso, insegnante, scrittore, umanista con venature illuministe, individualista, uomo libero, senza collare, in Mills vita e opere si fondono in un’unica autobiografia, quasi indistinguibili, pena la non comprensione del suo percorso intellettuale. Le sue idee, unite a uno stile di vita trasgressivo per quei tempi, simile a quello di Ginsberg, di Kerouk e dei beatniks, scuotevano un ambiente tendenzialmente conformista, grigio, accomodante, apatico. Alto e massiccio, energico e attivo, costantemente irrequieto, si recava all’università in motocicletta portando il materiale didattico non all’interno di lucide borse di pelle nera ma in un borsone a tracolla, col giubbotto di pelle, così da sembrare un novello Marlon Brando appena uscito dal film Il selvaggio. Se allora tutti i professori universitari vestivano con completi grigio-neri, perfettamente stirati, con cravatta e camicia bianca d’obbligo, egli ostentava camicie colorate, jeans stinti, stivali da lavoro. Forse gli stessi che aveva indossato poche ore prima lavorando alla costruzione della propria casa, perché era un abile uomo tuttofare, ideò, progettò e realizzò con le sue mani due case in cui andò a vivere. La figlia Kathryn lo ricorda mentre lavorava alla ristrutturazione della casa, col sudore che gli rigava il volto. Così come lo ricorda poi nel suo studio al mattino, seduto alla scrivania, circondato dai libri mentre scriveva. Questi due episodi ben lo rappresentavano: sosteneva che bisogna essere bravi col cervello e con le mani. Saper riparare la propria moto, mettere le mani nell’impianto elettrico o nei lavori di muratura, e impostare e scrivere una ricerca sociologica, studiare, leggere, progettare libri e anche coltivare il giardino, l’orto, saper produrre il cibo necessario al mantenimento, compreso il pane fatto in casa, cosa di cui si vantava coi suoi amici, rimproverandoli se non sapevano farlo. Gli studenti lo amavano, i colleghi non sempre. Per l’accademia era un uomo scomodo e imbarazzante, il suo modo di essere e le sue idee fornivano abbondanti motivi di critica ironica e anche malevole. Lo sapeva e non si dispiaceva per questo, considerava quei colleghi arroganti, noiosi, privi di idee innovative e di immaginazione.
All’interno di quell’ambiente cominciò a sentirsi un radicale, ribelle in polemica intellettuale e comportamentale con l’establishment, condannandosi a vivere con pochi amici fraterni e senza appartenenze a gruppi politici o associativi di vario genere. Egli stesso riconosceva di essere un egoista e un individualista. Egoista perché le sue ambizioni erano pregnanti e a tratti esagerate, ciò lo condannava a pretendere molto da se stesso. Individualista, perché credeva nella necessità imprescindibile di scegliere liberamente gli argomenti di ricerca e di lavorare come un artigiano indipendente.
Il mestiere del sociologo deve basarsi, secondo l’azzeccato titolo del suo libro, su L’immaginazione sociologica (1959), e intrecciarsi con la politica perché ha a che fare con la trasformazione della società. La sociologia, da lui intesa come svelamento dei meccanismi sociali che limitano la libertà, contiene una forza liberatoria capace di spingere le persone a svolgere consapevolmente il loro ruolo e diventa uno strumento per promuovere libertà e ragione, contro l’operare non democratico delle élite di potere.
Nella società di massa la condizione dell’intellettuale e dello scienziato è assimilabile al ruolo del «tecnico», dipendente dai committenti, cioè dai centri di potere istituzionali delle élite. Diventa quindi un produttore di idee commissionate dai committenti, un salariato privo della propria indipendenza di ricerca e di giudizio in quanto lavora con mezzi di produzione non suoi e divulga le conoscenze attraverso un sistema di distribuzione che non controlla. L’intellettuale viene meno alla funzione di essere, secondo la tradizione ereditata dall’Illuminismo, depositario della ragione umana, di educatore della coscienza del pubblico. Per il semplice fatto di esistere la sociologia e i sociologi non possono esimersi dall’essere coinvolti nei conflitti sociali. Praticare la sociologia significa per Mills praticare «la politica della verità». Intellettuali e sociologi dovevano tornare a interrogarsi sul ruolo della ricerca sociale prendendo spunto dalla tre scelte possibili prospettate già nel Settecento per gli intellettuali: diventare dei Re-filosofi nella convinzione che il trionfo della ragione coincida con l’affermazione dell’uomo di ragione; diventare consiglieri del Re, isolandosi nella specializzazione senza occuparsi della struttura sociale nel suo insieme; oppure restando, come consigliava nel libro L’immaginazione sociologica, indipendenti nel fare il proprio lavoro, nello scegliere i temi della ricerca, puntando a influire su chi prende le decisioni ma, ancor più facendo sì che i risultati della ricerca giungessero al pubblico.
Il guerrigliero solitario
I critici conservatori del mondo degli affari, della politica e della ricerca accademica, lo accusarono di cripto-marxismo nel pieno della campagna maccartista, e lo denominarono il Trotsky del Texas. Gli stessi, pochi, marxisti presenti sul suolo americano diffidavano di lui e della sua sociologia che consideravano intrisa di critiche inopportune a Marx e di sconfinamenti in autori non marxisti, come Max Weber, Wilfredo Pareto, Roberto Michels, Gaetano Mosca. Fu messo al bando dalla sociologia ufficiale, irritata dalle incursioni pungenti in campo metodologico e teorico, sostenute da uno stile tagliente, corrosivo, a volte canzonatorio, capace di scrivere su argomenti imbarazzanti in modo imbarazzante. Mills non aderì ad alcun movimento politico, la sua posizione politica può essere definita un impasto tra liberalismo radicale e socialismo democratico. Sicuramente antistalinista, quanto insofferente per l’anticomunismo di maniera, osservò con interesse quanto stava avvenendo in Unione Sovietica e nelle Democrazie popolari dopo il XX Congresso del Partito comunista del 1956. Si andò convincendo della necessità di fondare una nuova sinistra, dopo che quella basata sulla «metafisica della classe operaia», aveva esaurito le sue potenzialità e messo in luce tutti i suoi limiti analitici e politici. Non contribuirono a renderlo un personaggio gradito la sua critica alla famiglia dei Kennedy, i suoi viaggi in America Latina, in Europa, in Unione Sovietica, dove si fece curare i suoi disturbi cardiaci in una clinica sul Volga suscitando malintesi e osservazioni malevoli nel suo paese. Nell’agosto del 1960 si recò a Cuba, interessato osservatore della giovane rivoluzione castrista. Pubblicò un libro nel quale illustrò con entusiasmo le realizzazioni della rivoluzione e condannò fermamente le scelte della politica estera americana (Lettere cubane, 1960). Nuove critiche e polemiche anche aspre si riversarono su Mills e andarono ad aggiungersi allo stato di salute precario a causa del disturbo cardiaco, al ritmo di lavoro intenso cui si sottoponeva e alle vicende famigliari. Riuscì a concludere la sua antologia su I marxisti(1962), senza vederne però l’edizione, un nuovo attacco di cuore lo stroncò a New York il 20 marzo 1962 a soli 46 anni. Sulla sua tomba fu posto l’epitaffio, scelto dal suo amico Ralph Miliband, tratto dal suo ultimo libro: «Ho cercato di essere obiettivo. Non pretendo di essere distaccato». In seguito, Miliband scrisse che il suo amico sfuggiva a ogni etichettatura, non poteva essere catalogato. Non aveva mai fatto parte di un partito o di una fazione, non si riteneva un marxista, disprezzava l’ortodossia socialdemocratica e del mondo comunista sovietico, detestava i compiacenti intellettuali liberal. Stava con la sinistra, ma non era di sinistra, era un «un guerrigliero solitario, non un soldato regolare» (Letters and Autobiographical Writings, 2000, p. 341). La sua disciplina era l’autodisciplina, l’unica che tollerava. Aveva fiducia nella propria iniziativa, nel proprio pensiero, questo era il suo punto di forza ma anche la debolezza che lo condannava alla solitudine. Nonostante tutto questo, forse a causa di questo, aveva occupato una posizione unica nel radicalismo americano e la sua morte lasciava un vuoto incolmabile. In un mondo disumano aveva insegnato cosa significa essere un intelletto libero e umano, uno spirito libero, come si dice, e tale è rimasto.
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