In occasione del ventennale di Genova 2001, pubblichiamo un estratto dal libro di Diego Giachetti, Un rosso relativo. Anime, coscienze, generazioni nel movimento dei movimenti, Datanews, Roma, 2003 (pp. 69-89). Nel brano viene analizzato come i media di destra hanno preparato, rappresentato e poi gestito i giorni del G8 e l’opposizione dei movimenti che manifestarono in quei tre giorni.
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La vittoria elettorale del centrodestra alle elezioni politiche del 13 maggio 2001, la formazione del secondo governo Berlusconi, il passaggio dell’Ulivo all’opposizione sconvolgevano il quadro politico entro il quale era maturata la scelta di ospitare a Genova la conferenza degli «otto grandi» della terra. Per il centrodestra, appena giunto al potere, l’appuntamento di luglio diventava la prima seria prova del nuovo governo e grande era il timore, espresso dai giornali di area, che quell’evento potesse tramutarsi in uno smacco, in una «brutta figura».
[…]
La sindrome di cadere in una trappola era accentuata dalle scelte politiche operate dalla principale forza di opposizione, i Democratici di Sinistra, i quali, alla vigilia del G8, dopo averlo organizzato da uomini di governo, smettevano «l’abito ministeriale e perso il potere [rindossavano] l’“eskimo sessantottino”, si schieravano accanto a chi [metteva] a “tracolla il “tascapane” con le molotov e si preparavano a protestare contro quello del quale loro stessi [erano] stati i promotori: il G 8 a Genova voluto da D’Alema». In questa frase, tratta da un articolo di Alfredo Biondi [1] erano riassunte le paure, le apprensioni del centro destra e gli stereotipi con i quali, più in generale, si apprestavano a guardare, capire e governare quello che stava per accadere a Genova.
Un primo grande stereotipo – che i giornali del centro destra hanno usato per rappresentare il movimento di Seattle e quello che ha dato vita alla manifestazione di Genova – è stato il ’68. Nonostante siano passati più di trent’anni, si scopre in loro un ricordo ben vivo e ancora caldo. Lo rievocano nel timore di una ripetizione di quell’evento giudicato funesto, infatti il ’68 e gli anni Settanta sembrano non appartenere alla storia d’Italia, nel senso che vengono presentati come anni sprecati inutili, pericolosi, «da buttare via», da dimenticare. Peccato che questa «parentesi dello spirito» si ripresenti: stiamo per assistere ad «un film già visto» nel ‘68 scrive Franco Zeffirelli su «Libero» del 17 luglio. Chi si prepara a contestare il vertice, soprattutto i giovani del movimento antiglobalizzazione, sono del tutto simili a quelli che li hanno preceduti, il loro «vociare» il loro «manifestare» fanno venire in mente al regista i «rivoluzionari da operetta» del ’68 i quali «erano un nulla», non «ottennero mai nulla», e «accumularono soltanto frustrazioni».
A Genova, scrive nell’editoriale del 21 luglio il direttore di «Libero» Vittorio Feltri, «è in corso un revival: assistiamo alle stesse scene di trent’anni fa, udiamo le stesse banalità spacciate per ideali»; oggi, come allora, «questa poltiglia umana sta insieme perché ha identificato un nemico senza volto: la globalizzazione». Una «poltiglia» composta, secondo Paolo Guzzanti, vicedirettore del «Giornale» e Senatore di Forza Italia, da «bombaroli, luddisti, tossicodipendenti della sassaiola, squadristi delle tute bianche» [2] dentro la quale aleggia lo spirito del ’68 e non solo. Infatti, scrive preoccupata «La Padania», «alcuni sessantottini si sono mantenuti ideologicamente integri e hanno trasmesso la loro “sapienza” alle nuove generazioni» [3]; tanto è questo pericolo che il giornale della Lega Nord avverte il bisogno di ricordare, in prima pagina il 30 luglio, che Per cambiare non serve un ’68. A nulla sembra valere il sano realismo storico del «Secolo d’Italia» sulle cui pagine, il 29 luglio si può leggere di una vera e propria Paranoia dei nuovi agit-prop non giustificata in quanto: «siamo lontani dagli anni settanta e da un nuovo ’68, il contesto storico e sociologico non consente il prodursi di un terreno simile» .
Si separa da questa lettura in parallelo tra ’68 e movimento antiglobale «ll Foglio» il quale introduce una distinzione capziosa. Se proprio un parallelo si vuole fare, allora è meglio riferirsi al movimento del ’77, piuttosto che al ’68 di cui molti redattori, collaboratori, giornalisti e anche lettori del giornale di Ferrara hanno fatto parte. Noi non siamo affatto dei sessantottini frustrati, sembrano rispondere a Feltri e agli altri, anzi i movimenti della fine degli anni Sessanta hanno ottenuto molto: «volevano il potere nel mondo della cultura, della comunicazione, della politica e dell’economia e l’hanno ottenuto; volevano contare nelle istituzioni, nei sindacati e nelle professioni, e hanno permeato di sé l’amministrazione della giustizia penale, il mondo della medicina e della ricerca, l’arte il cinema e l’editoria. Volevano tutto, e hanno avuto qualcosa». Non sono nei sessantottini le radici del movimento no-global, perché questi ultimi non vogliono niente «demonizzano il potere in ogni sua forma, sono l’espressione derelitta, sulla scia del carnevale tragico del ’77 italiano (in pieno terrorismo), di un male apparentemente incurabile: la tendenza ad assumersi il dolore del mondo» [4]. Una logica da bisturi manicheo separa il movimento buono, democratico e progressista, da quello cattivo: violento e nichilista, salvando così l’anima (e la collocazione politica e sociale attuale) degli uni, bruciando quella degli altri.
Memore della sua esperienza e del suo protagonismo in quelle vicende Giulio Savelli [5] interviene per ricordare che il ’68 fu un fenomeno di protesta giovanile che interessò tutto l’Occidente. Le sue istanze di rinnovamento e di alternanza trovarono nel nostro paese la resistenza del blocco consociativo formato dalla DC e dal PCI che tolse al movimento la speranza di introdurre «la pacifica alternanza al governo», spingendolo a «forme extraistituzionali». Tale situazione potrebbe ripetersi perché l’opposizione al governo di centro destra potrebbe strumentalizzarlo per fini di lotta politica. Così un movimento di protesta, che in qualche misura è fisiologico di ogni società conflittuale, potrebbe degenerare «verso forme di violenza al limite della guerra civile».
Dentro questo parallelismo storico che identifica il terrorismo come una prosecuzione del ’68 italiano vengono interpretate le bombe che esplodono in varie città d’Italia alla vigilia del G8. Esiste un collegamento, stando ai titoli dei giornali, tra il movimento di protesta e le bombe: Pacifisti scatenati: giù bombe, titola in prima pagina «Libero» del 19 luglio, riferendosi alla lettera esplosiva inviata alla redazione del TG4 diretto da Emilio Fede e ad altri ordigni «anti G8» ritrovati a Milano, Bologna, Treviso. Lettera bomba “apre” il G8, scrive il «Secolo d’Italia» il 17 luglio, lo stesso giorno «Il Giornale» apre la prima pagina col seguente titolo: Due bombe inaugurano il G8 a Genova, mentre «La Padania» gli fa eco con G8, scoppia la prima bomba, seguito da un sottotitolo che recita: «le BR annunciano la loro presenza: porteranno la lotta armata». L’unico ad accennare esplicitamente alla possibilità che si tratti di una provocazione è il quotidiano di Alleanza Nazionale il quale titola il 19 luglio: Bombe contro il G8. I provocatori alzano il tiro.
A nulla è valso il breve appello lanciato da Adriano Sofri nella rubrica de «Il Foglio», Piccola posta, del 26 luglio col quale invitava i giornali di centrodestra a «lasciar stare Pasolini e la polizia di Valle Giulia». In pieno timore per un ritorno del ’68 non potevano mancare i rinvenimenti della polemica pasoliniana contro i «cari studenti» protagonisti degli scontri del marzo 1968 alla facoltà di architettura di Roma.
Nuovamente si ripropone lo schema dei contestatori figli di papà, piccoli e medio borghesi, contrapposti ai proletari, carabinieri e poliziotti, in piazza per poche lire a difendere l’ordine pubblico. Fin dalla vigilia si accusano i mass media di avere un atteggiamento di eccessivo riguardo verso i manifestanti i quali assomigliano troppo ai loro «papà di Valle Giulia», mentre le forze dell’ordine sono chiamate a scendere in piazza a prendere «bastonature e insulti» per 40 mila lire al giorno più vitto e alloggio ed eventuali straordinari in caso si superino le sei ore di servizio [6]. In questa campagna preventiva a favore delle forze dell’ordine, contrapposte ai figli gaudenti della piccola e media borghesia italiana contestatrice e protestataria, si distingue in particolare il quotidiano «Libero», il quale insiste sull’esiguità degli stipendi di poliziotti e carabinieri (1.800.000/2.000.000 al mese) e richiama l’attenzione sulle condizioni sociali e di vita delle forze dell’ordine. Si dà risalto alla pericolosità dei gruppi estremisti, anarchici e comunisti, che parteciperanno alle manifestazioni, come risulta da un dossier riservato di 270 pagine curato dalla polizia [7]. Si presenta con ironia il manuale di comportamento distribuito dal Viminale alle forze dell’ordine, riportato dal giornale di Feltri con questo commento il 17 luglio: «hanno ricevuto un ordine: non reagire all’attacco dei giottini. A costo di prenderle».
Regge il paragone tra giottini e papà sessantottini di Valle Giulia? Apparentemente sì, sono anche loro «infantili e anarcoidi», ma, per la verità, si legge sul quotidiano di Alleanza Nazionale del 31 luglio, «un ventenne, oggi, vista la precarietà degli sbocchi lavorativi, qualche motivo di contestare in più rispetto ai suoi coetanei di trent’anni fa ce lo potrebbe avere». Se il paragone s’ha da fare, secondo il «Secolo d’Italia», si risolve a vantaggio della protesta attuale che ha caratteristiche nuove, differenti, certo criticabili e strumentalizzabili da parte della sinistra, ma che vanno comprese e trattate politicamente dalla destra, non certo liquidate.
Il giudizio sul movimento antiglobalizzazione è indirettamente derivato da come i giornali del centrodestra presentano la globalizzazione dei mercati e dei capitali. Si va dall’accettazione acritica della globalizzazione come fatto inevitabile, insito in una metafisica che opererebbe nel campo dell’economia e della politica e che porterebbe inevitabilmente a quello sbocco, ad una visione del processo economico in corso come scelta di un modello di sviluppo, quello migliore, fra i tanti possibili. L’economia liberista, il libero mercato, senza freni e regole imposte da precedenti sistemi economici statalisti o comunisti, rappresenta il gene fecondatore delle democrazie: «non c’è democrazia se manca il mercato», e il suo sviluppo inevitabile è la globalizzazione, la quale se «ben governata può aiutare il mondo a superare povertà, malattie e diseguaglianze» [8].
Ai fautori di questa tesi il movimento di protesta antiglobalizzazione appare reazionario, o suscitato unicamente ai fini di una strumentalizzazione politica e quindi privo di contenuti, di ragioni d’essere, inconsistente. Reazionario come tutte le ideologie del Novecento che sognavano un mondo diverso, un futuro nuovo, e volevano salvarlo dall’ingiustizia, dalla diseguaglianza e dalla povertà. Oggi questo non è più, viviamo in un contesto che finalmente ha svelato la sua verità nascosta: «il migliore dei mondi possibili è una candida ma pericolosa scemenza, e l’unico avvenire che valga la pena di sognare e di vivere è quello prodotto dalla correzione progressiva di alcuni aspetti del presente»; chi ha la legittimità per correggere e governare il presente, che poi è il nostro futuro in quanto non c’è futuro, sono i governi «degli otto paesi più industrializzati» non certo i movimenti ai quali i disincantati del «Foglio» ricordano che il mondo «appena uscito dal XX secolo non desidera essere salvato», quindi, concludono scimmiottando il Marx del Manifesto, «Salvatori di tutti i paesi astenetevi» [9].
Se in Occidente le ideologie sono scemenze allora questo è il movimento «del tempo del nichilismo», afferma con virulenza Gianni Baget Bozzo, e ha un suo alleato nel «fondamentalismo islamico» in quanto hanno in comune «l’odio per l’occidente e per l’ebraismo». È un movimento reazionario, anticristiano, antioccidentale il quale nel suo radicalismo ecologista ha un antecedente «nella cultura nazista» [10].
Quella del movimento è una finta ideologia, vecchia, superata, dannosa, un rimasuglio di «ciarpame di terzomondismo zapatista, pauperismo anabattista, allucinogeni prodotti dal cosiddetto New Age, cattive digestioni marxiste», che misura tutta la sua inconsistenza, infatti si rappresenta con «una semplicità disarmante, magliette con l’icona del Che, bandane, orecchini infilati dappertutto, droga, più le solite attrezzature: manici di picconi, chiavi inglesi, bombe molotov, quadrelli di porfido e cattivi maestri» [11]. Esso fornisce una massa da manovrare e strumentalizzare a fini politici. La globalizzazione «serve come pretesto per una contestazione permanente e a tutto campo, nella quale gli orfani del comunismo, i nuovi movimenti anarcoidi, e larghi settori dell’opinione moderna, cristiana e no, si ritrovano insieme in un calderone esplosivo manipolato dai professionisti della violenza» [12]. Di suo il movimento sembra avere solo la malattia di protagonismo narcisistico suscitata dall’esposizione davanti alle telecamere. Una vera e propria patologia incarnata nei suoi leader, presi di mira con articoli irriverenti. Agnoletto in particolare è descritto come un mix di buonismo e rigore leninista, «un narciso che si finge Ghandi, un finto ingenuo, furbo di sette cotte, bocca schiumante di rabbia sociale e di veleno antiglobale» [13].
Questa visione della globalizzazione e del movimento di contestazione non appartiene a tutto il centro destra. Due quotidiani, «Secolo d’Italia» e «La Padania» espongono interpretazioni e chiavi di lettura differenti. Il processo di globalizzazione, forse inevitabile, ha però una serie di effetti collaterali che vanno denunciati, combattuti e modificati. Esso ha prodotto estraniamento culturale, perdita del senso e del valore della politica, esasperato economicismo, spersonalizzazione dell’individuo, e il «G8 appare sempre più come il megafono dei forti, una sorta di palcoscenico dove l’attore principale è sua maestà il dollaro», vi sono quindi «aspetti inquietanti della globalizzazione di cui l’uomo occidentale deve ben guardarsi» [14].
Questa destra ha più di una ragione per opporsi alla globalizzazione e ritiene anche di avere strumenti culturali e di analisi ben più sostanziosi e pregnanti di quelli dei no-global. Intanto, dicono subito, fin dal titolo, sul quotidiano di Alleanza Nazionale del 16 luglio, Contro il G8 è meglio Jünger di Toni Negri. Al globalismo occorre opporre l’identità nazionale, la difesa e riscoperta delle tradizioni locali e dell’identità dei popoli, delle proprie origini, lo sviluppo organico delle economie, il rifiuto della demonìa del denaro, la capacità di coniugare valori etici e produttivi, ripresa del senso dello Stato, quindi della politica. Occorre insomma reagire opponendosi alla distruzione incontrollata delle etnie, delle culture, delle diversità [15]. La globalizzazione o mondializzazione è un processo inevitabile, ma proprio perché tale va indirizzata e controllata di modo che non diventi un ammasso di popolazioni, identità, culture e etnie, amalgamante dal mercato universale, triturate, spezzettate, frantumate. La globalizzazione deve coniugarsi col rispetto delle identità, il globale deve congiungersi col locale dando vita a un termine nuovo che rappresenta questa osmosi «glocal» o «glocale» e che viene usato in particolare dagli ideologi della Lega Nord.
Nello stesso momento in cui si critica la globalizzazione si prendono anche le distanze dal movimento che la contesta il quale esalta il cosmopolitismo, mentre la destra esalta l’identità. D’altronde l’ideologia del movimento attinge a piene mani in una concezione universalista e mondializzata, che cosa è stato infatti il marxismo, si domandano i «padani», se non la teorizzazione del processo di omologazione globale? Proletari di tutto il mondo unitevi mi pare sufficiente per descrivere la volontà di unificazione del mondo attraverso la creazione dello Stato dei lavoratori [16]. Rispetto ai loro coetanei, che scendono in piazza Genova, i giovani di destra, sulle pagine del «Secolo d’Italia» del 20 luglio, rivendicano una terza via: «Né con le tute bianche, né con la Mc generation, ma dalla parte dei popoli non dei violenti a difesa dell’identità contro la deriva culturale del dogma globale». Solo che il processo di globalizzazione che è anche annichilimento delle identità e delle ideologie ha ridotto al minimo le possibilità di costruire alternative di sistemi produttivi validi, ceti dirigenti capaci di sostituire quelli attuali, domina sola la scontentezza improduttiva e rabbiosa. Crollati i comunismi e i muri ideologici e non, finita la lotta di classe, in Occidente si diffonde un triste e preoccupante nichilismo tra le nuove generazioni [17]. Un nichilismo di cui è responsabile sia la cultura neocapitalistica occidentale sia quella marxista in quanto entrambe hanno tolto ai giovani la propria identità, li hanno privati della tradizione, e del patriottismo, «quello delle vere patrie, la Baviera, la Bretagna, la Catalogna, il Galles, la Padania, la Provenza, la Scozia e tante altre» [18].
Il movimento antiglobale diventa così, per questa destra, un effetto collaterale della globalizzazione, un «figlio minore del globalismo» come sostiene in due interviste Marcello Veneziani [19]. Quindi l’antagonismo e il conflitto del futuro non sarà quello tra globalizzazione e movimento antiglobale, ma tra universalismo e cultura delle identità nazionali, culturali, religiose legate all’orgoglio della propria appartenenza, del «proprio campanile, della propria città, regione, nazione». Alla globalizzazione, afferma l’intellettuale di destra, occorrerebbe opporre un’«internazionalismo delle patrie» che rivendichi il diritto a «rimanere padroni in casa nostra».
Macabre previsioni e interpretazioni dei fatti di Genova
Con insistenza «Libero» nei giorni precedenti le manifestazioni genovesi paventa la possibilità che ci «scappi il morto». Un timore abbastanza diffuso ed esplicitato sui giornali della destra al punto da far dire al vicedirettore del «Giornale», Paolo Guzzanti, che forse sarebbe meglio mandare in piazza polizia e carabinieri senza armi da fuoco: «perché se c’è l’arma da fuoco, c’è regolarmente il giovane carabiniere terrorizzato che spara e uccide» [20]. Una proposta insana e sbagliata replica «Libero» che la bolla con disprezzo in quanto «una polizia disarmata ve bene per Carnevale». Il 20 luglio, giorno in cui nel primo pomeriggio viene ucciso il giovane Carlo Giuliani, il quotidiano di Feltri esce nelle edicole con due articoli i quali anticipano quanto sta per accadere. «Oggi sarà il giorno del morto», scrive Renato Farina. Di rincalzo Pierluisa Bianco, in un articolo che descrive il movimento come un’orda di selvaggi già fin dal titolo (L’irresistibile richiamo della foresta) afferma che se «ci scappasse un morto [esso] darebbe un tragico logo al movimento dei logo». Più cauto ma non meno esplicito Mario Cervi sul «Giornale» del 19 luglio secondo il quale il summit di Genova avrà connotazioni e svolgimenti drammatici perché «cosi vogliono i fautori del caos globale […] l’incidente è il loro mestiere, l’oltraggio poliziesco la loro perenne giustificazione».
I centri sociali si sono sostituiti alle parrocchie, Luca Casarini e Vittorio Agnoletto ai preti e così, invece dei buoni consigli che ricevevano i giovani nelle parrocchie, oggi insegnano loro «come usare al meglio una sbarra di ferro»; ai manifestanti poco importa della globalizzazione cercano soprattutto lo scontro, per «rompere, distruggere, creare tensione e terrore, dare sfogo alla propria aggressività repressa», così scrive l’Onorevole Luigi Vascon della Lega Nord sul quotidiano «La Padania» del 18 luglio e conclude: «se poi ci scappa il morto allora è fatta, ecco che questi si esaltano».
Così, quando dopo tanto dire e scrivere, il morto ci «scappa davvero» questi giornali, già preparati all’evento, non hanno nessuna remora nel dire che quel morto se lo sono voluto: è «un tributo voluto, se non cercato, da chi era venuto a trasformare il G8 in un cupo festival della violenza», sentenzia nell’editoriale del 21 luglio «La Padania». «Il Giornale», invece, pubblica in prima pagina una foto di Claudio Giuliani, morto, steso a terra e titola: Così il popolo di Seattle ha ottenuto il suo martire, Paolo Guzzanti apre il suo editoriale (Il complotto criminale), scrivendo «hanno tanto cercato il morto, che alla fine l’hanno trovato», la prima pagina del «Secolo d’Italia» si apre col seguente titolo: È un morto voluto. Sulla stessa linea Vittorio Feltri nell’editoriale che compare su «Libero» il 21 luglio: «Lo hanno voluto, cercato, ottenuto […] Hanno ottenuto il morto, il martire». Un martire, il primo del popolo di Seattle, descritto in questo modo da Giorgio Gandola «era un punkbestia con precedenti penali», uno che «aveva il vizio delle molotov», conclude Siro Mazza sul «Libero» del 22 luglio. Un giovane che è sbagliato mettere sullo stesso piano del giovane carabiniere che ha sparato; c’è una differenza scrive Gustavo Selva: «uno aveva scelto di servire lo Stato, l’altro era un drogato che viveva di espedienti» [21].
Una morte da compiangere, «piangiamo i morti» si legge sul «Foglio» del 21 luglio, ma «isoliamo» chi non ha «altro modo che lo scontro fisico per esprimere il proprio vitalismo». Un grumo di vitalismo senza idee e ragione quello espresso da buna parte del movimento, l’idea piace ai giornalisti i quali descrivono Carlo Giuliani come un violento, un appartenente ad una generazione di giovani «geneticamente modificati, degradati», con precedenti di terrorismo in famiglia, senza ideali, come sentenzia con convinzione arrogante Stefano Zecchi:
«Nel lancio di quell’estintore non c’è alcuna motivazione ideale: esso ha dietro di sé il nulla, una vita di miseria spirituale, un vuoto culturale abissale. Sono pronto a scommettere che quel povero ragazzo morto non sapesse niente di ciò che vuol dire globalizzazione, di ciò che significa G8 e di ciò che questi ci facevano a Genova» [22].
Una vita, la sua, leggera e in fondo banale, che svilisce quindi anche l’impegno e il valore di quella morte, derivata dalla futilità della sua scelta. Chi era Claudio Giuliani? Risponde dal carcere di Pisa Adriano Sofri scrivendo sul «Foglio» del 25 luglio: «un ragazzo che all’ultimo momento decise di non andare al mare, andò alla manifestazione vi trovò la morte». Un episodio che sprofonda i giovani e il paese in un clima che si credeva appartenesse alla storia tragica di venti e più anni fa quando trionfavano gli scontri di piazza, la violenza, la guerra civile, alimentata da forti ideologie che ora, per fortuna, sono morte definitivamente.
Per quanto riguarda il giovane carabiniere che ha sparato, ha fatto solo bene, ha fatto il suo dovere, si è difeso e ha difeso le istituzioni e l’ordine pubblico. Si tratta di «legittima difesa» titola in prima pagina «Libero» [23], il giorno dopo l’uccisione di Carlo Giuliani, perché il carabiniere «era minacciato e senza via di scampo». Egli non va condannato perché, scrive Vittorio Feltri nell’editoriale, ha ucciso un ragazzo «che si era unito al branco più violento». Anzi, «sparare per legittima difesa non solo è lecito, ma lodevole. Propongo una medaglia». E poi, più in generale, la piazza «non la controlla nessuno senza ricorrere alle armi». Le forze dell’ordine si sono trovate di fronte «a delinquenti», scrivono sulla «Padania» del 21 luglio.
Se i titoli di prima pagina del 21 luglio avevano insistito sul morto voluto e cercato dal movimento per avere il suo martire o logo, quelli del 22 luglio, il giorno dopo la grande manifestazione per le vie di Genova, caricata più volte dalla polizia, le prime pagine proclamano a grandi caratteri: Sono solo dei criminali («Libero»), Genova devastata; I falsi pacifisti con le spranghe («Secolo d’Italia»), Vogliono cambiare il mondo così hanno cambiato Genova («Il Giornale»), Genova a ferro e fuoco («La Padania»).
Unanime il giudizio sulle devastazioni operate da gruppi di manifestanti organizzati, i famosi Black-Block, descritti come un’internazionale della violenza, organizzati, strutturati, supportati e finanziati da non meglio definite centrali. Si sono infilati nei cortei e hanno attaccato le forze dell’ordine ripetutamente. I manifestanti hanno dovuto arrendersi alla loro furia, non sono riusciti a controllarli. Secondo Umberto Bossi, la cui dichiarazione fa il titolo di prima pagina de «La Padania» del 24 luglio, a Genova i violenti sono Sfuggiti di mano alla sinistra. E il direttore Giuseppe Baiocchi scrive nell’editoriale del 25 luglio di errori gravi commessi da una sinistra illusa di ritrovare nel movimento una rivincita politica; una sinistra guidata da capetti mediocri e improvvisati della piazza, anime belle del terzomondismo e di una certa Chiesa incapaci di vedere la cinica strumentalizzazione a cui andavano incontro. Le cariche della polizia, presentate sempre come risposta agli attacchi dei manifestanti, hanno via via trascinato nello scontro altri giovani scesi in piazza, inizialmente con intenzioni pacifiche. Di fronte ad una polizia che carica, spiega Adriano Sofri sul «Foglio» del 24 luglio, ragazzi e ragazze che si conoscono appena, si sono visti magari allo stadio o in discoteca, «hanno davanti un sampietrino: basta raccoglierlo e tirarlo». Un coinvolgimento casuale dunque? Non per tutti è così. È difficile, se non impossibile, distinguere tra bravi e cattivi ragazzi. La dinamica degli scontri, se mai, ha messo in evidenza le connivenze profonde «tra gli organizzatori del Genoa Social Forum, le tute bianche e i politici della sinistra: i dirigenti di Rifondazione Comunista, i Verdi, i gruppuscoli veterocomunisti, i quadri sindacali. [e] quelli che hanno dato la prova della massima irresponsabilità, i diessini in amletica oscillazione tra l'andare e il non andare» [24]. Chi sostiene che «la maggioranza sono bravi ragazzi», scrive Vittorio Feltri su «Libero» del 21 luglio, dice fesserie. Ammesso che nel «mucchio» ci fossero anche dei bravi ragazzi essi erano e sono «degli utili idioti i quali si prestano a fare da paravento a chi poi colpisce». Per questo quotidiano a Genova sono scesi in piazza 300 mila «piazzisti della guerriglia, armati di spranghe, pietre, molotov e bastoni», ribadirà Feltri l’8 agosto. Quindi, come poteva la polizia distinguere i buoni dai cattivi. Non poteva: «dunque nessuna pietà morale per i profittatori che si sono presentati piagnucolanti perché la polizia, udite, udite, non avrebbe saputo distinguere tra autentici lanzichenecchi e profittatori» [25].
Tutti i giornali presi in esame, tranne «Il Foglio», si chiudono a riccio nella difesa ad oltranza dell’operato delle forze dell’ordine a Genova e nel giudicare inutile e improduttiva alcuna indagine o inchiesta parlamentare sul loro comportamento. La linea è una sola, riassunta in questo modo: «non bisogna consentire campagne diffamatorie contro i carabinieri e tutte le forze dell’ordine» [26]. Dopo l’irruzione violenta e distruttrice nella scuola media Diaz, che ospitava il centro stampa del Genoa Social Forum, avvenuta nella notte fra il 22 e il 23 luglio, e gli episodi di violenza sugli arrestati accaduti nella caserma di Bolzaneto, i quotidiani plaudono all’azione esasperando la versione data dalla polizia stessa. Secondo Roberto Caldiron, segretario della Lega Lombarda, l’irruzione della polizia era necessaria perché il centro «era una base di violenti» («La Padania», 24 luglio), e il ministro Castelli dichiara al giornale il giorno seguente, a proposito di quanto accaduto a Bolzaneto «in quella caserma non ho assistito a violenze». Era subito sminuita e derisa la versione dei giovani portati alla caserma Bolzaneto, secondo i quali erano stati costretti a cantare filastrocche fasciste e razziste, a gridare «Viva il Duce» e «Viva Pinochet». Si tratta di «una storiella» non vera – scrive Mario Cervi sul « Giornale» del 1° agosto, un’invenzione, una bugia costruita ad arte tra gli arrestati, col passaparola, per denigrare e l’operato delle forze dell’ordine.
Chi erano quelli presenti alla scuola Diaz al momento dell’irruzione sacrosante delle forze dell’ordine? Ladri e spacciatori titola in prima pagina «Libero» del 24 luglio. E l’articolo di commento si intitola: Tra i giottini drogati, prostitute e delinquenti. Alcuni giorni dopo, il 27 luglio, «Il Giornale» rafforza l’idea del movimento dei drogati presentando un servizio fotografico, tratto dagli scontri, con un titolo allarmante in prima pagina: Drogati per saccheggiare Genova, ripreso all’interno con questa titolazione: i ragazzi delle tute bianche sniffano cocaina prima di caricare gli agenti e saccheggiare Genova. Quando alcuni degli arrestati vengono liberati dal magistrato per mancanza di indizi e cominciano a scaturire inchieste sull’operato delle forze dell’ordine a Genova, pronta è la risposta: I teppisti escono, i poliziotti finiscono sotto accusa, titolo dell’articolo di Andrea Morigi su «Libero» del 25 luglio. «Sotto accusa non sono gli organizzatori del Genoa Social Forum, sotto accusa è la polizia», afferma Mario Cervi sul «Giornale» del 24 luglio. Non è reato sprangare gli agenti, prosegue «Libero» il 27 luglio: «i giudici sconfessano gli arresti e aprono otto inchieste sui poliziotti». Liberi gli ecoteppisti. Solo gli agenti restano sotto inchiesta spalleggia quello stesso giorno «Il Giornale». E il 3 agosto rilancia in prima pagina G8: la polizia paga i teppisti no. Similmente il «Secolo d’Italia» afferma il 22 luglio: Non dobbiamo rimproverarci nulla, Fini in persona, vicepresidente del consiglio, interviene per respingere le accuse della sinistra, confermare la solidarietà alle forze dell’ordine, insinuare che i magistrati preferiscono indagare sui poliziotti e scarcerare i devastatori di Genova. «Libero» il 26 luglio apre una campagna di sottoscrizione a favore delle forze dell’ordine per sostenerle nelle spese legali e sanitarie, l’8 agosto ha raccolto già oltre 500 milioni e continua a dare spazio ad un presunto malessere che serpeggia tra le fila dei poliziotti titolando in prima pagina il 2 agosto: La rivolta dei poliziotti: paga chi fa il suo dovere.
La commissione d’inchiesta? Inutile, sentenzia Giulio Savelli su «Libero» il 1° agosto. La commissione d’inchiesta, scrive Mario Cervi sul «Giornale» del 1° agosto, sarebbe «un colpo basso contro Berlusconi». Non mirerebbe «ad accertare la verità ma a far danno per mesi e anni con una polemica sterile». Bisogna rinnovare la fiducia a Scajola e alle forze dell’ordine. Quindi va respinta ogni richiesta di dimissioni del ministro degli Interni. Qualcuno, sarcasticamente, rileva la mancanza di serietà del gruppo dirigente dei DS i quali chiedono le dimissioni del ministro. Aleggia una sorta di nostalgia per la serietà e la correttezza del vecchio PCI, scrive Fabrizio Cicchitto sul «Giornale» del 26 luglio sotto il titolo Ridateci il vecchio PCI, quello di Togliatti, Amendola, Bufalini, Chiaromonte. E il Senatore a vita Francesco Cossiga, nonché ex Presidente della Repubblica ed ex ministro degli Interni negli anni Settanta, ha buon gioco nel ricordare, nel suo intervento al Senato che:
«Anni fa un ministro dell’Interno sgomberò Bologna coi carri armati dell’Arma dei carabinieri. Nessuno ne chiese le dimissioni. Anni fa in un violento attacco a reparti di carabinieri da parte di autonomi cadde un giovane autonomo sotto il fuoco dei carabinieri. Nessuno chiese le dimissioni del ministro degli Interni. Alcuni anni fa in eventi ancora oscuri Giorgiana Masi cadde dall’altra parte di un ponte. Nessuno chiese le dimissioni del ministro degli Interni» [27].
Sull’indagine parlamentare il giudizio è netto: si tratta di un’indagine «voluta dall’Ulivo e dai suoi alleati con un unico scopo. Criminalizzare la polizia per colpire il governo Berlusconi e il suo operato» [28]. «Libero», in particolare, è fortemente critico quando il governo destituisce il numero due dell’antiterrorismo e il questore di Genova. Il governo di centrodestra è succube del centrosinistra, in soggezione di Violante e gente simile, scrive indignato Vittorio Feltri nell’editoriale del 25 luglio:
«tra le guardie e i ladri, sceglie i secondi –prosegue- […] questo governicchio è clemente coi ladri e inflessibile con le guardie […] i poliziotti possono aver commesso degli errori, ma chi lavora sbaglia […] L’amarezza è doppia. Per il torto subito dai tutori dell’ordine. E perché il torto è stato fatto loro da un governo espressione di uno schieramento politico che abbiamo appoggiato. Scajola è uscito di senno? Può succedere. Ma Berlusconi? Che ci sta a fare lì Berlusconi se non è capace neanche di dare una mano a chi gliel’ha data? Che delusione cavaliere».
Diverso invece il giudizio del «Foglio» riguardo all’operato del governo e delle forze dell’ordine. Il governo non poteva comportarsi in modo sostanzialmente diverso da come si è comportato, questa è la linea del giornale di Ferrara. Genova si può archiviare come un successo politico del governo e una sconfitta dell’opposizione a una condizione, dare una risposta persuasiva alla domanda di verità che riguarda alcuni passaggi drammatici delle operazioni di repressione, scrivono. «A Genova non c’erano poliziotti cileni e i dimostranti non erano ladri, spacciatori e criminali come si è letto a destra» [29]. Il ministro degli interni Claudio Scajola è difeso per la sensibilità democratica che ha dimostrato nel cercare il dialogo con tutti e nel disporre un’ispezione dopo i fatti accaduti alla Diaz e a Bolzaneto, e per aver coperto con la doverosa solidarietà istituzionale i responsabili dell’ordine pubblico che pure non erano stati scelti da lui. Ben venga poi la commissione d’indagine, perché i garantisti del Polo non intendono coprire abusi e violenze. Il blitz alla Diaz non è stata una bella pagina. Se episodi non chiari sono accaduti nella scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto questi saranno individuati e puniti. Le procedure, le garanzie devono sempre tutelare i cittadini, anche e soprattutto quando siano bersaglio di una legittima incursione delle forze di sicurezza o detenuti provvisoriamente in una caserma come quella di Bolzaneto. Se ci sono stati eccessi e abusi vanno puniti. Non è accettabile la retorica odiosa della «polizia assassina» o della «logica cilena», ma va respinto anche il riflesso forcaiolo che tende alla copertura e all’assoluzione preventiva di ogni comportamento degli agenti [30].
Diversi giornali del centro destra tracciano un bilancio abbastanza negativo, per il governo e per Berlusconi, dopo i fatti di Genova. Intanto è stata una sconfitta d’immagine, il governo «si è rotto le ossa sull’unica cosa che importava: l’immagine della manifestazione, l’ordine pubblico, il bilancio dei morti e dei feriti» [31]. È il caso, si domanda Vittorio Feltri in alcuni editoriali comparsi sul giornale che dirige, di fare quel tipo di riunioni? Il governo italiano poteva congelare il G8, soprattutto dopo quello che era accaduto a Goteborg. Tuttavia, una volta deciso di non sospendere o rinviare il vertice, il governo italiano ha prestato eccessiva attenzione agli aspetti ornamentali, trascurando quello più importante, l’ordine pubblico: «Agenti e militari [avrebbero dovuto] poter disporre di ogni mezzo antiguerriglia, le armi innanzi tutto [invece] appena un carabiniere ha sparato per legittima difesa, addio, è venuto giù il mondo», scrive Feltri il 22 luglio. Poi va registrato il fallimento della linea del dialogo col movimento, voluta dal presidente del consiglio Berlusconi e dal ministro Ruggieri i quali hanno tentato la via della trattativa nell’illusione «lodevole di evitare il peggio, ma anche con l’ingenuità di chi non ha nessuna conoscenza pratica di movimenti molto compositi» [32]. Infine, a Genova, secondo «Il Foglio» del 24 luglio, si è registrato pure il fallimento del movimento no global: «gli scontri duri con la polizia, gli atti vandalici e le pulsioni omicide di folte minoranze ben insediate nell’ampia zona grigia della contestazione violenta hanno dimostrato che questo movimento è un contenitore amorfo di emozioni, idealismi, stati d’animo e sedimenti ideologici, ma non un soggetto politico maturo». Tutti sconfitti dunque? Sì, compreso il complotto o piano eversivo intentato dalla sinistra per distruggere l’immagine del governo e provocare un nuovo «ribaltone». La sinistra aveva un piano eversivo fondato su tre manovre: «1) iniettare una verità telegiornalistica affinché risulti equiparata la forza dello Stato alla violenza dei manifestanti, illuminando la prima e nascondendo la seconda. 2) Realizzare un’offensiva giudiziaria per giungere alla delegittimazione delle forze dello Stato. 3)Tenere la piazza mobilitata in vista della spallata finale del governo» [33]. Le giornate di Genova sono state la rappresentazione di una insurrezione fallita ma preparata meticolosamente, così «La Padania» del 7 agosto titola l’articolo di Augusto Zuliani, il quale non ha remore nello scrivere del pericolo di «un tentativo di “colpo di Stato”, un’operazione politico militare il cui obiettivo era quello di mettere in gravissima difficoltà il governo». Un progetto ardito che prevedeva il discredito «del governo e la “gambizzazione” della sua leadership, in attesa di un progressivo slabbramento della maggioranza motivato dal diffondersi di manifestazioni e agitazioni». Alla guida di questo piano eversivo, «di questa sorta di fronte popolare» stava il mondo giovanile dei centri sociali, il PRC e quei settori sindacali legati alla FIOM.
Note [1] A. Biondi, Quei ragazzi a Genova per una guerra superflua, «Libero», 19 luglio. I quotidiani consultati sono: «Libero», diretto da Vittorio Feltri, «Il Foglio», diretto da Giuliano Ferrara, «Secolo d’Italia», diretto da Gennaro Malgeri, «Il Giornale», diretto da Maurizio Belpietro, «La Padania», direttore responsabile Giuseppe Baiocchi, direttore politico Umberto Bossi. [2] Il ritorno dei DS alla lotta, «Il Giornale», 18 luglio 2001. [3] F. Grossi, Globalizzazione, nuova arma dei comunisti, «La Padania», 25 luglio 2001. Senza timore di cadere nel ridicolo un giornalista del «Giornale» scrive da Genova dopo gli scontri dicendo di aver visto “un agit-prop con i capelli bianchi, mentre incitava una tuta nera ad alzarsi per riprendere la lotta: Il giovane era disteso a terra con il fiato corto e il dimostrante anziano l’ha rimesso in piedi ordinandogli, pure, alcune flessioni» (F. Biloslavo, Fra le tutte nere gli “agit-prop” di mezza età, «Il Giornale», 23 luglio 2001) [4] La piazza acefala e il governo, «Il Foglio», 24 luglio 2001. Al movimento delle tute bianche il giornale aveva dedicato un lungo articolo il 20 luglio nel quale si affermava a proposito delle modalità delle loro attività che “stanno a metà strada fra il ’68 e il ’77, che riecheggiano le performance degli “uccelli”: scalate di palazzi, irruzioni dimostrative, esposizione di striscioni” (Le tute bianche, moderni giullari con nuove strategie belliche). [5] Senza opposizione c’è la violenza, «Libero», 28 luglio 2001. [6] Cfr. M. Bottarelli, Quelli che ne prendono tante per 40 mila lire, «Libero», 17 luglio 2001. [7] Cfr. G. M. Chiocci, E. Fontana, Ecco la strategia antisquatter, «Il Giornale», 17 luglio 2001. [8]Cfr. rispettivamente l’articolo di P. Del Debbio, Non c’è democrazia se manca il mercato, e quello di. F. Adornato, Chi soffia sul fuoco, entrambi comparsi sul «Giornale» del 24 e 21 luglio 2001. [9] Salvatori di tutti i paesi astenetevi, «Il Foglio», 20 luglio 2001. [10] Cfr. i due articolo di G. Baget Bozzo, Il blocco nero della democrazia, e Gli errori della Chiesa, pubblicati sul « Giornale», 2 agosto e 23 luglio 2001. [11] Vedi P. Guzzanti, Democrazia assediata, «Il Giornale», 22 luglio 2001 e A. Bontempi, Si scrive anti-global, si legge antioccidentale, «La Padania», 21 luglio 2001 [12] G. Torchia, Veri problemi e pretestuosa contestazione, «Secolo d’Italia», 20 luglio 2001. [13] R. Gervaso, Agnoletto, il Narciso che si finge Ghandi, «Il Giornale», 28 luglio 2001, vedi anche C. Risè, Leader? No, malati di protagonismo, «Libero», 22 luglio 2001, A. Morigi, Agnoletto, un rivoluzionario dal sangue blu, «Libero», 25 luglio 2001 [14] Cfr. rispettivamente F. Grosso, Imparate dalla Lega, «La Padania», 18 luglio 2001, S. Moffa, I militanti no-global e le ragioni dei più deboli, «Secolo d’Italia», 19 luglio e G. Torchia, Veri problemi e pretestuosa contestazione, «Secolo d’Italia», 20 luglio 2001 [15] Cfr. M. Bozzi Sentieri, Oltre il G8, globalizzazione e cultura, «Secolo d’Italia», 29 luglio 2001 e R. Manacini, Alle origini del globalismo tra ricchezza e consumo, «La Padania», 4 agosto 2001. [16] D. P. Amedeo Lazzeri, Identità, vero anti-global, «La Padania», 18 luglio 2001. “In questi giorni vorrei tanto partire per Genova per manifestare […] contro una globalizzazione decisa dalle multinazionali e dai poteri economici dei paesi più forti”, scrive Flavio Rodeghiero, deputato della Lega Nord, su «La Padania» del 18 luglio 2001. [17] Cfr., A. Saccà, Gli estremisti di Cosmopolis, «Secolo d’Italia», 22 luglio 2001, F. Grosso, Davanti a una morte, riprovevole la speculazione, «La Padania», 22 luglio 2001 [18] A. Bontempi, Si scrive anti-global, si legge antioccidentale, «La Padania», 21 luglio 2001 [19] M. Veneziani, Le tute bianche sono figli minori del globalismo, «La Padania» 21 luglio 2001 e Globalizzatori mascherati, «Il Giornale», 20 luglio [20] P. Guzzanti, Il blitz d’autunno, «Il Giornale», 31 luglio 2001. [21] G. Selva, Quella morte ha oscurato il vertice, «Secolo d’Italia», 22 luglio 2001. [22] S. Zecchi, Quei giovani che credono solo nella violenza, «Il Giornale», 22 luglio 2001. Di giovani geneticamente modificati e degradati ha scritto P. Guzzanti, Il complotto criminale, «Il Giornale», 21 luglio 2001. Sui precedenti terroristici della famiglia Giuliani si è soffermato P. Maurizio, La zia di Giuliani esportava terrorismo in Europa, «Il Giornale», 2 agosto 2001 riferendo un fatto accaduto nel settembre del 1970 quando, quella che avrebbe dovuto essere sua zia (Carlo Giuliani non era ancora nato), morì, assieme ad uno studente greco-cipriota, mentre stavano trasportando esplosivo per compiere un attentato all’ambasciata USA ad Atene. [23] Dello stesso tenore altri articoli pubblicati il 21 luglio da P. Laporta, Perché ha fatto bene a sparare e V. Vitale, In pericolo e senza vie di fuga: è legittima difesa. Ugualmente «La Padania» del 22 luglio, È stata legittima difesa, e G. Selva, in un articolo, Quella morte ha oscurato il vertice, comparso su il «Secolo d’Italia» del 22 luglio 2001, scrive “il carabiniere si è avvalso del diritto alla legittima difesa […] non aveva altro mezzo che sparare per salvarsi”. Sempre a sostegno di questa tesi «Il Giornale» del 24 luglio pubblica il verbale dell’interrogatorio del carabiniere che ha sparato su Carlo Giuliani col titolo: “Ero terrorizzato: ho sparato per non morire; «Libero» lo pubblica il 26 luglio titolando in prima pagina: “Pietre e spranghe mi uccidevano”. [24] M. Teodori, Connivenze sinistre, «Il Giornale», 23 luglio 2001. [25] P. Guzzanti, Democrazia assediata, «Il Giornale», 22 luglio 2001. [26] S. Scarpino, Cacciamo gli sciacalli, «Il Giornale», 22 luglio 2001. [27] Cari amici dell’Ulivo il PCI era più serio di voi, intervento al Senato di Francesco Cossiga, pubblicato su «Libero» del 2 agosto 2001 [28] Su Genova si accende una sinistra luce rossa, «La Padania», 7 agosto 2001. Sarebbe invece opportuno, scrivono da più parti, indagare sul Genoa Social Forum descritto come una specie di nuova internazionale comunista: cfr. C. Passera, Internazionale Comunista anche detta GFS e Valanga rossa, «La Padania», 8 agosto 2001. Dello stesso tenore l’articolo di G. Gandola, L’internazionale rossa del GSF, comparso sul «Giornale» dell’8 agosto 2001 [29] G. Ferrara, Michele Serra è davvero diventato uno “splendido quarantenne”, Il Foglio, 30 luglio 2001 [30] Cfr., Botte in Caserma, e Abusi, il governo batta un colpo, «Il Foglio», 26 luglio 2001. Sulla stessa linea anche i garantisti del «Giornale»: M. Teodori, Vittime e carnefici, «Il Giornale», 28 luglio 2001. Lo stesso Mario Cervi, pur tra mille distinguo scriveva: “Gli eccessi polizieschi sono deplorevoli e vanno censurati con rigore, ma non è possibile che essi vengano valutati muovendo dal presupposto che polizia e carabinieri abbiano intenzionalmente e trucemente infierito su fanciulloni e fanciullone inermi, ingenui, buoni, miti” (Desaparecida è la democrazia, «Il Giornale», 27 luglio 2001) [31] P. Guzzanti, Il blitz d’autunno, «Il Giornale», 31 luglio 2001 [32] T. Maiolo, Non si coccolano gli oppositori, «Libero», 22 luglio 2001 [33] P. Laporta, Non interessa la verità ma umiliare la polizia, «Libero», 1 agosto 2001.
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