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Carràmba, che sorpresa!



The Ladybirds



Care femministe, questa non è una lettera di addio, perché per dirsi addio bisogna essersi amate o almeno volute bene. Questa è una lettera di estraneità, come quella che si può scrivere a Babbo Natale quando si capisce che è una semplice fantasia, o forse quella che si scrive a un ologramma di un passato che, per fortuna, non c’è più. Innanzitutto vi ringrazio, ci mancherebbe, lo faccio in modo sincero, perché avete contribuito al superamento di quel passato. Però vorrei anche cercare di spegnere il proiettore che nel presente continua a riprodurre quella pellicola fotografica che ci impedisce di parlare, di riflettere, di andare per la nostra strada.

Allora care femministe, voi continuate a romperci le ovaie (dobbiamo dire così, giusto?) sulla mancanza di consapevolezza di noi giovani rispetto ai grandi ideali delle vostre lotte, delle vostre a-storiche parole d’ordine, delle vostre dogmatiche teorie, perfino sulla mancanza di consapevolezza sul nostro corpo e sulla nostra sessualità. Il nostro, già, manco il vostro, perché voi parlate per tutte, vi arrogate il diritto di rappresentare noi, povere pecorelle smarrite. Però voi, donne coscienziose ed emancipate, che negli anni Settanta avete fatto le lotte che permettono a noi ingrate di avere diritti e una vita migliore, che continuate a rimproverarci per non combattere il patriarcato come avete fatto voi, avete mai ascoltato le canzoni degli anni Settanta e Ottanta? Io e le mie più o meno coetanee non eravamo ancora nate, né negli anni Settanta né negli anni Ottanta. Però un po’ di quelle lotte le abbiamo studiate e un po’ di quelle canzoni le abbiamo ascoltate, quindi almeno qui parliamo con un pochino di consapevolezza.

Nel 1978 Raffaella Carrà cantava Tanti auguri: «Com’è bello far l’amore da Trieste in giù - Com’è bello far l’amore io son pronta e tu - Tanti auguri a chi tanti amanti ha - Tanti auguri in campagna ed in città». Onestamente, vi sembra la canzone di una donna oppressa dal sistema patriarcale? Oppure di una donna che vive una sessualità repressa e non può esprimere liberamente il proprio corpo? Ascoltate la Raffa, mentre sculetta arrogante nei suoi sfavillanti e cortissimi vestitini: «L’importante è farlo sempre con chi hai voglia tu». Scusate se non mi sono genuflessa davanti all’icona di Carla Lonzi e non ho liturgicamente sputato su Hegel, però a me pare che il pop, proprio perché fenomeno di massa, ci spieghi molto meglio i comportamenti medi femminili degli ultimi quarant’anni. Credo cioè che in tante si immedesimavano nella canzone di una Carrà qualsiasi proprio perché facevano liberamente l’amore da Trieste in giù, o quantomeno ritenevano legittimo farlo.

Qualche anno dopo, a metà degli anni Ottanta, al Festivalbar (mica alla Casa delle Donne o in un centro sociale) Giuni Russo manco più si preoccupava del padre: «Mia madre non lo deve sapere - Non lo deve sapere - Voglio andare ad Alghero - In compagnia di uno straniero - Su spiagge assolate - Mi parli in silenzio - Con languide occhiate». E giù a prendere per il culo la vecchia bacchettona: «Sono ancora ad Alghero - In compagnia dello straniero - Le corse sfrenate - Su moto cromate - Di sera l’estate - Che scandalo da sola ad Alghero - Da sola ad Alghero - Con uno straniero - Mia madre non lo deve sapere - Non lo deve sapere». Perfino la sobria Fiordaliso, immagine del ritorno al privato, di chi non vuole mica la luna, dà come un dato acquisito la libertà femminile, fosse anche quella di «stare in disparte a sognare - E non stare a pensare più a te». Insomma, «avere più tempo per me» e tu «non cercarmi mai più», la libertà «di andare a fare l’amore - Ma senza aspettarlo da te».

Quello sfigato di Massimo Ranieri, nel frattempo, piagnucolava sul «perdere l’amore», raccoglieva disperato i cocci della vita, sbatteva la testa contro il muro, strisciava per chiedere perdono. All’opposto l’impertinente Raffa, dieci anni prima, in un mare di paillettes consigliava scanzonata alle sue amiche: «E se ti lascia lo sai che si fa - Trovi un altro più bello - Che problemi non ha». Già all’inizio degli Ottanta Marco Ferrandini aveva capito che il mondo stava andando in un’altra direzione, che il dominio maschile era stato messo in crisi. Con Teorema componeva così la canzone dell’«uomo ferito»: no, non da una semplice delusione d’amore, ma da una libertà femminile che stava sfuggendo al controllo patriarcale. E allora, diceva il Ferrandini all’immaginario amico mortificato, se stai lì a dirle che l’ami, se le scrivi canzoni d’amore, se le mandi rose e poesie, se arrivi addirittura a darle spremute di cuore, a farla sentire importante, a darle il meglio che hai, se sei un tenero amante, se sei sempre presente, se le risolvi i guai, beh, allora «sta sicuro che ti lascerà - Chi è troppo amato amore non dà - E sta sicuro che ti lascerà - Chi meno ama è il più forte, si sa». Quelle cose andavano bene quando era il maschio a comandare, ora quelle vanno a fare l’amore da Trieste in giù e tanti saluti all’obbedienza. E quindi: «Prendi una donna trattala male - Lascia che ti aspetti per ore - Non farti vivo e quando la chiami - Fallo come fosse un favore - Fa sentire che è poco importante - Dosa bene amore e crudeltà - Cerca di essere un tenero amante - Ma fuori del letto nessuna pietà». Per poi concludere, disperato, che senza l’amore l’uomo non è niente.

Ecco, care amiche femministe, quella di Ferrandini è la canzone del potenziale femminicida, su questo penso che converremo. Però, la violenza che esprime non è di chi vuole mantenere il dominio, ma di chi sente che quel dominio gli sta sfuggendo di mano. Non è la violenza del patriarcato, è la violenza della sua crisi. Non è la violenza affermativa del forte, è la violenza reattiva del debole. Io ho l’impressione che voi questo non lo vogliate proprio capire, o forse avete paura ad ammetterlo. È come se sostenere che il patriarcato sia stato finalmente messo in crisi vi togliesse la ragione di vita. Invece sono state proprio le lotte femministe, le lotte delle donne a metterlo in crisi. È come se, nel momento in cui le avete conquistate, vi facessero paura quella libertà e quella forza che rivendicavate.

A questo punto, mie severe maestre, con voce presumibilmente tremante d’indignazione mi enumererete i casi di donne vittime dell’oppressione maschile, in Italia e in giro per il mondo. Calma calma, ok, non lo nego, e figuratevi, certo che è così. Però il patriarcato non designa solo l’oppressione maschile, bensì un’oppressione maschile che faceva sistema nel quadro capitalista. Oggi non fa più sistema come prima: è, appunto, una violenza reattiva, una violenza della crisi di quel sistema, proprio come quella cantata dal miserabile Ferrandini. Ciò non toglie importanza al tema, anzi: la violenza reattiva è ancora più feroce, cieca, pericolosa.

Mentre vi dico questo, confesso di capire perché avete tanta preoccupazione: potremmo arrivare alla conclusione che il femminismo per come lo abbiamo conosciuto fino ad oggi non sia eterno. Esatto, è quello che penso. Il femminismo è un’esperienza storicamente determinata. Come tutti i cicli di lotte e le prassi a essi legate, ha un inizio e ha una fine. Per un certo periodo, ad esempio, lotta di classe e socialismo sono andati insieme, ovvero il socialismo era la forma di organizzazione della lotta di classe. Da un certo momento in poi, dopo la Prima guerra mondiale e la crisi del ’29, quel legame si è sciolto, finché il socialismo è diventato una forma di gestione del capitalismo. Aveva infatti cessato di esasperare le contraddizioni del capitalismo, aveva cominciato a risolvergliele. Attraverso il socialismo gli operai non avevano più l’obiettivo di rovesciare il sistema del padrone, ma avevano la possibilità di prendere il suo posto. Ora, a costo di essere blasfema, io la direi così: la questione di genere sta al femminismo come la lotta di classe sta al socialismo.

Sbaglio? Esagero? Forse. Però discutiamone, invece di limitarci a emettere scomuniche.

Quello che voglio dire è che questo perpetuo auto-relegarci nella posizione di vittime impotenti, sessualmente vessate – che poi è un discorso molto simile a quello sessista che etichetta le donne come esseri emotivi e deboli – finisce per organizzare il mondo in termini binari: come se le donne fossero sempre contrapposte agli uomini, in una sorta di cospirazione maschile internazionale innestata in strutture di potere monolitiche. Come se il patriarcato fosse sempre necessariamente dominio maschile. I temi della questione di genere vengono invece costantemente messi alla prova dalla materialità dei rapporti di forza, dal disvelamento dei dispositivi di classe, dalle asimmetrie di potere su cui si sorregge il dispiegamento del capitalismo, diversamente da quanto ci raccontiamo con le storielle sulla «sorellanza» – una costruzione discorsiva basata sull’idea sociologica dell’identità dell’oppressione femminile, come se essere donne fosse automaticamente sinonimo di impotenza e vittimità.

Ogni giorno io vado al lavoro in una delle innumerevoli cooperative di gestione dell’accoglienza, quelle che per mettersi a posto la propria cattiva coscienza quelli di sinistra dicono aiutino i rifugiati, che in realtà costituiscono la redditizia merce del business plan. Sul posto di lavoro i miei capi sono cape, tutte donne, femministe per giunta. Con me, per farmi digerire un salario di merda, turni di lavoro folli e straordinari non pagati, non usano il bastone patriarcale, usano la carezza matriarcale. E vi garantisco che è molto peggio. All’inizio degli anni Novanta, quando io nascevo, si parlava di femminilizzazione del lavoro: perché abbiamo paura di parlare della femminilizzazione del potere, di divenire donna del capitale?

Le donne sono più libere, però che tipo di libertà è? È il nodo attorno a cui oggi, credo, potrebbe essere ripensata la questione di genere, oltre il femminismo. La libertà cantata da Raffaella Carrà e Giuni Russo, conquistata dalle lotte e dai comportamenti di massa, è una libertà ambigua: una libertà di liberazione, e allo stesso tempo una libertà liberista. Mi pare ci siano pochi dubbi sul fatto che a prevalere sia stata la seconda. E, se non vogliamo concentrarci sul passato, basta infatti guardare alle icone pop di oggi: le ragazzine cantano tutte Chadia Rodriguez, che disinibita afferma «Non ho bisogno che paghi la cena - Portami sull’altalena - Lasciamo la luce accesa - Baby non sono Maria Maddalena - Non sono una tipa all’antica - Mi piace pure la tua tipa - Portala e porta un’amica - E poi che Dio ci benedica», e ancora «Zero tipo - Zero ex - Zero pare - Zero stress - Mangiauomini». Chadia Rodriguez è forse simbolo dell’avvenuta emancipazione femminile nel XXI secolo? Sicuramente no. E se continuare a insistere sul volere più libertà liberista, come fanno quelle componenti del femminismo che si dichiarano radicali e riempiono i comunicati di lettere e acronimi, non fa altro che rafforzare le nostre catene, limitarsi a redarguire moralisticamente la «falsa» libertà delle «mangiauomini» à la Chadia Rodriguez, come fanno le femministe tradizionali, porta a uniformare mercificazione e comportamenti potenzialmente conflittuali o parzialmente autonomi. L’estraneità mia al femminismo per come ormai lo conosciamo, perciò, è la stessa estraneità che riscontro in tante mie più o meno coetanee, che riempiono le piazze di «Non una di meno» e disertano le assemblee. Perché le piazze sono un’occasione per incontrare altre persone, fregandosene dell’ologramma ideologico che le ha convocate; le assemblee sono un’autorappresentazione di un ceto politico esausto e talora un po’ grottesco, una brutta copia di quei parlamenti che a parole contestano e nei fatti desiderano.

Per ripensare la questione di genere dovremmo provare allora a stare dentro quell’ambiguità, cioè alla soggettività concreta di ragazze e donne per cui tale questione è al contempo uno strumento di autoaffermazione individualista e di nuove possibilità collettive, di ascesa sociale nel mercato capitalistico e di indisponibilità o rifiuto a fare quello che una volta facevano gli uomini (e che, sia chiaro, in buona parte continuano a fare). Perché non tentare di trasformare quell’ambiguità in una contraddizione, e quella contraddizione in un campo di battaglia? Io credo che di questo ci sia grande, grandissimo bisogno. A meno che non vogliamo restare prigionieri della distopica scelta tra il ricordo iconico dell’austera Nilde Iotti e il twerking di Elettra Lamborghini. Che se proprio non avessi scampo, a quel punto meglio mettersi a twerkare con i vivi invece di ammuffire con i cadaveri.

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