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Carla Lonzi


Elisabetta Sbiroli, Eccitata



Alla nascita (Firenze, 6 marzo 1931) Carla Lonzi fu accolta dai genitori come «la creatura più attesa» (Lonzi, Taci anzi parla, 1978). Dopo di lei, nel giro di pochi anni, verranno Lidia, Marta, Vittorio e Alfredo. Il diario testimonia lasofferenza, mai dissolta, della perdita di «primogenitura». E l’essere venuta prima segnerà, con tensioni, anche i rapporti di Carla Lonzi nel gruppo femminista di «Rivolta femminile». L’altra esperienza formativa della sua infanzia furono gli anni trascorsi nel collegio delle Carmelitane. La lettura delle vite di Thérèse Martin e Teresa d’Avila ebbe una forte influenza sulla sua ricerca di autonomia, interiore prima ancora che sociale.

Gli studi sull’arte iniziarono a Firenze, con Roberto Longhi, con il quale si laureò con la tesi I rapporti tra la scena e le arti figurative dalla fine dell’Ottocento, molto apprezzata da Longhi (pubblicata postuma da Olschki, Firenze 1996). Inizia in questi anni l’amicizia con Marisa Volpi, segnata dal fervore di fare e pensare insieme.

Dopo il matrimonio con Mario Lena, chimico industriale, sindacalista iscritto al Pci, si trasferisce in Toscana e l’8 giugno 1959 a Viareggio. Nasce il figlio Battista. Per Carla sono anni di isolamento e, per sfuggire al malessere che prova, si concentra, con passione, nella scrittura di poesie. Ogni testo è frutto dello scavo nel vissuto e nell’anima, volto a cogliere «l’autenticità dell’io»: «all’interno di me una sconosciuta agonizzava. Tendevo l’orecchio per cercare di cogliere nella sua agonia la chiave di una verità di cui mi accorgevo all’improvviso di essere priva. Mi fidavo solo di lei» (op. cit.).

Dopo il trasferimento a Milano, intraprende la professione di critica d’arte. Alla galleria «Notizie» di Torino allestisce la sua prima mostra, dedicata a Pinot Gallizio. Tra il 1962 e il 1967 Lonzi cura le mostre di alcuni dei protagonisti dell’arte contemporanea, non solo italiani. Tra le più importanti: la personale di Carla Accardi alla XXXII Biennale di Venezia; quella di Jannis Kounellis e Pietro Consagra alla galleria «Ariete» di Milano. Oltre ai cataloghi delle mostre e agli articoli su riviste, vanno ricordate la collaborazione a L’Approdo letterario, rubrica della Rai, le monografie di Henri Rousseau (n. 148), e di George Seurat (n. 178), nella collana Maestri del colore, edita da Fabbri.

In questo contesto nascono due relazioni che saranno centrali nella sua vita: quella con Carla Accardi, con la quale condividerà «la scoperta» del femminismo e la formazione del collettivo Rivolta femminile; e quella con Pietro Consagra, iniziata nel ’64 che, da allora, l’accompagnerà tutta la vita. Per sua scelta, subita più che condivisa da Consagra, non convivono, tranne per brevi periodi, per lo più in estate, all’Elba e poi a Turicchi, nella campagna toscana.

Ma è con Consagra che si reca a Minneapolis nel ’67, dove compone Autoritratto, il libro-convivio che raccoglie, nella forma di un suo libero montaggio, i colloqui con 13 artisti – unica donna Carla Accardi – registrati negli anni precedenti. Pubblicato da Dedalo nel ’69, Autoritratto non è solo l’opera più importante di Lonzi critica d’arte, ma è uno dei libri più illuminanti e originali sull’arte degli anni Sessanta. Ed è anche un antecedente significativo della scrittura autocoscienziale di Lonzi femminista. Perché è scritto in prima persona, dagli artisti, sollecitati da Lonzi a esprimere se stessi, e il proprio «fare arte». Grazie all’uso del registratore, allora inusuale, il libro restituisce la voce originale, mettendo in primo piano la soggettività e non l’opera. E, viceversa, ridimensiona la funzione del critico, il quale non è più l’interprete, che esercita una mediazione decisiva tra autore e fruitore dell’opera, per fungere piuttosto da tessitore della trama tra le diverse soggettività. Sulla presa di distanza dalla sua professione è significativo il titolo dell’ultimo articolo, La critica è potere, pubblicato da Lonzi, prima di dedicarsi al femminismo (NAC. Notiziario d’arte contemporanea, n. 3, 1970).

La «scoperta» del femminismo avviene per Lonzi e Accardi nella primavera del 1970. Si trovano a Roma, assieme a Elvira Banotti, per alcuni giorni, per condividere «l’emozione» di quella «nuova nascita» della donna. L’esito di questo scambio è il Manifesto di Rivolta femminile. Scritto da Lonzi, scandisce in frasi concise e folgoranti i principali temi del neofemminismo. Dopo la pubblicazione si formano i primi gruppi di Rivolta femminile, a Roma e Milano, poi in altre città, accomunati dalla pratica, con il cui annuncio si chiude il Manifesto, «Comunichiamo solo con donne» – del separatismo e dell’autocoscienza.

Nell’estate dello stesso anno Lonzi scrive Sputiamo su Hegel – titolo volutamente irriverente – testo teorico che resta tuttora il più motivato e radicale congedo dal patriarcato. È rivolto innanzitutto alle femministe degli anni Settanta, molte delle quali si affidano, per la propria liberazione, alle teorie e alle forme di lotta degli uomini più che alla presa di coscienza, tratta dall’esperienza femminile.

Per Lonzi e «Rivolta», infatti, l’autocoscienza non è uno sfogo, un racconto di vissuti, impastato più di emozioni, frustrazioni e ribellioni che di pensiero. Nello scavo di sé che avviene tra donne, ma anche tra sé e sé, la parola di una donna dà forma e sostanza a un sapere originale che È già politica (Scritti di Rivolta femminile, 1977). Solo la trasformazione di sé e del rapporto personale con l’uomo può costruire la libertà femminile, per tutte e per ognuna, e segnare con la differenza sessuale l’intero ordine di rapporti ed esperienze umane. Leggiamo nel Manifesto: «La donna non va definita in rapporto all’uomo. Su questa premessa si fondano tanto la nostra lotta quanto la nostra libertà». In Sputiamo su Hegel: «Problema femminile significa rapporto tra ogni donna – priva di potere, di storia, di cultura, di ruolo – e ogni uomo – il suo potere, la sua storia, la sua cultura, il suo ruolo assoluto». «Non si risolve nell’uguaglianza ma prosegue nell’uguaglianza. Non si risolve nella rivoluzione, ma prosegue nella rivoluzione». Poche righe dopo, Lonzi rilancia l’interrogativo di Virginia Woolf in Le tre ghinee: «Ci piace dopo millenni, inserirci a questo titolo [di uguaglianza, NdA] nel mondo progettato da altri? Ci pare gratificante partecipare alla grande sconfitta dell’uomo?».

Con la pratica dell’autocoscienza il femminismo opera una differente rivoluzione, simbolica e materiale, che investe tutti i piani dell’esistenza, risalendo alle «origine buie» della vicenda umana, reinterpreta la storia, scompagina il sistema di saperi e poteri. In una parola scuote le radici del patriarcato e inaugura l’epoca della sua decadenza. A partire dalla fine dello «specifico femminile», capitolo aggiuntivo della politica e dei saperi.

Che di rivoluzione si tratta, le femministe ne sono consapevoli fin dall’inizio. «Riconosciamo a noi stesse la capacità di fare di questo attimo una modificazione totale della vita»; « Noi diciamo all’uomo, al genio, al visionario razionale che il destino del mondo non è nell’andare sempre avanti come la sua brama di superamento gli prefigura. Il destino imprevisto del mondo sta nel ricominciare il cammino per percorrerlo con la donna come soggetto» (Sputiamo su Hegel). La rivoluzione della differenza non viene, insomma, a colmare una lacuna del pensiero e della politica, mette invece a nudo la comune matrice patriarcale delle diverse teorie e dei diversi progetti.

Il congedo dal mondo maschile coincide per Lonzi con la sua scelta di vita. Mette fine alla sua attività professionale di critica d’arte, e si dedica interamente a «Rivolta femminile», in particolare cura la casa editrice Scritti di Rivolta femminile, e alla scrittura autocoscienziale. Per Lonzi infatti l’emancipazione non è tanto una promessa mancata di autorealizzazione, quanto un autoinganno di trovare risposte nel mondo maschile, che si traduce in richiesta agli uomini di riconoscimento di sé e in rivendicazione di soluzioni «specifiche» per le donne (la politica delle pari opportunità nel lavoro, nella famiglia, nella formazione, nella politica persegue questo autoinganno). Il prezzo che una donna paga con l’inserimento è la rinuncia a «smaltire dentro di sé» l’adesione al patriarcato, ovvero la femminilità stessa, intraprendendo la strada, più ardua ma fruttuosa, della costruzione di sé, l’«autenticità dell’io» già presente nelle poesie, scavando nel vissuto, trasformando in coscienza tutti i momenti e i segni di non adesione, cercando conferma nelle altre donne e nella storia femminile di questa differente coscienza.

La consapevolezza con cui Lonzi rifiuta l’emancipazione, e ogni forma di inserimento nel mondo degli uomini, è stata oggetto di sconcerto e di critica nel femminismo, e anche in «Rivolta». Non solo perché giudicata troppo estrema, ma soprattutto perché ha comportato il «costo» della dipendenza economica da Consagra. Ma non va vista come un’indicazione, o peggio un obiettivo, da generalizzare. Quanto la traduzione pratica, esistenziale della convinzione, anche essa tratta dall’esperienza che l’emancipazione non dà libertà alla donna. Al contrario, estende la dipendenza dall’uomo nell’ambito, decisivo, delle scelte e progetti, perfino dei desideri. Se quella scelta non è stata, e non potrebbe essere, condivisa dalla maggior parte delle donne, e delle femministe, è però comune la presa di coscienza che l’emancipazione non mette fine al destino tradizionale, femminile. E che l’uguaglianza – o parità con l’uomo – non offre a una donna risposta alla domanda di libertà femminile.

Estraneità e separatismo sono le parole chiave del femminismo di «Rivolta femminile». Lonzi lo ribadisce con nettezza in una lettera a «L’Espresso» del 5 febbraio 1978: «Si continua a dare per scontato che esista un rapporto diretto tra Sessantotto e femminismo, questo sulla linea di far apparire sempre il femminismo come il reparto-donne di ideologie, rivoluzioni e rivolte degli uomini. […] Ma il femminismo non è un movimento giovanile […] per entrare in uno spiritofemminista le giovani hanno dovuto scardinare non poco le parole d’ordine, i modi e i miti sessantotteschi. È stato malgrado il Sessantotto e non grazie al Sessantotto che hanno potuto farlo».

Nel luglio 1971 Lonzi scrive un secondo testo, firmato «Rivolta femminile», Sessualità femminile e aborto (in Sputiamo su Hegel). Dopo un esplicito rifiuto di richiedere agli uomini di potere, ai legislatori, la cancellazione delreato di aborto, una norma decaduta, a fronte della realtà degli aborti clandestini, Lonzi affronta il nesso tra procreazione e sessualità, al quale si devono molte gravidanze non volute, un nesso assunto a norma sessuale dalpatriarcato.

Nella Premessa alla raccolta dei testi teorici riassume le questioni di fondo affrontate in La donna clitoridea e la donna vaginale, scritto in quella stessa estate. «Perché la donna non ha la risoluzione nell’orgasmo assicurata come l’uomo? Qual è il suo funzionamento fisico-sessuale? E quello pschico-sessuale? Qual è infine il suo sesso? Esistono donneclitoridee e donne vaginali. Chi sono? Chi siamo?». È una lettura della sessualità femminile, tratta dal proprio vissuto. Lo scritto suscitò discussioni e polemiche e aprì il confronto sulle differenze tra donne nel femminismo. In «Rivolta femminile» portò, in particolare, un approfondimento dell’autocoscienza (Significato dell’autocoscienza nei gruppi femministi, cit.)

Sputiamo su Hegel. La donna clitoridea e la donna vaginale e altri scritti, è uno dei pochi libri del femminismo italiano pubblicati all’estero, fin dagli anni Settanta. Nel ’75 esce in Argentina (Escupamos sobre Hegel) e in Germania (Die lust Frau zu sein), esce quindi in Spagna nell’81. Nel giugno ’76 Michèle Causse dell’Editions des femmes intervista Carla Lonzi, a conferma che «Rivolta femminile» e i suoi scritti sono conosciuti e apprezzati fuori dall’Italia. È un riconoscimento che non ha riscontro in Italia, dove la fedeltà all’autocoscienza, e la conseguente presa di distanza dalle mobilitazioni di massa per l’aborto, e dalle pratiche che «Rivolta» definisce «culturali», portano a un suo progressivo isolamento. Resta tuttavia alta l’attenzione alla rappresentazione, mediatica e politica, del femminismo. Per Lonzi come movimento di massa il femminismo si conforma alla rappresentazione che ne viene data. «In quasi dieci anni di vita si è andato sempre più uniformando a ciò che del femminismo capiscono gli uomini, li mette in crisi, li fa rilasciare interviste, scrivere libri, articoli, fare film, dibattere e discutere […] “il privato è politico” può dare la misura riduttiva a cui si è adeguato nel diventare tematica: si riconosce il traguardo (politico) del femminismo nella denuncia dei ruoli (privato) e si aspetta che tiri le conseguenze, “che fare?”» (Mito della proposta culturale, in La presenza dell’uomo nel femminismo, 1977).

Una conferma di questa attenzione al discorso pubblico sul femminismo sono le numerose lettere a giornali, italiani e stranieri, le rettifiche e i tentativi di dialogo con altre femministe. Atti che sono rimasti tutti senza risposta. Ne cito due. Nel gennaio 1975, Pier Paolo Pasolini su «Il Corriere della Sera» critica il movimento femminista per non aver affrontato il nodo della sessualità e del nesso coito-aborto. Lonzi invia al giornale lo scritto Sessualità femminile e aborto, con allegata una lettera a Pasolini. Il giornale non pubblicò e Pasolini non rispose. Dell’aprile dello stesso anno è la lettera a «L’Espresso», di rettifica sulle posizioni di «Rivolta femminile»: non ha fatto scelte ideologiche, «non ha teorizzato il lesbismo» [traduzione nel discorso patriarcale del piacere clitorideo, NdA], non è organizzata gerarchicamente, né per iscrizione, non è sua la frase, citata dal giornale, «dimostriamo agli uomini che possiamo fare a meno di loro» (in È già politica).

Per capire cosa distingue la pratica dell’autocoscienza di «Rivolta» da altre pratiche femministe, basate sull’esperienza e le relazioni tra donne, si deve dare la giusta rilevanza alla scrittura, ovvero all’elaborazione personale che singole donne fanno del loro percorso, compiuto all’interno del collettivo e, tuttavia, non riducibile a un discorso, o presa di parola, comune. La fonte più ricca e feconda è Taci anzi parla. Diario di una femminista (Milano 1978) che raccoglie in 1300 pagine annotazioni, fatti, letture, pensieri, emozioni, di Carla Lonzi dal 1972 al 1977, l’arco temporale in cui autocoscienza personale e pratica del collettivo si intrecciano indissolubilmente. Poi inizia un’altra stagione, quella delle relazioni soggettive tra donne. Nel diario sono già presenti i motivi che portarono Lonzi a sospendere la partecipazione al collettivo. E contribuirono alla difficile decisione di pubblicarlo, nella consapevolezza che «pubblicare un diario è svelare se stessi al di fuori delle convenzioni e trascinare altri in questa operazione. […] Da qualche parte bisogna pur cominciare a demolire le false identità che stanno appiccicate alle donne come un sudario» (op. cit.). Per Lonzi scrivere è arricchire l’esistenza di possibilità, e la scrittura di un diario le è particolarmente congeniale: «è un libro che ho scritto senza pause come ho vissuto senza pause e che si è concluso solo quando il periplo attorno alla mia identità mi è parso esaurito» (ivi).

Quando esce il diario, il rapporto con Consagra attraversa una crisi profonda, causata dalla richiesta che le rivolge di accettare la presenza di un’altra donna nella sua vita, che era disposta a prendersi cura di lui e del suo studio. Carla non oppone un rifiuto immediato, per affrontare la nuova situazione si affida, come sempre, alla scrittura. Del diario che tenne in quel periodo si conosce solo il titolo, Gelosia. Vede riproporsi nella sua situazione una costante del rapporto uomo donna: l’impossibilità di andare a fondo, perché l’uomo trova appoggio in un’altra donna.

Alla ricerca di antecedenti storici, uno ne trova particolarmente rispondente al suo sentire, in Les femmes savantes diMolière. A colpirla è la messa in ridicolo di donne che non si affidano all’uomo per pensare. La rappresentazione di donne colte, quali précieuses ridicules è per Lonzi del tutto aderente a quella che gli uomini danno delle femministe. «Ilmondo delle Precieuses mi interessa e mi riguarda […] aver espresso pubblicamente il desiderio di rifiutare o ritardare l’amore fisico, quindi una sospensione del gradimento del pene, e dall’aver preteso di giudicare le opere degli autori, quindi una intromissione nel mondo del fallo. Queste sono state due mosse autentiche e strategiche […] In fondo i miei scritti teorici toccano gli stessi due punti, con Sputiamo su Hegel e La donna clitoridea e la donna vaginale» (Armande sono io!).

Al culmine della crisi, nella primavera dell’80, Carla Lonzi e Pietro Consagra intrattengono, nel corso di più giorni, un serrato dialogo sul loro rapporto che lei registra. La pubblicazione, a opera di Lonzi, con il consenso di Consagra, avviene quando il rapporto è ripreso.

Vai pure è un documento drammatico di quelli che Lonzi chiama, nella Premessa, «i punti inconciliabili di due individui che sono due culture» (corsivo mio). L’ affermazione di inconciliabilità sembra escludere la possibilità di rapporto tra donna e uomo, dopo averne preso coscienza. Non a caso il dialogo si conclude con l’invito di Carla a Pietro, Vai pure. «Per me era proprio una rottura desiderata […]. Ero veramente felice», afferma in un’intervista a «Quotidiano donna» nel maggio ’81. Anche se la rottura è stata breve, per Lonzi segna una discontinuità importante. Acconsente a ristabilire il rapporto, ma si definisce «ingaggiata in un rapporto con l’uomo più esplicito e anche più centrale nella mia vita».

Non è infatti venuto meno il dissidio tra due «inconciliabilità», di coscienza e di cultura, al contrario è reso più intenso, proprio per la consapevolezza acquisita che l’inconciliabilità non è dovuta solo a cause personali, ma investe tutta la realtà e segna l’intera civiltà umana. Nel libro nomina i momenti «nobili» di questa civiltà, arte, filosofia, religione; e dichiara appassionatamente la sua estraneità. Da qui muove la ricerca tenace di un’altra strada, quella intrapresa con le donne, non per fare a meno del rapporto con gli uomini, ma per cambiarlo, facendo leva sulla differenza.

La via che Lonzi intraprende per modificare la società con le sue strutture, le attività umane con le loro regole e fini, i saperi con la loro pretesa di verità oggettiva, è quella di modificare in primo luogo le relazioni umane, quelle tra donne, e quelle con gli uomini. Poiché è nel rapporto con l’altro da sé, e con l’altra, che si apre un differente significato e un differente modo di vivere e di operare. Per Carla Lonzi, insomma, fallire il rapporto è fallire la sfida della differenza sessuale, e delle differenze tra donne. Più in radice comporta che il principio di realtà resta nelle mani dell’uomo, al quale la donna è obbligata a rivolgersi, pena lo smarrimento di senso. «Chiedo a Simone “Dì è così?” E lui risponde sì oppure no. E da quando lui si sovrappone al mio senso della cosa, la cosa dà ragione a lui, gli assentisce disperatamente per sottrarsi a me, è lui quello atto a creare l’unisono essere umano-realtà». (Taci, anzi parla. Simone è il nome di Consagra nel diario). Il mondo, insomma, continua a essere un luogo ostile, dove la donna non può abitare se non in posizione seconda, in perenne debito con il sesso dominante.

È illuminante, al riguardo, un’affermazione nell’intervista a «Quotidiano donna»: «Dobbiamo prendere atto che la soluzione interna solo tra donne, anche quando ci sia, è parziale e non corrisponde all’estensione dei desideri. Perché questa verità è così dura da accettare? Perché non viene formulata come punto di partenza per una nuova fase?». D’altra parte, «la rinuncia a un tentativo di intesa affettiva con l’uomo è lo scoglio contro cui si è sempre sfaldata la presa di coscienza femminile»; ora, con il femminismo, «è il momento di affrontarlo».

Con il congedo e il successivo ritorno al rapporto con Consagra, Lonzi si misura con questo ostacolo. Costituito più che dal legame affettivo dall’insidia di rinunciare «all’estensione dei desideri», sia che prevalgano le ragioni di rottura, sia quelle di conferma, si può mancare il desiderio di una relazione che sia all’altezza della «sfida tra coscienze» (Armande sono io!). Grazie a Vai pure, l’atto e il testo, Carla Lonzi si sottrae alla falsa alternativa tra antagonismo e complicità con il maschile. Avere alla spalle il problema dell’uomo per Lonzi significa sottrarsi all’oscillazione tra aspirazione alla libertà femminile e mito della coppia.

Poco dopo la pubblicazione di Vai pure avverte forti dolori al viso, ma non vi presta attenzione, perché è immersa nel lavoro. Alla ricerca sulle Preziose si era infatti aggiunta la richiesta di scrivere un testo per il catalogo della mostra Identité italienne, in allestimento al Centre Georges Pompidou di Parigi, a cura di Germano Celant. Lonzi esita ad accettare, considerando da tempo concluso il suo impegno nel mondo dell’arte. Poi accetta, per riformulare al presente, forte della coscienza acquisita nel femminismo, il tema che aveva già affrontato negli scritti sull’arte, quello del primato dell’opera e del potere del critico, nel ruolo di mediatore culturale. Definisce la sua presenza in quel mondo quella di «una futura coscienza e non una complice»; una coscienza che ha trovato nel femminismo l’espressione della propria creatività, e come tale riprende parola sull’arte.

La malattia l’incalza, e la costringe a interrompere la ricerca sulle Preziose. Dopo un’operazione al Canton Hospital di Zurigo il 15 dicembre 1981, torna a Milano nel febbraio ’82, ma non si riprende. A giugno è ricoverata alla clinica Capitanio di Milano, dove muore il 2 agosto 1982. Il suo corpo è sepolto nel cimitero di Turicchi, come lei desiderava.

«Rivolta femminile» ha pubblicato postumi, nell’85 Scacco ragionato: Poesie dal ’58 al ’63, con una Biografia, a cura di Marta Lonzi e Anna Jaquinta, e una Premessa di Marta Lonzi; nel ’92 Armande sono io!, raccolta dei materiali su Le Preciouses, a cura di Marta Lonzi e Anna Jaquinta.

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