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Breaking the waves (I)

Composizione e destituzione nel recente ciclo di movimenti tra Stati Uniti e Francia





L’articolo di Nicolò Molinari si pone in dialogo con alcuni testi recenti intorno alla questione della composizione come problema strategico. Per riflettere sui limiti e sulle potenzialità di questa intuizione prende a riferimento il movimento delle pensioni in Francia, Soulevements de la Terre, la lotta contro i megabacini, e Stop Cop City ad Atlanta. Nell’evidenziare le impasse, il testo (originariamente pubblicato su «Ill Will») conclude riprendendo l’ipotesi della destituzione.


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Introduzione alla pubblicazione italiana

Questo testo, scritto tra aprile e maggio 2023, prova a mettere in fila alcuni ragionamenti strategici a partire da esperienze di lotta recenti tra Stati Uniti e Francia. Non si tratta di un bilancio, né tantomeno di un insieme di indicazioni prescrittive, si tratta di un tentativo di ragionare sulle strategie dei movimenti e dei limiti che incontrano.

Si potrebbero considerare le condizioni storiche come ostacoli inaggirabili che conducono all’inesorabile declino dei movimenti, oppure, si potrebbe affermare che la sconfitta è già inscritta nella composizione sociologica di classe di chi si mobilita. Il problema invece è strategico, ossia di saper cogliere nei conflitti quelle tendenze che le conducono su delle «impasse» già annunciate, per provare piuttosto a esplorare delle ipotesi alternative. Una «strategia della composizione» con le forze politiche esistenti raggiunge rapidamente dei limiti di allargamento, e una volta satura, ripiega conseguentemente su dinamiche politiche classiche: il consenso nei confronti dell’istanza della lotta può essere facilmente capitalizzato dalle forze elettorali, mentre vengono represse le parti che si sono fatte portatrici di quelle spinte non ritenute legittime all’interno di un quadro «legale».

Il recente ciclo di lotte in Francia pone delle questioni rispetto a quali rapporti intrattenere con le forze della sinistra: ad esempio su come l’essere rimasti dentro l’orizzonte strategico del sindacato, senza averne saputo avanzare uno autonomo, abbia condotto il movimento contro la riforma delle pensioni a una sconfitta insindacabile. Dall’altra parte cavalcare delle istanze ecologiste di grande consenso può consentire di ottenere una maggior legittimazione pubblica e diffondere forme di azione come il sabotaggio, ma dopo una prima fase si scivola facilmente in meccanismi di recupero elettorale e repressione.

Gli interventi dei gruppi autonomi o radicali che provano a porsi alla testa dei movimenti per spostare l’asse politico della sinistra istituzionale ha degli evidenti limiti strategici se non riesce a far saltare le rappresentazioni politiche classiche, venendone sostanzialmente catturati.

I gilet gialli avevano già mostrato in maniera evidente che il neoliberismo democratico non esiste, che non vi sono grandi spazi di mediazione e che l’unico modo per invertire la polarizzazione reazionaria che sta investendo tutto l’Occidente non è un largo fronte di sinistra, ma un movimento popolare capace di disarticolare le rappresentazioni politiche. Fare tesoro dell’esperienza dei gilet gialli significa allora non ragionare in termini di alleanze scontate, per andare alla ricerca di «composizioni» opache e imprevedibili. Le occasioni non mancano e non sono mancate anche in Italia: sono numerose le opposizioni popolari contro opere che vengono giustificate come parte di una transizione verde (in ambiti urbani come rurali), ma anche sono state numerose le opposizioni contro tecnologie di controllo come si è potuto intravvedere a Trieste nella protesta contro il greenpass.

In un contesto come quello italiano, dove gli appelli alla convergenza sono innumerevoli, forse una progettualità politica nuova potrebbe nascere dall’abbandono delle identità politiche preesistenti per immergersi nei processi di mescolanza che caratterizzano le forme spurie che assumono i conflitti contemporanei. Far cadere i giudizi e i pregiudizi e provare a indagare a fondo, anche organizzandosi, quelle forme apparentemente contorte che sono frutto di composizioni impreviste.

La proposta, allora, è quella di affrontare la lettura di questo testo come un tentativo di indagine, da riprendere, approfondire e risituare, verso una nuova politica dei luoghi, in una traiettoria destituente, che sappia comporre, ma anche separare.


Composizione

In un recente testo Temps critiques[1] riflette su come la composizione intergenerazionale che era mancata nei gilet gialli è presente nel nuovo movimento in gestazione contro la riforma delle pensioni. Il testo descrive un alliage[2] di circostanza, frutto della fusione temporanea di diversi frammenti sociali: categoria che richiama quella che endnotes definisce «composizione» rispetto ai movimenti recenti[3]. Giovani di ogni tipo hanno dato una nuova spinta al movimento, provocando una forte impennata dei cortège de tête e delle pratiche di rivolta (scontri con la polizia e distruzione di vetrine o arredamento urbano) facendo perdere ai sindacati il controllo delle piazze[4]. Allo stesso tempo hanno ridefinito il ruolo delle occupazioni di scuole e università, trasformandole in basi organizzative delle azioni in giro per le città, dotandole quindi di un significato diverso rispetto ai movimenti passati in cui l’occupazione era una forma di riappropriazione delle istituzioni educative.

Gli studenti hanno quindi rielaborato una pratica classica del loro repertorio in una forma nuova, capace di comporsi con il resto del movimento contro la riforma delle pensioni. Si tratta quindi di un alliage/composizione che avviene in opposizione a un «potere» che assume le sembianze di Macron, dello Stato, ma anche quello decentralizzato dell’economia. La forma conflittuale che la mobilitazione ha assunto nel mese di marzo in Francia, decentralizzata e volta a privilegiare azioni dirette e blocchi, è legata alla configurazione compositiva delle varie soggettività coinvolte al loro interno, e in rapporto alle mosse di Macron, in particolare in reazione al suo colpo di mano che ha messo fuorigioco tutte le sue opposizioni istituzionali (sindacati e partiti), lasciando come unica possibilità un’opposizione diretta e priva di mediazioni. È qui, quindi, che i giovani e tutte quelle componenti più «radicali» del movimento hanno trovato lo spazio di dare una scossa alla mobilitazione assegnando maggior centralità a un repertorio di pratiche fatto di blocchi stradali, picchetti, black bloc, manifestazioni selvagge ecc.

Un testo, apparso su Lundi Matin[5] , individua tre momenti della mobilitazione: il primo (quando la riforma era ancora soggetta a dibattito) ruotava intorno alla costruzione di una mobilitazione unitaria da parte del sindacato, il secondo intorno alla combinazione tra sciopero e blocchi/picchetti in alcuni settori chiave dell’economia, infine, in seguito all’approvazione forzata della riforma, si è assistito al proliferare delle rivolte serali e di blocchi dei flussi, autonomi e diffusi. È in questo terzo momento che si è giocata la possibilità della mobilitazione di uscire da uno schema reattivo rispetto alle mosse del governo, uscire dalle secche della democrazia repubblicana e dalle forme di organizzazione mediate del sindacato o dei partiti, per sperimentare configurazioni inedite.

Di fronte all’inefficacia storica ed evidente dello sciopero sindacale (anche quando «generale»), all’interno della grammatica del movimento assume una maggior centralità ed efficacia la pratica del blocco, che va dalle arterie stradali a luoghi strategici dello sciopero come i depositi di autobus, le raffinerie e i centri di smistamento rifiuti. Il blocco permette di decentralizzare il conflitto e uscire da una dinamica di confronto diretto e militare con la polizia, specialmente quando questi sorgono in maniera imprevista in vari punti della città, paralizzandola. Questa forma ha aperto un ritmo diverso per un movimento che all’inizio era stato completamente controllato dall’assemblea intersindacale. Dall’altra parte i sindacati non erano del tutto marginali, perché hanno mantenuto il controllo sui tempi della contestazione, in quanto l’autonomia dei blocchi e delle manifestazioni selvagge è stata largamente schiacciata all’interno delle giornate indette dai sindacati, tanto che dopo il primo maggio i sindacati hanno interrotto il movimento, senza più chiamare giornate di sciopero.


Spazio e luogo

A quanto si legge dai testi apparsi su «LundiMatin» l’organizzazione dei blocchi e delle azioni è stata particolarmente avanzata laddove la mobilitazione si è data delle forme di coordinamento in rapporto diretto con le basi sindacali più attive. Le operazioni «città morta/ville morte» a Rennes, Nantes e Lione mostrano l’emergere di una traiettoria autonoma nella mobilitazione, capace di comporre una soggettività che deborda le mediazioni sindacali e la cristallizzazione di un antagonismo allo Stato. O meglio, la sfida di questa ipotetica nuova soggettività sarebbe proprio quella di reinventare continuamente le capacità di coordinamento e intervento della mobilitazione, come nel caso dei blocchi, evitando un irrigidimento delle tattiche e della strategia, che porterebbe a perdere ogni vantaggio tattico, rendendosi facilmente prevedibile dalla polizia.

Per vincere questa sfida è necessario che le lotte sviluppino una base territoriale – che sia a livello di quartiere, di città o addirittura di regione – che consenta loro di interrompere i flussi circolatori, impedendo alla polizia di riprendere il controllo sulle infrastrutture e sui flussi che le attraversano. Affinché il coordinamento raggiunga un certo livello di efficacia, la dimensione territoriale è essenziale.

Nel movimento contro la riforma delle pensioni, ad esempio, sebbene la formazione di spazi conflittuali sia stata limitata alle occupazioni studentesche e ai blocchi, anche al di là della loro funzione puramente operativa, questi possono diventare luoghi di incontro capaci di riunire una serie di soggettività diverse, contribuendo alla costruzione di un «noi» etico e pratico. A oggi, l’esempio più avanzato di questa combinazione simultanea di forme conflittuali in grado di interrompere l’infrastruttura circolatoria e dell’impulso di placemaking che crea un «fuori», è stato quello delle occupazioni delle rotonde durante i primi tre mesi della rivolta dei Gilet jaunes.

La creazione di luoghi fa parte della grammatica di tutti i movimenti recenti, dal movimento delle piazze, fino alla rivolta di George Floyd Sulla scia del movimento americano Occupy alcuni compagni hanno invocato la categoria di «comune insurrezionale» nel tentativo di teorizzare come questi luoghi aperti dalla lotta sperimentino forme di riproduzione sociale al di fuori dei circuiti del capitale[6]. Similmente nel 2020 si è parlato di «zone autonome», da Seattle fino ad Atlanta, si sono sperimentati tentativi di dare vita a territori liberi dalla presenza di polizia[7]. Non senza numerose difficoltà, in quanto queste esperienze mostrano anche in maniera evidente che il controllo e la funzione di «policing» non è esclusiva assoluta delle forze dell’ordine, spesso il ruolo controinsurrezionale viene assunto da componenti del movimento.

Che si guardi ai nuovi movimenti da una prospettiva marxista o etica ed epistemologica, la creazione di luoghi in secessione e in opposizione al controllo governamentale o capitalistico del territorio costituisce l’elemento attraverso il quale le diverse soggettività costruiscono il terreno comune della loro esistenza e la possibilità di durata. Il declino di una politica programmatica o costruita intorno a rappresentazioni o identità sociali in cerca di integrazione o rappresentazione nello spazio politico classico lascia spazio alla costruzione di nuove territorialità non sovrane. La fine di una politica rivendicativa apre la strada a una nuova geografia politica in cui la posta in gioco diventa la creazione di nuove forme-di-vita, luoghi che prima che fisici sono etici, un tessuto di relazioni mobili e inoggettivabili.

Il punto non è che i luoghi fisici siano diventati la posta in gioco principale dei movimenti contemporanei, ma semplicemente che la loro infrastruttura materiale e strategica dipende da essi. Se intendiamo il termine «zona autonoma» per indicare un’area che non dipende più dalla regione circostante, una cosa del genere non esiste proprio. Non si tratta nemmeno di implementare un modello amministrativo formale, come se l’«autogestione» o la pratica del dono dovessero caratterizzare automaticamente l’orientamento anticapitalista. Tanto meno si tratta di sovranità e indipendenza, di sostituire la sovranità dello Stato con un’altra sovranità simile a quella dello Stato, soprattutto considerando le altre forme altrettanto terribili che spesso si possono generare in questo tipo di tentativi[8]. In verità, l’«autonomia» come questione strategica non riguarda l’autoamministrazione o l’autosovranità, ma è una tensione o un problema che emerge all’interno dello spazio dinamico di un conflitto in corso: una lotta rimane «autonoma» finché mantiene la sua capacità di rigenerare continuamente forme offensive e antagoniste[9]. Da questo punto di vista, gli spazi in cui possiamo sviluppare forme alternative di organizzazione e riproduzione sociale sono ovviamente utili, ma il loro emergere non deve essere inteso come il punto finale o il culmine della lotta.


Lotte territoriali

La rivolta di George Floyd nel 2020 o i gilet gialli nel 2018/19, sono momenti di mobilitazione massiva, insurrezioni che segnano momenti di rottura che non sono il frutto del «transcrescere» di lotte sociali o del raggiungimento di un qualche programma. Su un piano soggettivo producono delle rotture biografiche che spesso rendono ancora più insopportabile un ritorno a una quotidianità priva di quei momenti intensi di lotta. Per chi è mosso da una tensione etica rivoluzionaria diventa difficile pensare di dover aspettare la prossima rivolta imprevista, per saltarvici dentro. Per questo si pone una questione organizzativa, di come apprendere dalle insurrezioni e allo stesso tempo attraversare i momenti di reflusso[10].

Hugh Farrel individua nelle lotte territoriali una forma che il conflitto può assumere in fasi di grande reflusso e generale reazione, condividendo alcune caratteristiche simili alle sollevazioni contemporanee[11]. Guardando telescopicamente al decennio passato emerge come in diverse parti del mondo occidentale le lotte territoriali riescano ad agglutinare soggettività tra loro differenti intorno a un’istanza di difesa di un territorio, insieme a un rinnovato slancio di abitarlo e di costituirlo nuovamente: dalla lotta No Tav in Val di Susa, alla Zad di Notre Dame de Landes, come la lotta No Dapl in NorthDakota (Usa), per arrivare a lotte più recenti come quella contro i mega-bacini a Sainte-Soline e o Cop City nella periferia Sud della città di Atlanta.

Le lotte territoriali danno vita a un processo compositivo sulla base di un territorio, che costituisce quindi il vettore su cui si articola la lotta. L’elemento territoriale è sia fisico, dotato quindi di luoghi specifici che si vorrebbero difendere, che affettivo; quindi, all’interno di un processo di continua ridefinizione e trasformazione che viene generato da coloro che lo abitano[12]. Il caso esemplare recente è il movimento «Soulevements de la Terre» (Sldt), che sta provando ad articolare una composizione tra soggettività differenti e per certi aspetti simile – poiché ugualmente intergenerazionale – a quella contro la riforma delle pensioni: nella strategia di Sldt viene intenzionalmente ricercata una composizione tra agricoltori, abitanti «rurali», «zadisti» e «generazione clima» per sostenere delle lotte territoriali sparse in tutta la Francia. Il caso in cui questa operazione pare al momento ha raggiunto la maggior intensità è quella della lotta contro i mega-bacini, a Sainte-Soline. Si tratta di qualcosa di molto simile alla lotta che ad Atlanta si è riunita in torno allo slogan 1Stop Cop City / Defend the Atlanta Forest» (Dtaf). Dove, non trattandosi di un contesto «rurale», ma di una foresta all’interno di una città (che è a sua volta all’interno di una foresta), la composizione si articola principalmente sulle sottoculture giovanili locali, estremamente forti nella città (tanto che la lotta è spesso scandita da un festival musicale) a cui si aggiungono elementi radicali dal resto del paese, oscillanti tra l’anarchismo e l’ambientalismo radicale. A queste, infine, si aggiungono alcune realtà politiche locali come i community builder[13], gruppi contro la polizia (che provano a dare continuità politica alle rivolte degli anni Dieci e del 2020) e alcune comunità religiose.

Sono lotte che si allontanano molto dalla grammatica delle pratiche dei movimenti per il clima che tendono a favorire soprattutto marce pacifiche e azioni simboliche volte a coltivare la «consapevolezza» sulla crisi climatica; ma anche da un orizzonte strategico che si limita ad avanzare una serie di richieste alle varie istituzioni, rinunciando alla possibilità di originare forme-di-vita situazionali, ripiegando pericolosamente nell’invocare una sorta di leviatano climatico: un orrore sovrano che trova il suo più noto promotore in quella sorta di pseudo-leninista verde di Andreas Malm. Va sottolineato però che la strategia della composizione nei casi di Atlanta o Sldt è esplicitamente e intenzionalmente adottata (nel primo caso solo da alcune delle componenti), mentre nei «non movimenti», come i gilet gialli o l’attuale protesta contro la riforma delle pensioni, è un processo che si produce indipendentemente dalle intenzioni delle singole componenti che ne fanno parte: la «composizione» di Soulevements de la Terre e Defend the Atlanta Forest è avanzata da alcuni gruppi politici preesistenti che provano a promuovere questo processo compositivo che è a tratti etico e a tratti assume le sembianze di un’alleanza o convergenza tra gruppi sociali e politici che mantengono le loro differenze durante la lotta stessa. Sebbene con una particolare attenzione a comporre il proprio agire con quello di altri gruppi, con il fondamentale obiettivo di far crescere la lotta stessa, piuttosto che indebolirla attraverso l’affermazione di elementi e riflessi identitari. Le lotte territoriali, a differenza delle sollevazioni, non sono semplici urgenze etiche di rifiuto, ma possono essere collocate in una soglia che sta tra l’etico e il politico, per questo possono facilmente ricadere in dinamiche politiche classiche, di convergenza, oltre che far scadere il terreno della lotta su un piano meramente pubblico e mediatico[14].

Sldt, Dtaf e molte altre lotte territoriali (presenti e passate) sollevano nella pratica questioni organizzative e strategiche interessanti per chiunque si interroghi su come evitare che una lotta esaurisca rapidamente la sua spinta. In modo particolare i «militanti» coinvolti si scontrano continuamente con problemi organizzativi rilevanti per chi da una parte vuole evitare un avanguardismo in salsa leninista, dall’altra non si ritrova in un certo bordighismo osservatore, che interpreta i movimenti con guardo esterno; insomma si tratta di riconoscersi parte integrante del processo spontaneo in cui una strategia di lotta si sviluppa e quindi di pensarsi capaci di effettuare degli interventi e modificarne i processi senza per questo ingabbiarli, pretenderne di controllarne le traiettorie riducendone le possibilità generative.

Una realtà organizzativa, all’interno di una lotta o di una sommossa può intervenirvi per alimentarne il portato conflittuale, allargarne gli orizzonti tattici, alimentarne le capacità creative. Come è stato evidenziato in questo testo sul cortège de tete[15], alcune soggettività, anche numericamente ridotte, possono introdurre una tattica che è capace di intervenire e modificare anche il piano strategico di una lotta, spesso destabilizzandolo, evitando al contempo che si possa cristallizzare di fronte a una impasse. In qualche modo ciò è quanto viene articolato nel testo meme senza fine di Adrian Wolhenben[16]: alcuni gruppi posso intervenire in un movimento sociale facendolo uscire dalle sue condizioni interne, allargandolo a nuovi orizzonti di trasformazione radicale, se riescono a introdurvi dei gesti capaci di riprodursi e diffondersi al di là delle soggettività che li hanno introdotti. Impedire la cristallizzazione delle tattiche, il controllo esclusivo sulle pratiche, la centralizzazione di una strategia, è un prerequisito per far uscire qualsiasi lotta o gruppo militante da un’impasse che può essere riformista o martirizzante.




Note [1] Temps Critique, La protestation en cours sur les retraites. Du refus à la révolte ? https://tempscritiques.free.fr/spip.php?article530#_ftnref6. [2] La traduzione letterale sarebbe «lega», una fusione di metalli. La scelta del termine è anche legata all’assonanza con un altro termine simile, che è «alliance», ossia «alleanza». Si potrebbe quindi pensare a questa «lega» come a qualcosa di più di un’allenza, in cui i vari elementi si compongono insieme, perdendo le loro singolari differenze. Cito dal testo originale: «Tutto questo, che rende possibile la mescolanza di generazioni, non produce certo una nuova “composizione di classe” sul modello operistico italiano degli anni Sessanta e Settanta, non un’alleanza consapevole o intenzionale tra frazioni, ma una ‘lega’ di circostanze e opportunità che tende a superare i soliti particolarismi di età, sesso ecc.». [3] Endnotes, Avanti Barbari! In rete https://endnotes.org.uk/posts/endnotes-onward-barbarians in italiano al link https://teatrodioklahoma.net/2021/10/22/avanti-barbari/. [4] Si potrebbe anche affermare che i sindacati e i partiti di sinistra hanno, loro malgrado, accettato il diffondersi di queste forme intorno ai loro cortei, dal momento che hanno comunque mantenuto il controllo della strategia generale della mobilitazione oltre che della sua temporalità. Infatti, nel momento in cui l’intensità del movimento sembrava scardinare la cornice costituzionale della mobilitazione, aprendo alla possibilità del conflitto di autonomizzarsi rispetto alla sua ragione rivendicativa, i sindacati hanno smesso di chiamare giornate di sciopero e corteo, portando di fatto all’inesorabile implosione del movimento. [5] LundiMatin, Sortir de l’antagonisme d’état,https://lundi.am/Sortir-de-l-antagonisme-d-Etat. [6] Joshua Clover nel libro Riot.Scioero.Riot, fa un particolare riferimento alla «Comune di Oakland». J. Clover, Riot.Sciopero.Riot, Meltemi, 2023 [7] Segnalo questi due testi che tracciano in maniera chiara le traiettorie in due esperienze significative durante il 2020 negli Stati Uniti. Ad Atlanta https://illwill.com/at-the-wendys Intervista su CHAZ a Seattle https://itsgoingdown.org/get-in-the-zone/. [8] Su queste riflessioni, sul rapporto tra amministrazione e sovranità, sul modo in cui l’esperienza zapatista riesce uscire da certe secche del pensiero radicale occidentale segnalo questo testo di Jerome Baschet https://illwill.com/zapatista-autonomy in italiano https://www.antudo.info/wp-content/uploads/2020/03/brevi-osservazioni-sull-autonomia-zapatista.pdf. [9] Un testo che chiarisce in maniera molto semplice l’uso della categoria di «autonomia» è quello di Adrian Wohlleben, Autonomy in Conflict, «The Reservoir», vol. 1. [10] Credo che il vuoto che lascia la fine di una sollevazione è più che altro etico e affettivo; al contrario di altre letture, tendenzialmente nostalgiche del movimento operaio, che preferiscono evidenziare il vuoto politico che queste lasciano, nel senso di un’assenza di un Soggetto rilevante (in particolare si veda quella di Maurizio Lazzarato nel suo libro L’intollerabile presente, l’urgenza della rivoluzione, ombre corte, Verona 2022). [11] Hugh Farrel, Strategia della composizione, IllWill, 2023 – in italiano qui https://www.machina-deriveapprodi.com/post/la-strategia-della-composizione-prima-parte [12] Nelle loro Tragic Thesis, il gruppo Decomposition, formula l’ipotesi che le lotte territoriale sarebbero esempi in cui si supera la separazione tra specie, tra umano e non umano, in qualche modo rompendo i processi di umanizzazione e disumanizzazione che sono alla base dei processi di valorizzazione del Capitale. La tesi sembra interessante in quanto, reinterpretandola liberamente, sembra legarsi a quanto in molte di queste lotte viene affermato per lo più come uno slogan, «siamo la valle che si difende» (è uno degli slogan della lotta No Tav), oppure anche il nome stesso «sollevamenti della terra». Sembrano tutti indicare un luogo, un territorio, più che a un Soggetto che produce un’agency. Le tesi sono consultabili al link https://decompositions.noblogs.org/post/2023/03/09/tragic-theses/ . [13] Delle comunità o associazioni di tipo antirazzista. [14] Credo sia fondamentale distinguere il problema della composizione da una strategia di convergenza. Come già scritto nell’introduzione italiana a Strategia della composizione, la sfida delle lotte territoriale è quello di evitare una loro centralizzazione, la definizione di un soggetto guida, che si pone alla testa e articola o dirige le varie componenti del movimento. La convergenza presuppone una serie di attori, più o meno radicali, a partire dai quali vengono articolati discorsi, rivendicazioni e nuclei ideologici; la convergenza cattura o fa derivare l’agire a partire da una virtualità, rendendolo la performance tipica dell’attivismo politico. Come argomenterò più avanti una composizione che non si fa convergenza non può partire da identità sociali o politiche presupposte e tantomeno parlare la stessa lingua della politica classica. [15]La vera storia del Cortège de tete, consultabile qui https://www.infoaut.org/approfondimenti/la-vera-storia-del-cortege-de-tete . [16] Consultabile qui https://illwill.com/memes-without-end in italiano https://vitalista.in/2022/03/19/meme-senza-fine/.



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Nicolò Molinari vive a Torino ed è dottorando all’Università Iuav di Venezia in Pianificazione del territorio e politiche pubbliche. La sua ricerca si concentra sui territori delle nuove forme del conflitto muovendo dal concetto di «destituzione» e dal dibattito sulla categoria di «periferia». Ha avuto modo di scrivere di gilet gialli e del rapporto tra musica rap, periferia e rivolte.


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