Come mai un’autrice come Beatriz Colomina non è mai stata tradotta in Italia? Forse la risposta sta proprio nella natura della sua ricerca, che insiste sul corpo e le sue fragilità e parla non solo di self design, ma anche di di decolonizzare il progetto e riscrivere la storia dell’arte e dell’architettura. In un paese che si sente depositario della cultura del progetto certe idee fanno fatica ad essere accettate.
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Beatriz Colomina è una delle personalità più influenti nella teoria progettuale internazionale, i suoi lavori hanno ridefinito il panorama contemporaneo della ricerca e teoria architettonica ma in Italia non sono mai stati tradotti. Per capire a fondo obbiettivi e modus operandi della Colomina dobbiamo prendere in considerazione le forze esterne che hanno condizionato il suo lavoro.
Storica e teorica dell’architettura, nasce nel 1952 a Valencia, dove inizia gli studi presso l’Istituto Politecnico, un’università giovane ma intellettualmente povera, per questo motivo si trasferisce a Barcellona dove si laurea in Architettura e Urbanistica. A soli 23 anni grazie al profondo interesse in campo storico-teorico, sotto la guida del professor Ignasi de Solà-Morales, viene assunta dal Dipartimento d’Architettura dell’istituto.
Bisogna ricordare che in quel periodo, a causa del regime dittatoriale di Francisco Franco, i moti rivoluzionari e lo spirito del ’68 erano ancora molto presenti all’interno della facoltà e coinvolgevano sia studenti che professori, che dimostravano un profondo interesse verso una politica socialmente impegnata. Da un punto di vista accademico la maggior parte degli storici s’identificavano con il pensiero portato avanti da Tafuri, sopratutto per via del suo orientamento politico, autore molto caro anche alla Colomina, che allora si fece notare proprio perché ne curò la traduzione dall’italiano. Osservare la connessione fra accademismo e attivismo è dunque fondamentale per capire meglio il suo lavoro.
Nel 1982 lascia definitivamente la Spagna per insegnare alla Columbia University. In America trova una realtà ben diversa: nonostante la politica aggressiva di Reagan, la facoltà sembra avere scarso interesse nell’approccio politico-sociale dell’architettura. Pochi mesi dopo, la situazione cambia in maniera drastica: ci troviamo nel pieno della crisi dell’Aids, un evento dall’impatto devastante; in prima persona assiste alla morte di un’intera generazione di teorici e studiosi, molti dei quali suoi colleghi e coetanei, un’emergenza che nessuno in quel periodo, al di là della comunità queer, sembrava prendere sul serio, un’urgenza profonda a cui la cultura architettonica ha saputo offrire nient’altro che silenzio mentre strade e ospedali si riempivano di cadaveri.
Da quel momento in poi l’autrice, ispirata anche dal libro Illness as Metaphor di Susan Sontag, inizia a indagare l’architettura da un punto di vista medico, analizzando il modo in cui la malattia, dall’agorafobia alla tubercolosi, modifica il nostro modo di abitare.
Nello stesso periodo collabora a una serie di progetti con l’Istituto delle Materie Umanistiche a fianco del sociologo e critico letterario Richard Sennett, che la portò a un approccio interdisciplinare. I lavori svolti dall’Istituto raccolgono e intersecano tra loro letteratura, musica, pittura, storia, architettura in un mix di discipline estremamente fecondo. In quell’ambiente, venendo a contatto con i lavori del giornalista e storico Wolfgang Schivelbusch, decise definitivamente di abbandonare il linguaggio pedante e accademico tipico dei teorici, per adottare una linea di pensiero secondo la quale lo sforzo maggiore, quando si ha un’idea davvero sofisticata e rivoluzionaria, è presentarla nel modo più accessibile.
Con il passare del tempo entra in contatto con le teorie femministe promosse da autrici, artiste e teoriche come Rosalyn Deutsche, Barbara Kruger, Jane Weinstock e Laura Mulvey, idee estremamente interessanti e rivoluzionarie che forniscono un nuovo metodo di indagine: l’obbiettivo non è quello di inserire più donne nei libri di storia, che appare come un contentino o un pro-forma, ma quello di cambiare radicalmente il modo in cui ci approcciamo alla storia dell’arte. L’architettura è sempre stata collaborativa, eppure alcuni se ne prendono il merito, facendo dell’architetto una figura quasi eroica al servizio di una storia semplice e lineare. Bisogna abbandonare questo metodo narrativo logoro e arcaico, il mito che circonda la singola figura è così dominante che nessuno sembra accettare l’idea di una disciplina estremamente complessa e collaborativa. Ne risulta un processo di censura vero e proprio che danneggia in maniera considerevole non solo donne, minoranze etniche e comunità Lgbt, ma fa anche sparire figure maschili minori, che semplicemente ebbero la sfortuna di collaborare coi cosiddetti grandi artisti.
Dobbiamo rivolgere uno sguardo critico alla parte intima della disciplina, riesaminare quelle narrative e quei personaggi considerati ormai canonici, con l’obbiettivo di riscrivere la storia dell’architettura cercando nuove modalità di critica e analisi; esplorare nuovi territori al fine di riscoprire e mappare autori, artisti, studiosi e teorici ignorati e abbandonati dalla vecchia scuola, è giusto fare distinzione tra res gestae e historia rerum gestarum, ma non bisogna dimenticare che quest’ultima spesso presenta una chiave di lettura profondamente di parte. Questa nuova metodologia è fondamentale ai fini stessi della sopravvivenza della disciplina architettonica: ci troviamo in un periodo storico in cui è possibile assistere a una re-emergenza della consapevolezza politica e sociale dove l’architettura ancora una volta è chiamata a rispondere. Le urgenze contemporanee, seppur in linea con quelle del passato, rappresentano un ostacolo per la salvaguardia della nostra specie e dell’intero ecosistema.
Negli ultimi decenni abbiamo assistito a un interesse sempre maggiore nei confronti dell’ambiente e delle crisi umanitarie ed è ormai evidente, più che in passato, che il vero problema è l’attaccamento morboso della disciplina ai cosiddetti valori occidentali; decolonizzare il progetto è dunque cruciale, il post-colonialismo non dev’essere interpretato come una posizione teorica, ma come l’effettiva esperienza politica e sociale collettiva vissuta in prima persona da chi resiste al meccanismo capitalista-coloniale di oggi. Il progetto deve divenire globale, l’architetto ha il dovere sociale e morale di indagare la propria educazione accademica e i conseguenti bias che ne derivano, bisogna confrontarsi con situazioni e contesti storico-culturali che probabilmente fino a dieci anni fa non avremmo neanche preso in considerazione.
Che impatto avrebbe, dunque, sullo scenario contemporaneo l’adozione di un sistema metodologico alternativo? Come percepiamo veramente lo spazio in cui quale abitiamo? Cosa cambierebbe nel nostro approccio all’architettura e alla progettazione se rivalutassimo il rapporto tra queste discipline e la salute e il benessere personale e sociale? Per poter arrivare a un’elaborazione concreta di queste domande bisogna innanzitutto capire quello che è il profondo legame tra l’Umano e l’Artefatto.
In questo caso l’autrice ragiona in termini di Umano in quanto essere instabile definito dalla sua diversità/plasticità (Plastic Human), dunque la specie animale che è in grado di espandere le proprie capacità vivendo sospeso in uno strato continuo di artefatti, un’intersecarsi a più piani che offre l’opportunità di controllare e modificare anche la propria immagine e persona.
Le concezioni di Io e personalità si sono integrate nei meccanismi della struttura economica-sociale contemporanea, esse vengono esibite su piattaforme mediatiche, come musei personali in cui esporre pubblicamente gusti e interessi. Il media è quindi governato dall’Io e fornisce potenziale illimitato al fine di progettare la propria identità, questo porta a un'estensione continua di sé che passa da una dimensione di materialità a una realtà metafisica, in una sorta di nuovo manifesto umanista. Si ha quindi la creazione di uno spazio in cui l’individuo è sia opera che artista, attento nell’osservare le convenzioni sociali alla base di etica ed estetica, in questo modo da un desiderio di riconoscimento e validazione si produce una coscienza di sé che trasforma il soggetto in oggetto. Il vero problema quindi non è tanto come progetto il mondo esterno, ma piuttosto come reagisco al modo in cui il mondo esterno cambia me.
Il corpo e l’architettura
Tramite questa indeterminazione dell’Umano il design prende e dà forma, se fossimo esseri perfettamente stabili il concetto stesso di Progettazione non esisterebbe; un gesto paradossale scaturito dal desiderio di dare nuova forma all’umano nel tentativo di proteggere e rinforzare se stessi. II dibattito sull’architettura si intreccia quindi con teorie e conoscenze che ruotano intorno al concetto di benessere del corpo e della mente, le premesse per la costruzione di un linguaggio architettonico occidentale risalgono proprio a questi due campi teorici.
La riconfigurazione del cosiddetto corpo medico avviene attraverso il progresso medico-scientifico e tecnico, l’interazione tra scienze mediche, benessere e malattia, modifica la nostra percezione di spazio abitativo. Il primo in occidente a definire dettagliatamente questo tipo di approccio è Vitruvio: attraverso il De Architettura traspare l’immagine di una figura professionale dedita in primis al benessere del cliente e del cittadino. Nel primo dei dieci libri che compongono la totalità dell’opera scrive in maniera esaustiva sulla determinazione della qualità abitativa di un sito o di una città e studia la composizione interna di un edificio come fosse un corpo anatomico.
Durante il Rinascimento, a Firenze Vasari basava la costruzione dei propri modelli architettonici su quelli anatomici usati dalla facoltà di medicina. Nel 1850 Viollet le Duc illustrava il suo Dictionaire de l’Architecture Française con dissezioni di interi edifici ispirandosi all’Anatomie Compareé di Couvier. Per Le Corbusier l’ambiente abitativo diventa un corpo meccanico adibito ad accogliere un nuovo spirito, crea uno spazio in cui ventilazione, aria, luce e umidità sono fattori legati a cura e prevenzione delle malattie respiratorie e mentali; l’artista pone come obbiettivo ideale del design la riduzione dello stress: le superfici lisce e pulite devono sopprimere la sensorialità della corteccia centrale al fine di anestetizzare lo spettatore, la stabilità mentale viene descritta come il prodotto di un ambiente fisico salubre e dunque il dilagare della malattia ha origine nella degenerazione dell’ambiente urbano.
Intorno agli anni ’20 l’architettura moderna viene proposta al pubblico attraverso una vera e propria campagna per uno stile di vita atto a contrastare le paure e le malattie del tempo, con un focus particolare su tubercolosi e nervosismo, malattie tipicamente percepite come urbane (nel XIX sec. una persona su sette moriva di Tbc, a Parigi la malattia colpiva una persona su tre). Nel 1935 nella Le ville radieuse, Le Corbusier insiste nel sollevare con l’aiuto di pilastri l’ambiente casalingo dal terreno, poiché si pensava che la malattia si propagasse maggiormente in ambienti umidi e sporchi dove non vi era un ricambio adeguato d’aria, predispone quindi l’uso del terrazzo come giardino e luogo adibito all’esercizio fisico, si assicura inoltre che all’interno dell’edificio ci sia un ricambio continuo di aria per favorire le vie respiratorie. In quello stesso periodo Adolf Loos sostiene che l’uomo moderno non ha più i «nervi» necessari a mangiare, vestire e decorare come nei secoli precedenti, in Ornamento e delitto descrive l’orrore e la nausea di fronte all’eccessiva decorazione: «L’uomo moderno ha imparato ad apprezzare la pietra nuda poiché possiede un nuovo tipo di sensibilità». Loos stesso d’altronde era una persona dalla salute estremamente fragile, soffriva di numerosi disturbi fisici e nervosi, per lui l’architettura doveva fungere da crisallide, volta a proteggere la psiche esposta al ritmo sempre più incalzante del processo industriale, alla guerra e alla perdita dei valori tradizionali.
Oggi disponiamo di nuovi strumenti per la diagnosi medica e nuovi sistemi di rappresentazione architettonica, ognuno dei quali impone un approccio differente alla progettazione. Ogni epoca è segnata dai propri disturbi, e ogni disturbo ha una propria architettura. Byung-Chul Han nel libro Burn out Syndrome scrive del XXI secolo come l’era dei disturbi neurologici: Adhd, personalità borderline, esaurimenti nervosi e depressione; ma questo è anche il secolo delle allergie: il corpo dimostra ipersensibilità ad ambienti e materiali, in nessun altro periodo storico sono stati riscontrati così tanti casi di persone allergiche a sostanze chimiche, fragranze, coloranti, tessuti, polvere ecc.. Poiché l’ambiente in cui viviamo è diventato quasi completamente frutto della mano umana, è come avessimo sviluppato un’allergia a noi stessi, alla nostra rete di estensioni e artefatti, come una sorta di malattia autoimmune. L’architettura perde dunque il suo status di cura non potendosi più presentare come tale, da qui la necessità di scartare i canoni imposti in precedenza e il bisogno di progettare teorie nuove per corpi altrettanto nuovi.
Design della negligenza
La forma ultima di progettazione è quella del soggetto, con il termine self design si indica la pratica di riscrivere abitudini comportamentali, caratteriali, interessi politici ed economici. Il cittadino contemporaneo identifica il suo punto di vista con una prospettiva sociale oggettiva, creando un’immagine riflessa della sua persona che allo stadio naturale si presenta come potenzialmente accessibile a tutti. Egli manifesta il suo desiderio di validazione nell’Altro seguendo un preciso protocollo etico/formale. Prima dell’avvento dell’epoca moderna l’individuo esprime il desiderio di validazione osservando i valori imposti dalla fede Cristiana, il soggetto progetta quindi se stesso al fine di ottenere il riconoscimento e l’amore divino, mentre il desiderio di generare ammirazione nei confronti degli altri viene considerato peccato poiché si pone il riconoscimento materiale al di sopra di quello spirituale; per questo motivo il rapporto del soggetto con la società era di tipo etico: si compie un’azione al fine di compiacere il giudizio Divino e non la società in sé. Con l’avvento della modernità e la conseguente «morte» di Dio formalizzata da Nietzsche, viene a mancare quella figura coinvolta nel ruolo di Osservatore, che viene rimpiazzata dalla Società; all’improvviso l’unico possibile manifestarsi della soggettività umana diventa Progettazione: la nostra apparenza, i vestiti, gli oggetti che ci circondano e che usiamo ogni giorno, gli spazi dove abitiamo e così via.
Viviamo sospesi in strati formati da infiniti reti e sistemi, il noto slogan dal cucchiaio alla città sembra fin troppo modesto in una realtà dove è possibile arrangiare e modificare gli atomi stessi della materia e dove artefatti colossali (come ad esempio le reti di telecomunicazioni) rivestono l’intero pianeta. Nell’epoca dell’Antropocene, dunque, anche la negligenza è frutto di progettazione, così come gli spazi dove risorse e persone vengono sfruttate per creare concentrazioni arbitrarie di benefici e privilegi. Il Design applica in maniera continua e quotidiana costrutti di ineguaglianza sociale, questo è il risultato di metodologie e trattati teorici che iniziano a prendere forma a partire dal pensiero Illuminista e post-illuminista. Nel corso del XVIII secolo il dibattito accademico fra gli architetti d’Europa intorno alle origini e al carattere estetico della disciplina, inizia a inquisire la stessa natura ontologica ed epistemica dell’uomo, toccando campi e argomentazioni di tipo storico, filosofico e naturale; scolari religiosi e laici venivano quindi inviati dai rispettivi regni a esplorare e colonizzare terre lontane, si instaurò così all’interno dell’immaginario collettivo l’idea di appartenere a una cultura superiore; gli studiosi non solo iniziano a catalogare e diversificare la specie umana da animali e piante, ma analizzano e razionalizzano le differenze in aspetto e comportamento riscontrate nelle popolazioni indigene incontrate durante i propri viaggi. Le narrazioni di scienza e storia hanno sistematicamente escluso e contenuto gli Altri al di fuori del contesto europeo, il dibattito sulla razza ha prodotto concetti e rappresentazioni di disparità umane, stabilendo gerarchie mentali e fisiche, la società occidentale si afferma come la civiltà che più delle altre dimostra d’essere «moderna e avanzata».
La differenza razziale stabilisce le condizioni materiali della vita moderna alimentando la disparità nella distribuzione globale delle ricchezze al fine di espandere e radicalizzare il potere occidentale sulle altre nazioni. L’immensa ricchezza raccolta e accumulata grazie al commercio di schiavi, materie prime, beni di consumo, opere d’arte e manufatti non solo riempie le banche, le fortune private, le casse dello stato e della chiesa, ma finanzia il boom economico che permette l’espandersi di infrastrutture ed edifici all’interno delle metropoli, come uffici governativi, cattedrali, fabbriche, residenze. Poiché non più sottoposte al volere di Dio e del sovrano, le nazioni democratiche nascenti come America e Francia, avvertono il bisogno di reinventare i propri modelli architettonici: le logistiche delle moderne politiche di sviluppo e pianificazione, affiancate a un’economia di stampo neo-liberale, hanno permesso la continua de-umanizzazione e marginalizzazione in ghetti, favelas, campi per rifugiati e prigioni di intere comunità.
Il moderno complesso industriale incorpora il sistema giuridico e penitenziario generando un mercato dal valore di miliardi di dollari, uno spazio creato per la detenzione della proprietà privata, gestita attraverso metodi di stampo corporativo/manageriale. Lo stesso discorso va applicato ai cosiddetti campi profughi, strutture umanitarie in cui però si assiste a una mistificazione del significato comune di umanità. A questo stato di effettiva emergenza viene conferito un certo senso di normalizzazione dove semplicemente rifugiati senza stato occupano a tempo indefinito uno spazio predefinito in cui sia il singolo che la comunità dipendono interamente dall’assistenza umanitaria per la propria sopravvivenza, in questo modo si fabbrica un umano il cui unico scopo è quello di essere assistito. L’inventiva dell’architetto va dunque a sostituire quella del profugo, impedendogli di costruire i propri spazi e di gestire liberamente le proprie risorse.
La prima sofferenza inflitta a chi si ritrova senza alcun diritto è la perdita della propria abitazione, questa calamità non è senza precedenti, nel corso della storia migrazioni forzate di popolazioni e individui sono state all’ordine del giorno, la differenza oggi sta nell’impossibilità effettiva di trovare una nuova casa. Il problema non riguarda lo spazio, ma l’organizzazione politica e istituzionale, la tradizione dell’oppresso, secondo il pensiero di Hanna Arendt, ci insegna che lo stato di emergenza in cui abitiamo non è l’eccezione, ma la regola, l’unica soluzione è ottenere una concezione di storia e architettura che prenda in considerazione questo punto di vista, bisogna cercare di disincastrare la figura del progettista e le sue conoscenze dal rapporto parassitario perpetrato nel corso dei secoli fra questa figura professionale e gli spazi più violenti e inumani prestabiliti dal moderno complesso industriale.
Per approfondire
B. Colomina, Domesticity at War, Mit Pr, 2008
B. Colomina, M.Wigley, Are we Human? Notes on a archeology of design, Lars Muller, 2016
B. Colomina, N.Hirsch, A.Vidokle, M.Wigley, N.Axel, Superhumanity: Design of the Self, Eflux Architecture, 2018
B.Colomina, X-ray Architecture, Lars Muller, 2018
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