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Apologia di un macello

La recensione di Angelica De Palo a Le ombre di Morjegrad di Francesca Cavallero

Sergio Bianchi, Haine 1, 1996


In Attraverso lo specchio di Lewis Carrol, Alice nega di poter credere in una cosa impossibile. La Regina Bianca le risponde: «Mi sembra che tu non abbia molta pratica. Alla tua età io mi esercitavo mezz’ora al giorno. Certe volte arrivavo a credere anche a 6 cose impossibili prima di colazione».

Quando apriamo un libro per leggerlo ci mettiamo volenti o nolenti, coscienti o incoscienti, sotto legida della stessa sovrana. Se il libro è di fantascienza, poi, la Regina Bianca inforca euforica il nostro ippocampo e da lì guida l’esplorazione delle pagine con il frustino levato, pronta a spronarci sui lobi temporali se esitiamo davanti a un guado troppo profondo o a uno steccato troppo alto.

Qualche sferzata schioccante me lo sono presa mentre leggevo il romanzo di Cavallero, ma ne è valsa la pena per la scoperta che ho fatto: se esiste un campo di sterminio in grado di fare orrore anche a Mengele questo è la città-Stato protagonista delle sette parti del romanzo Le ombre di Morjegrad di Francesca Cavallero (Mondadori 2019), premio Urania 2018.

Dunque, lasciate ogni speranza, o voi che leggete, che Morjegrad possa ‒ sia pure alla lontana ‒ rievocare Mordor, il regno dei servi di Sauron, l’aborrito antagonista de Il Signore degli anelli. Mordor è una terra tetra i cui abitanti «urlano con la voce della morte», eppure è un luogo assai più leggiadro, al confronto di Morjegrad. Ce lo conferma persino il vocabolario che alla voce «mordorè» soave recita: «aggettivo, bruno-viola con riflessi dorati».

Sono da evitarsi anche ingenui accostamenti etimologici con il morfema «mor» perché un significato più adatto per la città (e per il romanzo) si ritrova nel sanscrito mar, origine di «mor».

Mar da cui marasma ovvero degenerazione, consunzione, sfacelo. Ci avviciniamo, sono parole necessarie ma non sufficienti per rappresentare l’essenza, l’atmosfera, la zona semantica di Morjegrad. Aggiungiamo allora scempio, massacro, rovina, strazio e strage, che tuttavia neppure bastano a rendere l’idea di questa metropoli del futuro, manca ancora l’elemento liquido che la carne umana tritata, gonfia, lacerata, sbavante, putrefatta, a brandelli,

«scavata in buche e tane da oscene colture»

contiene in sé. Quindi si spruzzino a volontà liquami e miasmi a mo’ di piogge acide su tutti i capitoli et voilà: Morjegrad è servita su un vassoio smangiato dal futuribile S.O.K.A.R, bio-metallo che ri-tesse real-timetessuti guastati scorrazzando come una tenia sbronza dentro vene, muscoli, nervi e midolla

(con buona pace del vetusto Adamantio sulle ossa di quel matusalemme di Wolverine).

Tiriamo le somme di una ricetta così elaborata con le parole dell’autrice stessa:

« … a Morjegrad nulla è più abbondante della carne»

e non ci stupiamo se le sue fogne brulicano di

«parti osceni e aborti folli»

perché a un certo punto ci viene spiegato che

«…i loro bambini sono tronchi senza arti, sono bicefali o siamesi, o ritardati o condannati a una morte orribile, straziati dalle metastasi!»

Il bello della fantascienza, e si tratta di un pensiero inevitabile, è che per l’immaginazione limiti non ne esistono, quindi le 6 cose impossibili cui arrivare a credere prima di colazione diventano 666, nel tempo che ci vuole per prepararsi il caffè.

E perché no? Nessun guado o steccato ci devono scoraggiare, dal momento che il confine è la nostra capacità di far provvista di inconcepibilità.

Ciò che risulta meno bello, è che diventa estremamente faticoso, in questo tipo di mondo, non solo costruire una gradazione di effetti (lasciamo stare di emozioni) ma anche distinguere le azioni e i fatti, in una scala etica, estetica, fantastica e internamente coerente o incoerente (che fa lo stesso, alla fine).

Voglio dire che si incontrano per Morjegrad:

«Umani ormai in pezzi, corrotti nel patrimonio genetico e filtrati a nidificare aborti in uteri sani in covate plurigemellari...»

oppure ci si imbatte in qualcuno (no spoiler) che:

«ha la pancia aperta ma non grida perché c’è una cosa strana e nera che gli spunta dallo squarcio, una specie di grossa muffa che ondeggia pigra…»

o ancora si possono contemplare:

«..teche di vetro, simili ad acquari, in cui vegetano arti e tronchi umani infestati di parassiti assurdi, grossi insetti dal carapace/mercurio e dieci o dodici zampe...»

salvo poi dirci l’autrice:

«Ma questo caso è diverso: sangue sparso con rabbia, con ferocia folle, sadica»

di fronte a un «modesto» cadavere riverso in un «normale» canale liquamoso infestato da schifezze sia pure mutate e appena più rivoltanti della media.


Dove ci catapulta Cavallero, insomma? Ci piacerebbe che potesse essere almeno l’Inferno a fare da bussola moral-letteraria in questo decimo girone posizionato in un altrove distopico nel 2300 e rotti e, in effetti, leggendo che il distretto detentivo di Morjegrad

«è un inferno in incognito»

ci figuriamo di trovarci sulla strada giusta sia pure con la valenza ironica di quel «in incognito».Presumiamo.

L’analogia dantesca prosegue con i tre pozzi di questo distretto detentivo, per giunta costruiti ad anelli sovrapposti, ma poi scopriamo che il primo contiene il panopticon dove la prigioniera (colei che per prima ci introduce a Morjegrad) viene stuprata mentalmente, in streaming su tutti gli schermi della metropoli. Gli altri due pozzi mescolano ogni incredibile atrocità cui, in ogni modo, arriveremo a credere tra la colazione e l’ora di pranzo e quindi no, nessuno ci guiderà per le vie insidiose e tentacolari di Morjegrad sul comodo palanchino di aulici riferimenti. Allora va bene: che disorientamento sia.

Ci tuffiamo nei primi tre pezzi-frammenti-brandelli de Le ombre di Morjegrad al traino di un lingua ricca di sinestesie barocche, fantasie lisergiche e correnti immaginative in un ciclone fanta-horror che non ci permette di soffermarci sulle singole micro-diffuse improbabilità interne alle vicende, perché ogni volta un’iperbole, un’antitesi, un(a) climax ci spintona via mentre una dose sindacale, per così dire, di ridondanze ci frastorna di visioni.

Colpe e pene danzano una sghemba quadriglia in un’ordalia pandemonica di un fantastiliardo di sevizie medievali digitalizzate da una tecnologia arrogante.

Che squisita perversione tecnocratica ci vuole per concepire nientemeno che ampolle d’acido per impedire a una delle benintenzionate protagoniste di penetrare nei sotterranei del laboratorio high-tech, dove si svolgono esperimenti che nemmeno il dottor Morte, appunto?

Acido?

(contrafforti difesi da pignatte d’olio bollente ci sfilano nella memoria…)

Really?

(da 666 a 666.000 cose impossibili....in ulteriore aggiornamento...)


La città-Stato di Morjegrad prospera per la sola casta che vive nell’acropoli e che ha bisogno di una popolazione in crescita da far lavorare per l’industria e nei giacimenti, «potenziandola» con innesti bio-medieval-tech, quindi sperimentando su tutta questa gran quantità di carne da macello e creando mostri perché

«un essere umano costerà sempre meno di un robot. Si sostituisce facilmente, si riproduce. Se opportunamente potenziato non ha bisogno di “manutenzione” ed è facile da smaltire».

A questo punto quella forsennata a cavallo del mio ippocampo mi ha rifilato una scudisciata sonora, nondimeno mi è servita per intuire, nel lampo di dolore, che la precisa scelta carnivora è basata su un’analisi costi-benefici targata 666.001 cose impossibili.

E come va avanti un sistema sociale del genere? Lo capiamo leggendo:

«È sorprendente come il traffico di stupefacenti sia redditizio dove la disperazione si fa più fitta»

e questa volta ci crediamo senza aver alcun bisogno di sorprenderci.


Dopo 26 anni, il premio Urania, prezioso riconoscimento per la fantascienza in Italia, torna a una donna. La prima volta, nel 1992 (ed era solo la quarta edizione), fu Nicoletta Vallorani ad aggiudicarselo, con il romanzo Il cuore finto di DR. DR, cioè Penelope De Rossi, detective privata, tossicodipendente, «sintetica» e grassa. Out of standard, senza dubbio.

Sono donne, principalmente, anche le protagoniste che Cavallero mette in scena. Pensano e raccontano mostrandosi tutte sfrante, vittime (esiste un altro modo di rappresentare le donne?) soggette a efferatezze più o meno dicibili, perennemente umiliate, piegate, s

pezzate in parti sempre più piccole, ricomposte in patetici patchwork bio-metallici, materia adatta solo per stupri ripetuti, incastonati nella memoria delle femmine della specie come un fato immutabile, non diversi da insetti nellambra fossile. Ci incuriosisce, per di più, che siano aggettivati (gli stupri) come mentali. Da quando il corpo è separato dalla mente?

Le azioni che le donne compiono nel romanzo hanno la coreografia di una cyber-Lara Croft:

«Prima che quella roba mi raggiunga spicco un salto e mi appendo a un gancio arrugginito nel soffitto del tunnel…»

oppure la meccanicità ipnotizzante di Terminator nel far west:

«Ritmo appena sincopato nell’uccidere impietosa, i bossoli sputati dal carrello tintinnano al suolo mentre abbatto due guardie…»

oppure ancora la ferocia ancestrale di una lotta per la sopravvivenza, grande classico che non passa mai di moda:

«...le sue mandibole stringono come tenaglie, dilaniandomi mentre feroce mi scuote, finché estraggo la spada che ancora le sporge dallo stomaco, cambio impugnatura e con la destra gliel’affondo violenta nella tempia fino alla guardia…»,

infatti, oltre alla carne, anche il metallo non bio, non senziente, non fantascientifico, quello della cara, vecchia tavola periodica abbonda a Morjegrad.

Le donne di Cavallero tentano di sopravvivere nonostante tutto, combattono e non si arrendono persino quando la disperazione è sovrana nella distopia annientante in cui sono immerse. Negli ultimi quattro pezzi-tronconi-scampoli de Le ombre di Morjegrad le vediamo vivere e agire in una quotidianità meno assurda e allucinata, non più nel distretto detentivo ma nella Mid-Town, nei Bowels, alle Mura o vicino all’Obelisco, parti della città-Stato, superbamente descritte con metafore pittoriche e architettoniche, nelle quali l’autrice è maestra.


Tutto bene anzi meglio fino a che non ci rendiamo conto, con sommo orrore, che la fantascienza si annida dentro la fantascienza stessa come una ciste maligna che riproduce perfette copie di sé, senza nessun errore di trascrizione o nessuna mutazione casuale, al riparo anche dai raggi cosmici, in un esoscheletro patriarcale stratificato nei millenni e magari anche all’insaputa dell'autrice stessa.

Negli anni Cinquanta uscì (quello che si crede fosse solo) un film, L’invasione degli ultracorpi. Alieni dentro baccelli copiavano gli esseri umani e si sostituivano a essi. Il piano era di finire il (presunto) film con l’intera umanità destinata a essere replicata ma al regista non fu permessa una conclusione così catastrofica. Il motivo è chiaro: la produzione era già stata infiltrata dai baccelloni. La sostituzione, quindi, avvenne per davvero ed è clamorosamente evidente nei modelli femminili che Cavallero ci propone: replicanti fermi agli anni Cinquanta / Sessanta (ci sarà voluto un po’ per ricalcare ogni terrestre) per psicologia, atteggiamenti, conformismo e autorappresentazione.

Nella relazione tra i sessi, specialmente, cosa che avrei dovuto mettere al primo posto perché generatrice di tutto il resto. Comunque vediamo come si esplica nel 2300 e rotti:

«Chloe non aveva fatto una piega continuando a interpretare il suo ruolo di bambolina, e non aveva smesso nemmeno quando aveva conosciuto il pezzo di merda che l’aveva quasi uccisa con una coltellata. Se n’era perfino innamorata…»

Ovvio che ne consegua. In stringente, austera e castigante logica. Ri-produzione perfetta dei meccanismi di asservimento psico-emozionale (anch’essi immortalati nei fossili d’ambra), impeccabili così come il dress-code:

«Sai che sembri quasi nuda, senza i tuoi tacchi vertiginosi?»

detto da donna a donna con l’immaginario replicante e che poi ha subito innesti di millenial griffato.

Non ci facciamo mancare, a questo proposito, un sipario lesbico tra due top-model (of course) su tacchi di prammatica altissimi («magnificamente instabili») ordito tra una raffinata essenza di gelsomino, il controluce ametista del tramonto, il contatto leggero delle mani di «lei» e il volteggiare sulle note di Chopin (sarà un valzer).

Tanti cliché che sottraggono molta umana sostanza, cioè carne, umori e sesso alla già evanescente meta:

«l’abbraccio perfetto tra due farfalle»

e che, dopo una conversazione sensuale tra le due sul numero minimo di centimetri (12!) che il tacco deve raggiungere, culminano nel casto, ermetico

«mi baciò»

e sfumano nella dissolvenza pudica del

«...e capii che nulla sarebbe stato più come prima.»


Gli anni Cinquanta si manifestano, discreti ed eleganti, anche nel giradischi e nel vinile su cui Chopin è inciso. Sono tutti dettagli che svelano il dominio attuale dei baccelli, così come il glitch nella rete scoperchia Matrix. Ma ci salviamo, per fortuna, dall’apologia di un baccello perché le donne del 2300 finalmente ci sorprendono, forgiando un grimaldello dal metallo sottile e futuribile di un orecchino (progettato da mister Q?) per sbloccare una serratura.

Non ci lasciano dubbi sul fatto che il prossimo Bond sarà una donna.

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