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Anni Novanta nel pallone: quando si scatenò l’ansia di modernizzazione


Attalai Gábor, Negative Star, 1970. Collezione Marinko Sudac

Pippo Russo spiega perché gli anni Novanta sono stati particolarmente rilevanti per l’industria calcistica: rappresentano la fase in cui l’ansia di modernizzazione si è impossessata di uno sport fino ad allora ritenuto piuttosto conservatore. Chi nell’ultimo trentennio si è alternato al governo del movimento calcistico internazionale non ha saputo far altro che spingere ulteriormente in avanti la tendenza: cambiare tutto, farlo a prescindere. È in quel periodo spartiacque che viene sperimentato un nuovo indirizzo regolamentare teso a fare del calcio uno sport produttore di «emozioni» e highlights. Ed è in questo periodo che cambiano i ruoli dei vari protagonisti del mondo del pallone: i calciatori e le «wags», il pubblico, gli allenatori, sempre più profeti positivisti e amministratori di anime.

 

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Modernizzare stanca. C’è una profonda saggezza nelle parole che danno il titolo a un saggio di Franco Cassano, sociologo barese fra i più acuti del pensiero contemporaneo che purtroppo non è più fra noi. Ma questa saggezza non si insinua nel mondo del calcio. Soprattutto non sfiora chi nell’ultimo trentennio si è alternato al governo del movimento calcistico internazionale e non ha saputo far altro che spingere ulteriormente in avanti la tendenza: cambiare tutto, farlo a prescindere. Per tutti costoro modernizzare non stanca. E confidano che oltre a essere loro, quelli risparmiati dallo sfinimento, lo sia anche la gente del calcio, a vasta platea sparsa per ogni angolo del pianeta cui il calcio deve il proprio statuto di fenomeno culturale fra i più universali che esistano. Ma se loro danno per scontato che questo cambiamento permanente e reiterato del calcio sia cosa buona, possiamo essere noi a chiederci: questa modernizzazione a tutti i costi ha stancato?

 

L’epoca della parsimonia

Risposta complicata, se non si vuole cedere alla tentazione del passatismo. Il mondo intorno al calcio evolve e nel trentennio di cui parliamo lo ha fatto in linea col medesimo ritmo accelerato che ha interessato il calcio. Dunque se si affronta la questione in tali termini non vi sarebbe alcunché di strano nel constatare che un fenomeno di queste implicazioni economiche e spettacolari sia andato incontro a profondi cambiamenti. Ma vanno presi in considerazione altri aspetti. E il principale fra questi è qualcosa di cui si è persa ogni traccia proprio a causa del mutamento accelerato: il carattere conservatore del gioco del calcio.

Credereste mai che ci fu un tempo in cui questo gioco veniva dipinto come refrattario al cambiamento? Raccontarlo a un ragazzo o a una ragazza di oggi, che si avvicinano al calcio con la passione acerba provata da chiunque abbia compiuto lo stesso percorso in altre epoche, significa rischiare di non essere creduti. Eppure è così: fino alla fine degli anni Ottanta il calcio è stato molto resistente al cambiamento. Si riteneva che il suo vasto successo fosse di per sé una legittimazione a mantenerne l’immutevolezza. Perché cambiare qualcosa che funziona, e bene? In realtà l’impressione che quello fosse il calcio migliore possibile era radicata in un substrato di pigrizia mentale. E ciò va ammesso anche da chi contesta questo riformismo in servizio permanente effettivo che del calcio si è impossessato a partire dai Novanta. Alcune conseguenze delle antiche versioni del regolamento erano francamente dannose, averle rimosse è stato un bene.

Giusto per fare un esempio, basta menzionare quella facoltà garantita ai portieri dal regolamento vigente fino all’estate del 1982, cioè fino alla conclusione dei Mondiali di Spagna: riprendere più volte fra le mani il pallone da terra. Lo si poteva fare praticamente senza limiti, salvo che un arbitro zelante ravvisasse gli estremi della condotta ostruzionistica e fischiasse un calcio di punizione indiretto in area. Dall’inizio della stagione calcistica 1982-83 questo gesto non è più consentito: una volta che, con l’azione di gioco in corso, il portiere mette palla a terra non può più raccoglierla fra le mani, pena un calcio di punizione indiretto in area di rigore. La leggenda narra che a motivare l’intervento sul regolamento da parte dell’International Board (Ifab, l’organismo che sovrintende alle regole del gioco) sia stato l’abuso fatto di questa pratica da Dino Zoff durante la gara vinta 3-2 dalla nazionale italiana contro il Brasile a Spagna 1982. Tenendo in considerazione la farraginosità dell’organismo e la tempistica richiesta da qualsiasi rimaneggiamento del regolamento risulta difficile immaginare che nel giro di nemmeno un mese (fra luglio 1982 e agosto-settembre 1982, cioè tra la fine dei Mondiali e l’inizio della nuova stagione agonistica) possa essere stato effettuato un intervento sul regolamento. Ma al di là dell’aneddotica rimangono due aspetti: un’innovazione del regolamento che porta beneficio al gioco perché elimina un comportamento eccessivamente ostruzionistico; e un intervento riformatore che rimane nella memoria perché avvenuto in un’epoca della parsimonia, cioè durante una fase storica in cui le modifiche del regolamento sono state rare. E anche bene accolte dagli appassionati dell’epoca.

Tutto ciò aiuta a spiegare che il calcio ha vissuto una lunga fase della propria storia toccando poco di se stesso e intervenendo laddove l’evoluzione del gioco faceva esplodere delle criticità. Ma poi quest’epoca della parsimonia è stata chiusa con l’inizio degli anni Novanta. Uccisa da uno zelo della modernizzazione che si è spinto ben oltre l’idea di migliorare l’esistente per entrare nella logica della mutazione genetica.

 

È tutto un highlights

Giugno 1990 è il momento spartiacque. Lo è in una fase storica che di per sé è di svolta, dunque il calcio segue la traiettoria propria di una società che giusto in quei giorni impariamo a etichettare come globale. La svolta coincide con i Mondiali di Italia 90, che partono nel segno di un indirizzo sull’interpretazione del regolamento che comanda Tolleranza Zero nei confronti del gioco falloso e ostruzionistico.

La svolta viene impressa con una tempistica sconcertante, perché il campionato del mondo (cioè la massima manifestazione calcistica, con cadenza quadriennale) viene di fatto trasformato nel banco di sperimentazione di un nuovo indirizzo regolamentare che avrebbe richiesto d’essere testato durante tornei di minore rilevanza. Ma il fatto che questa scelta di innovazione sia stata compiuta con fretta tanto improvvida è indice di quanta ansia di mutamento pervadesse l’inizio dell’ultimo decennio del secolo. Nel calcio quest’ansia di mutamento era guidata da un imperativo: favorire il calcio offensivo. L’idea ispiratrice, presto diventata Pensiero Unico tuttora dominante, era che il calcio fosse uno sport avaro in termini di emozioni. Laddove per «emozioni» si intende «episodi di gioco», «occasioni emotivamente forti». In una parola: highlights, cioè i frammenti di gara che nelle sintesi da tre minuti presentate al pubblico televisivo radunano i passaggi di gara più importanti. Dunque i gol segnati e sbagliati, le parate difficili dei portieri, i provvedimenti disciplinari che hanno mutato l’equilibrio di gara e, se capita, anche qualche curiosità o nota di colore. Chi vive abitualmente il calcio e vede gli highlights di una partita dopo averla seguita nella sua interezza sa che le sintesi possono dare una rappresentazione ingannevole di ciò che la partita è stata per 90 minuti più (sempre più abbondanti) tempi di recupero. Può succedere infatti di vedersi comunicare l’impressione di una partita emotivamente intensa quando invece, seguita nella sua interezza, quella stessa gara è stata molto più compassata. Si è anche tentati di rivedere la valutazione, o addirittura di dubitare della capacità di giudizio e della facoltà di attenzione personali. In realtà una partita di calcio è fatta anche di lunghe pause. Di tempi morti e fasi di stanca. La svolta impressa con l’avvio degli anni Novanta è stata ispirata dall’ambizione di trasformare la partita di calcio in qualcosa che un po’ più somigliasse alla sua versione highlights. Bisognava dunque favorire il calcio offensivo, mettere gli attacchi nelle condizioni di creare più episodi da gol e di segnarne in numero superiore. Per farlo bisognava mettere in difficoltà le difese, essere sempre più inflessibili verso l’ostruzionismo e punire in modo maggiormente severo il gioco violento. Obiettivo: ottenere un calcio più spettacolare. Dando per scontato che lo spettacolo del calcio dipenda dall’elevato numero di highlihts.

 

La gente vuole il gol

La svolta impressa durante Italia 90 è stata rafforzata da una serie di interventi sul regolamento che da allora è stata ininterrotta. Alcuni passaggi hanno anche cambiato radicalmente il modo di giocare il gioco. Più di tutti, quello introdotto nell’estate 1992 in occasione di un altro appuntamento internazionale del massimo richiamo: il torneo olimpico dei Giochi di Barcellona 1992. Ancora una volta nessun test in tornei significativi, ancora una volta il palcoscenico della grande manifestazione globale utilizzato come banco di sperimentazione. Il mutamento regolamentare tocca di nuovo i portieri, ma in questa circostanza impatta in modo violento su di loro e dà il via allo snaturamento del ruolo e della sua diversità. Viene stabilito che il portiere non può più raccogliere fra le mani un passaggio volontario indirizzato coi piedi da un suo compagno di squadra. L’impatto sul modo di giocare il gioco ha l’effetto di un elettroshock, perché quella che era una fase di rallentamento del gioco si trasforma in una fase altamente drammatizzata: se prima l’attaccante rinunciava a inseguire il pallone passato al portiere perché questi lo avrebbe raccolto tra le mani, adesso si scatena in pressing contro l’uomo di porta confidando nella sua scarsa dimestichezza con l’uso dei piedi. Da lì in poi i portieri si ritrovano obbligati ad agire come se fossero uguali agli altri «calciatori di movimento».

Il mutamento regolamentare dell’estate 1992 ha l’effetto di intensificare le partite, poiché rende bollenti fasi di gioco che prima erano di raffreddamento. Si tratta di una spinta che converge verso la direzione di un calcio in cui vengano segnati più gol. Cioè un calcio sempre più diverso da se stesso perché spinto nella direzione che lo porta a smarrire la sua vera peculiarità: la caratteristica della «scarsità di punteggio». Il calcio è l’unica disciplina sportiva in cui il punteggio di partenza ha buone possibilità di essere anche quello finale. In quante altre discipline sportive c’è una così alta probabilità di concludere sullo 0-0? Risposta: nessuna. Ciò fa anche del calcio lo sport più equo in assoluto, perché consente al più debole di giocare per il pareggio anziché sfidare il concorrente più forte nella ricerca della vittoria.

Non è il caso di proseguire su questo terreno, poiché si sconfinerebbe nella speculazione filosofica e invece tocca mantenersi sul piano concreto degli effetti scatenati dalla «modernizzazione a tutti i costi». L’effetto è che si va esattamente nella direzione auspicata dai sacerdoti del Pensiero Unico: un calcio con più highlights e soprattutto con più gol. I punteggi si dilatano e prendono proporzioni da gare di hockey su ghiaccio. Il numero degli 0-0 si assottiglia e ciò viene salutato con soddisfazione da chi sovrintende a questa Grande Trasformazione. Cui dà voce il colonnello Joseph Blatter al tempo in cui è soltanto segretario generale della Fifa. Pochi mesi dopo la conclusione dei Mondiali Usa 94, Blatter commenta la piega sempre più offensiva del calcio attribuendone il merito a un presunto «spirito americano». E in fondo c’è più di qualche ragione nel chiamare in causa il motivo dell’americanità. Blatter parla dopo la conclusione di un mondiale che secondo lui ha visto esibire un calcio più offensivo rispetto alla norma. Che poi quel mondiale si sia concluso con la prima finale della storia chiusa sullo 0-0 e decisa ai calci di rigore, deve essergli sembrato un dettaglio. Ma il motivo dell’americanità sta soprattutto nel tentativo di incanalare il gioco verso un’abbondanza di punteggio più in linea col gusto del pubblico statunitense. Qualcosa che molto da vicino ricorda una delle vecchie sigle di Mai dire gol cantate da Elio e le Storie Tese, il cui titolo era La gente vuole il gol.

In questo senso il Mondiale giocato in casa del popolo storicamente più refrattario a esserne evangelizzato ha segnato il salto definitivo del calcio nella sua dimensione di fenomeno culturale globale. Un esito così importante poteva pur valere un sacrificio. E pazienza se questo sacrificio somiglia tanto a uno snaturamento.

 

Un lungo cammino di razionalizzazione

Il pubblico apprezza? Altra domanda dalla risposta difficile. Di sicuro il pubblico si adegua. Hanno finito per adeguarsi anche quelli che continuano a storcere il naso davanti agli eccessi di modernizzazione. E quanto a coloro che si sono appassionati al calcio quando questo mutamento era già in corso, si può dire che non hanno conosciuto un modo di giocare e rappresentare il gioco diverso da questo. Alla fine il calcio vince sempre. E ci vince.

Vince soprattutto chi, imponendo questo imperativo di modernizzazione, scandisce anche una razionalizzazione spinta. Lo si vede dal modo in cui il calcio è cambiato sul piano tattico e strategico, adeguandosi ai canoni di discipline sportive più razionalizzate come il basket e la pallavolo. Ciò l’ha trasformato in un ordinamento disciplinare che si approssima alla coroginnica e rende i suoi protagonisti sul campo sempre più sostituibili e intercambiabili. E l’elemento dell’intercambiabilità è stato accentuato dalla crescita delle sostituzionI consentite in gara. Da una a due, poi da due a tre, quindi è arrivata la svolta successiva al Covid: 5 sostituzioni, purché a partita in corso non vengano utilizzati più di tre «slot» (sic!) per squadra, e un’eventuale sesta in caso di prolungamento della gara ai tempi supplementari. L’impatto squilibrante di questa innovazione, che ha dato un ulteriore vantaggio ai club più forti, è stato evidente da subito. E ha reso agli allenatori un surplus di carica demiurgica.

Sempre più prossimi alla dimensione di «amministratori di anime», gli allenatori incarnano alla perfezione lo Spirito Positivista che dagli Anni Novanta si è definitivamente impossessato del calcio. Guidano la scientificazione del pallone ma lo fanno con un piglio profetico che li porta ad affrontare i microfoni del pre- e del post-partita come se dovessero svelare la Verità anziché la formazione da mandare in campo o le sostituzioni effettuate nell’intervallo. Esattamente come i profeti del primo Positivismo essi mettono in scena il mix tra scienza e carisma, tra ragione e pensiero magico, giusto per rimarcare come la ragione stessa sia a sua volta una credenza, e la razionalità scientifica un dogma validato in laboratorio.

C’è da ammettere che le performance retoriche e linguistiche degli allenatori di nuova generazione hanno un fascino tutto loro. Al calcio come gioco aggiungono nulla, ma invece molto danno allo studio delle retoriche del presente. Le conferenze stampa di alcuni tecnici diventano un evento a sé, quasi degne di un prezzo del biglietto. E qui si apre un altro versante del mutamento che con i Novanta è stato introdotto nel calcio. Un mutamento che va sintetizzato in una parola semplice ma piena di complesse sfaccettature, cui si è fatto cenno in un passaggio precedente: spettacolo.

 

Divertirsi da morire

Sul concetto di spettacolo, così come sulla sua applicazione allo sport, bisogna intendersi e sgombrare il campo da alcuni equivoci. In primo luogo, va evitato di dire che lo sport e il calcio possano essere stati rovinati dal processo di spettacolarizzazione: è un non senso, poiché lo sport è spettacolo dacché esiste e perché ha sempre avuto un pubblico disposto a spendere risorse (tempo e denaro) per assistere a una forma così peculiare di rappresentazione drammatica. In secondo luogo c’è da definire sociologicamente il concetto di spettacolo per dargli un minimo di oggettività: esso va indicato come una circostanza organizzata per generare emozioni collettive. Dunque un comparto industriale che vende una merce tanto ricercata quanto immateriale: l’esperienza.

Dunque il calcio, al pari dello sport, è spettacolo per definizione e nei termini appena illustrati. E tenuto conto di questa precisazione ci si deve chiedere piuttosto se nel calcio, come in qualsiasi altra disciplina sportiva, la dimensione spettacolare abbia preso il sopravvento sulla dimensione sportiva. Come se le leggi dello show avessero preso il sopravvento sulla dimensione del campo.

L’avvento della televisione commerciale, e successivamente dei canali a pagamento, ha proiettato lo spettacolo del calcio su una diversa dimensione rappresentativa e retorica. La partita di calcio è diventata un genere molto più parlato e urlato, ma il vero salto di qualità si è avuto con la spettacolarizzazione di tutto ciò che sta intorno al calcio. Il motivo di questo indirizzo editoriale è semplice da capire: i canali a pagamento sono tematici, che hanno necessità di riempire quotidianamente 24 ore di programmazione sullo sport. E poiché la disponibilità di eventi da trasmettere in diretta è limitata, né si può sperare di trattenere il pubblico proponendogli le repliche, allora bisogna offrire altri contenuti, legati al calcio ma proiettati su una dimensione diversa da quella del campo. È così che si apre un vasto spazio per l’infotainment, con tutta la sua forza di ibridazione. I protagonisti del calcio vengono trasformati in personaggi pubblici, chiamati a produrre performance comunicative oltreché agonistiche. È stato così che il calcio ha conosciuto un ulteriore, cruciale mutamento: quello della narcisizzazione, di cui è stato emblema David Beckham. L’ex capitano della nazionale inglese è il simbolo di un mutamento culturale che registra la trasformazione del calciatore in un produttore di immagine e comunicazione. Con riferimento a questo aspetto, la performance assume un valore relativo. Può anche non essere all’altezza dell’immagine pubblica del calciatore, che a sua volta non è scontato sia immagine positiva. Però basta occupare la scena, anche a costo di andare sopra le righe assumendo comportamenti discutibili.

Oltrepassata questa soglia il calcio ha completato la sua mutazione genetica. Perché ciò avvenisse serviva che i protagonisti delle cose da campo si astraessero dalla loro «attività tipica» (ci si perdoni il linguaggio da scienze aziendali, ma in fondo è proprio in questo registro del discorso che bisogna addentrarsi) per diversificare il loro profilo pubblico e aggiungervi dimensioni che attraessero una platea più vasta di quella formata dagli appassionati di calcio e di sport in generale. Personaggi a tutto tondo da mandare a esibirsi sulla scena pubblica. Allenatori che proferiscono il verbo come si trovassero in cima alla montagna, calciatori che assumono un profilo sociale da rockstar cui è consentito anche l’eccesso. E poi presidenti che s’innamorano del ruolo da protagonisti fino a trasformarsi in maschere di una Commedia dell’Arte postmoderna, procuratori che si muovono tra una fungaia di microfoni con un piglio da segretari generali dell’Onu, e persino le mogli dei calciatori che, sulla scia delle Wags inglesi, si prendono un quarto di scena e aggiungono ulteriori motivi alla rappresentazione. Con l’invasione dei social queste ultime sfruttano la possibilità di diventare influencer, nell’epoca in cui non sembra siano rimaste pochissime persone disposte a essere influenced. Le ultime cose cui si è fatto cenno arriveranno molto dopo. Ma le premesse vengono poste nel lungo decennio dei Novanta. Che è anche lo spazio temporale e culturale in cui è maturato un altro mutamento cruciale.

 

Pornografia e redenzione: il VAR

La rivoluzione neo-televisiva che prende il via nei Novanta segna anche il salto netto verso l’ambizione panottica del mezzo televisivo. La produzione dello spettacolo televisivo della partita di calcio si trasforma in una rappresentazione estremamente minuziosa, sottoposta all’occhio di un numero crescente di telecamere. Ciò comporta che la partita in Tv diventi un genere a sé, oltreché versione sempre più distante da quella cui hanno assistito gli spettatori presenti sul luogo dell’evento. Ma l’esperienza visuale del calcio viene rivoluzionata anche in un altro senso: la sempre più accentuata esposizione di ciò che avviene in campo, la presa in rilievo di dettagli anche minimi, rendono un tono pornografico alla partita di calcio. Il voyeurismo di massa diventa un registro per la rappresentazione della partita di calcio e finisce per forzare, poco a poco, l’inviolabilità del perimetro di campo. Che è sempre stato uno spazio sacro, dove tutto ciò che succede appartiene a un ordine separato e inviolabile. Compreso l’errore.

Rispetto a questo statuto dell’inviolabilità, la dimensione di campo viene poco a poco rielaborata come spazio permeabile. E in questo spazio permeabile l’errore compiuto nella somministrazione delle regole di giustizia non può più essere tollerato non già per l’errore in sé, quanto per la sua macroscopizzazione. Qui sta il punto di svolta. Chi nel presente ragiona sul numero di errori, anche clamorosi, compiuti dagli arbitri e pensa si tratti di un peggioramento della classe arbitrale, patisce della grave distorsione cui è stato esposto il suo mindscape. Non si rende conto di quanto sia cambiato il mondo intorno al soggetto che, amministrando il regolamento, gestisce la giustizia da campo. Gli arbitri sbagliano di più e in modo diverso perché il calcio è diventato più fisico e veloce. Ma ciò non sarebbe stato abbastanza per dare l’impressione che all’improvviso essi siano diventato così fallibili. Ciò che cambia è la gigantesca evidenza che viene data all’errore arbitrale dalla pornografia televisiva. Errori che in altre epoche si sarebbero visti attribuire una portata relativa adesso sono ingigantiti, tanto dallo strapotere panottico dell’immagine neo-televisiva quanto dall’insistenza con cui l’episodio viene riproposto. E d’improvviso l’impermeabile dimensione di campo si trasforma in un contesto dell’errore marchiano e sistematico, cioè in un luogo di somma ingiustizia. Quanto basta per legittimare la rimozione della barriera di campo e intervenire nel corpo vivo del gioco. Trionfa ancora una volta la Tv, quella inventata negli anni Novanta nonché capace di sedurre il calcio con la promessa dell’oro. E invece sono arrivati un debito sempre più elevato (è aumentato il denaro in cassa, ma ancor più è aumentata la predisposizione a sperperarlo) e l’ingresso di un nuovo ente controllante. Così il cerchio si chiude.

 

Conclusioni

Ma allora stavamo meglio o stavamo peggio, prima degli anni Novanta? Ci limitiamo a dire: stavamo. La tentazione del lamento è molto da boomer, amanti di un calcio anni Settanta i cui difetti si tende a minimizzare. Inoltre, il tempo insegna che è sempre molto facile lamentarsi del modo in cui le cose cambiano, ma poi si finisce sempre col rimpiangere molte delle cose detestate per il solo fatto che siano state consegnate al passato. Però si può dire con certezza che, rispetto al secolo scorso, il calcio è diventato una cosa altra da sé. Con altrettanta certezza c’è da sostenere che questo mutamento è stato edificato negli anni Novanta, anche se molte delle sue conseguenze le si sarebbe viste in un tempo molto differito. L’imperativo della modernizzazione si è trasformato in ossessione, guidata dal Pensiero Unico del calcio offensivo e da una trasformazione tecnologica comandata dalle televisioni di nuova generazione. Il calcio aveva necessità di compiere il salto verso la dimensione di gioco globale per eccellenza. E per inseguire questa ambizione, infine realizzata, ha sacrificato molta parte di se stesso sottoponendosi a una mutazione genetica. Continua a essere il gioco più bello del mondo, anche se si è trasformato in uno show dove la dimensione agonistica è una fra le tante anziché la principale. E noi continuiamo a seguirlo e ad appassionarci, anche quando ci pare di non riconoscerlo più. Questo è e continuerà a essere.

 

 

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Pippo Russo (Agrigento, 1965) è ricercatore di Sociologia dell’ambiente e del territorio presso il Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Firenze. Giornalista e saggista, ha dedicato diversi studi all’analisi sociologica dello sport. Ha pubblicato quattro romanzi, fra i quali la duologia dedicata a Nedo Ludi.

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