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Anni Novanta nel pallone: alle origini del «tifoso occasionale»


Anni Novanta tifoso occasionale
Immagine: Lygia Pape Espaços Imantados (Magnetized Spaces), 1995

Nell'articolo odierno, Gabriele Battaglia analizza la modernizzazione e la spettacolarizzazione del calcio a partire dalla trasformazione delle gradinate che s'impone in quegli anni. Tale processo è spinto da vari fattori: dalla segmentazione dello stadio, dalla comparsa dei posti numerati nei settori «popolari», dall'introduzione dei tornelli all'ingresso, che comportano un inquadramento del tifo e la trasformazione dello stadio in uno spazio esclusivo, all'istituzione del DASPO; dalla creazione del binomio tra calcio e tv alla comparsa dei voli low-cost che favorisce il «turismo del tifo».

Le curve, in definitiva, perdono sempre più il loro protagonismo e diventano luogo del disciplinamento sociale nel segno della valorizzazione capitalistica.


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A fine febbraio, su Machina è comparso un bell'articolo sul calcio di Pippo Russo che ricostruisce ciò che molte delle vecchie «pellacce da stadio» che hanno cominciato a frequentare le gradinate tra gli anni Settanta e Ottanta hanno visto dipanarsi sotto i propri occhi, qualche volta con compiacimento, qualche altra con rassegnazione o addirittura costernazione.

Gli anni Novanta – scrive Russo in sintesi – sono quelli in cui il calcio accelera la propria modernizzazione in direzione di una spettacolarizzazione soprattutto quantitativa in campo: più emozioni, più «episodi di gioco», più gol, più highlights, più intensità, meno pause. È quello che possiamo definire «calcio neoliberale», cioè un business che deve estrarre valore di continuo – così come il capitale estrattivo tende a invadere ogni nicchia di biodiversità – e che in virtù del proprio legame a doppio filo con le televisioni deve tenere avvinti in una forma di dipendenza che va dal lunedì alla domenica, fornendo quindi emozioni intense su scala industriale; in pratica, trattandosi di football, questo significa più gol.

Le nuove regole introdotte dagli anni Novanta in poi tendono infatti a penalizzare le difese a vantaggio degli attacchi in nome del «pensiero unico» offensivo, con il risultato che vince chi ha più campioni (risorse) da mettere in campo, cioè in definitiva chi ha più soldi. Paradossalmente, rispetto alle pretese di rendere il baraccone più avvincente, il calcio diventa sempre meno imprevedibile e l'elemento di spettacolarizzazione è relegato al gesto dell'individuo-campione. Addio gloriosi zero a zero nel fango, addio vittorie sporche a base di magliette strappate da difensori al limite della legalità, bisogna gonfiare la rete sempre di più e farlo sette giorni su sette.

Il calcio-playstation di oggi ne è una diretta filiazione con tanto di «superleghe» di contorno, cioè l'istituzionalizzazione della fine dell'imprevedibilità, la diseguaglianza come fatto naturale. Personalmente, da ex terzino/centrocampista piuttosto roccioso (tranne quando giocavo con i colleghi inglesi durante gli anni da giornalista in Cina, lì potevo fare il Pirlo della situazione), trovo demenziale che un difensore di oggi, prima ancora di opporsi all'avversario, debba ricordarsi di tenere le braccia ben appiccicate dietro alla schiena come un umarell che guarda i cantieri stradali. Così come trovo ormai stucchevole quell'azione dell'ala o mezzala rigorosamente a piedi invertiti che fa il tiro a girare dal vertice dell'area. Un tempo, quel gesto era l'eccezionalità di Baggio o Del Piero che suscitava emozione e meraviglia; oggi lo tenterebbe perfino Maguire (non lo so, ma è giusto per rendere l'idea). È merce all'ingrosso, stereotipo, standardizzazione. Uno sbadiglio.

  Ma va bene, i gusti sono gusti e siamo passatisti, possiamo anche spegnere la Tv o rinunciare all'abbonamento allo stadio, se non ci piace quel che passa il convento.

Quello che forse è interessante chiedersi a questo punto è se a questa «evoluzione» del calcio non sia corrisposta anche una trasformazione delle gradinate, cioè sulla cultura o subcultura di stadio che dir si voglia. Spoiler: sì.

Innanzitutto prendiamo in esame il periodo in cui Pippo Russo concentra la sua analisi: giugno 1990-giugno 1994 (mondiali in Italia-mondiali negli Usa), cioè il periodo che si conclude con l'affermazione di Sepp Blatter – allora Segretario generale della Fifa – secondo cui la piega sempre più offensiva del calcio sarebbe merito di un presunto «spirito americano».

Bene, è proprio del periodo che precede i mondiali italiani quella ristrutturazione degli stadi (o costruzione ex novo), che nel segno di una enorme colata di cemento introduce tre novità.

  Primo, la segmentazione dello stadio.

Nuove barriere rendono impossibile quello spostamento dei tifosi durante la partita che a volte permetteva di cambiare prospettiva a seconda dei propri gusti (per esempio, mettendosi dietro la porta della squadra avversaria per vedere meglio eventuali gol della propria), altre volte consentiva agli ultras di «entrare in contatto». Alla segmentazione si accompagna una differenziazione dei prezzi. Chi frequenta San Siro, per esempio, sa benissimo che fino al 1990 entrambi gli anelli (parterre compreso) erano percorribili, con tutto ciò che ne consegue, e che all'interno di ogni anello il prezzo era lo stesso: «popolari», «distinti-parterre» (unica eccezione, la tribuna al primo anello).

Non è qui in discussione il fatto che oggi sia meglio o peggio, resta però il fatto che assistiamo a una segmentazione che assomiglia molto alla descrizione che David Harvey fa a proposito della città neoliberale, dove nel nome della «sicurezza» e della «esclusività» si crea uno spazio a compartimenti stagni che non entrano in contatto e che, per il solito fatto di essere «chiusi», assumono valore.

  Secondo, i posti numerati compaiono anche nei settori «popolari».

All'inizio, questo processo fu in generale accolto dalle curve come un vero spauracchio. C'era l'idea diffusa che l'acquisto individuale di un posto numerato avrebbe fatto sì che molti tifosi «normali» finissero in mezzo alla curva, con relativi problemi (per esempio, litigi tra chi vuole stare in piedi e tifare e chi invece vuole vedersi la partita seduto e in santa pace senza un tipo che gli saltella davanti), mentre molti ultras sarebbero finiti chissà dove a combinare chissà cosa. Si trovò una mediazione – almeno per quanto riguarda il Milan, ma credo che sia successo così dappertutto – con la concessione della gestione dei biglietti in curva ai gruppi ultras. Ricordo che durante la prima campagna abbonamenti a San Siro ristrutturato, la vendita delle tessere in Curva Sud fu effettuata direttamente da Fossa e Brigate all'interno di una nota bocciofila. Perché questa mediazione? Ritengo che a livello di club e di istituzioni si decise per una gestione del genere, perché la concentrazione degli ultras in un settore specifico: 1) consente un tifo organizzato che è comunque bello, spinge la squadra ed è parte dello spettacolo in vendita; 2) rende più gestibile l'ordine pubblico, a differenza di tanti gruppetti sparsi per lo stadio; 3) favorisce quel processo di identificazione e cooptazione dei capi ultras che era già in corso, ma che con il «subappalto» di uno specifico settore si accelera. È qui che il capo ultras diventa sempre più «uomo d'affari» che controlla un territorio.

  Va aggiunto che ai processi di segmentazione dello stadio e numerazione dei posti corrisponde, nel tifo, la comparsa di coreografie sempre più gigantesche, carnevalesche e…televisive, come fatto evidente. È una perdita di protagonismo? Sicuramente concorrono a un processo di inquadramento del tifo, ma lasciamo aperta la questione.

  Terzo, i tornelli all'ingresso.

Compaiono più gradualmente, lungo tutti gli anni Novanta e all'inizio del nuovo millennio. Precedentemente, non era raro scavalcare durante certe partite di grido (o addirittura come pratica abituale), oppure «sfondare» in massa, ma c'era anche una versione amichevole di queste pratiche che consisteva nell'appostarsi fuori dai cancelli e poi entrare gratis nel secondo tempo, con la benevolente complicità degli addetti alla sicurezza. Era quasi una legge non scritta. Tanto poi, all'interno di uno stadio senza posti numerati, si poteva andare un po' dove si voleva.

Accompagnato da un generale rincaro dei prezzi, questo fenomeno trasforma lo stadio in uno spazio  esclusivo.

  Infine, il 13 dicembre 1989 viene introdotto in Italia il DASPO (Divieto di Accedere alle manifestazioni SPOrtive), che permette alle autorità di fare piazza pulita di quella zona grigia dove i «buoni» e i «cattivi» erano mescolati. Dal 2002 diventa anche preventivo, il che suscita per altro dubbi di costituzionalità.

Ma anche fuori dagli stadi strettamente intesi, più o meno nel medesimo periodo, abbiamo assistito a processi di disciplinamento. Per esempio è a ridosso del mondiale del 1990 che si moltiplicano i treni speciali per tifosi. Prima, si prendeva quasi sempre il treno di linea, il che significava una maggiore inafferrabilità, imprevedibilità. L'avvento del treno speciale ha reso la trasferta molto più comoda, non neghiamolo; tuttavia ha reso estremamente più facile il controllo dei tifosi. Tant'è che, di riflesso, diversi gruppi e gruppuscoli che cercavano esplicitamente lo scontro, hanno cominciato a viaggiare in incognito con mezzi alternativi: treni «non-speciali», macchine e pulmini. Fenomeno che arriva fino ad oggi. Ma questa è quasi una specializzazione che poco ha a che fare con il protagonismo diffuso delle gradinate e più con la simulazione circoscritta di una guerra tra bande all'interno di un medesimo codice.

  Al di là della costruzione-ristrutturazione di stadi sempre più esclusivi e a un maggiore controllo poliziesco fuori dagli stadi, altri fenomeni hanno accompagnato, se non provocato, la perdita di protagonismo delle gradinate, annacquando soprattutto quella componente fondamentale che è l'identità, l'amore esclusivo e quasi feroce per la tua squadra.

Certo, la causa principale è il binomio televisione-calcio a ciclo continuo. Oggi, è possibile «tifare» più squadre in diversi campionati perché, molto semplicemente, ne puoi fruire con continuità standotene comodamente sul divano. Meno partecipazione diretta e più frammentazione del desiderio.

In parallelo, c'è stata la comparsa dei voli low-cost, cioè il fenomeno dei «turisti del tifo» o «occasionali» come vengono definiti con disprezzo dai residuali tifosi identitari. Per esempio, un tempo il calcio inglese era desiderio erotico dettato dall'assenza, in quanto fruibile a spizzichi e bocconi su Telemontecarlo. E, tendenzialmente, mai ti sarebbe venuto in mente di andare a Liverpool o a Manchester per vedere una partita del campionato inglese, troppo costoso l'aereo, non c'era internet per comprare i biglietti della partita online. Beh, oggi non c'è nulla di strano se si va a vedere Tottenham-Arsenal con Ryanair e c'è anche chi lo fa con una certa abitudine.

Un altro fenomeno parallelo da non sottovalutare è la comparsa del Fantacalcio, non sto scherzando. Di colpo, a metà degli anni Novanta, mi sono trovato circondato da amici ultras che, metti, durante un Milan-Roma, speravano di vincere, sì, ma magari 4-3 con tripletta di Totti, perché «ce l'ho al fantacalcio». Se questo fenomeno ha intaccato la sensibilità di gente già calcisticamente «formata», figuriamoci con i giovani, che sempre più hanno identificato il singolo campione e non più la squadra come oggetto del desiderio.

  Siamo quindi andati a una perdita di protagonismo dei tifosi, relegati a spettatori paganti, al massimo attori di coreografie sempre più carnevalesche.

Per qualcuno è bene così. Per qualcun altro, è la morte.                                                     

In definitiva, credo si sia sempre più andati nella direzione di curve sempre meno «nicchia di biodiversità» ma come ulteriore luogo del disciplinamento sociale nel segno della valorizzazione capitalistica.

Si sono imposti due miti: comfort e sicurezza. Cioè i valori del paludoso ceto medio planetario che così si crede «libero», ma che è semplicemente reso efficiente per farsi sfruttare in tempi e modi sempre più dilatati e sparsi, tra i quali rientra a buon diritto anche la presenza allo stadio. Parallelamente al calciatore che non deve preoccuparsi di fare la spesa, di scegliere la scuola per i figli, di portarsi la borsa negli spostamenti, di ricordarsi dove ha messo il passaporto in vista di un imbarco, perché c'è qualcun altro che lo fa al posto suo, c'è oggi il tifoso-individuo che beneficia di una serie di servizi a pagamento. Purché se ne stia al suo posto.


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Gabriele Battaglia, giornalista freelance, per 11 anni corrispondente dalla Cina per diverse testate italiane e straniere, un passato all’intersezione tra Brigate Rossonere e impegno nell’area antagonista.

 

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