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Vedere voci: se nel calcio televisivo la parola espelle l'immagine

Pippo Russo

Vedere voci Pippo Russo
Nikita Kadan, Fixing, 2010

Continuano le pubblicazioni di «agon», la sezione diretta da Pippo Russo che analizza le implicazioni politiche, sociali ed economiche dello sport. In questo articolo l'autore s'interroga sul nuovo ordine del discorso calcistico imposto dai broadcaster che trasmettono le partite dei maggiori campionati europei. Le retoriche spropositate e gli ego sempre più gonfi dei telecronisti - come non citare l'esempio Adani? - trasformano la partita in oggetto altro da sé, impendendo un'immedesimazione cognitiva e emotiva dell'utente con quanto sta vedendo. Uno smarrimento dei sensi che è anzitutto perdita di senso.


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«Sono passati soltanto tre minuti ma sembrano già forse trenta per l’intensità che stiamo vedendo». Parole di Riccardo Mancini, telecronista di Dazn, pronunciate alle ore 15 passate da qualche minuto di domenica 3 novembre 2024. Sul campo si stanno sfidando Napoli e Atalanta. Che hanno cominciato la partita a cento all’ora, come se si dovesse giocare soltanto dieci minuti anziché novanta più il solito, congruo recupero. In campo è già un vortice. Ma fosse solo quello non si starebbe qui a parlarne. Perché il vero vortice sta altrove e sommerge ciò che si sta sviluppando sul terreno di gioco. Praticamente lo annulla, lo rende non visibile a causa dell’innescarsi di un peculiare slittamento sensoriale. Perché quel vortice lo stiamo udendo, non vedendo. La vera specie sensibile che impatta sulla percezione del telespettatore è proprio l’audio. Il profluvio di parole che si rovescia nei salotti di casa e inghiotte l’utente del calcio televisivo. Poltergeist è qui e lo pagate pure: trentacinque euro al mese versione basic, altrimenti si sale. E non dimenticate mai che è la pirateria a uccidere il calcio.

Per capire di cosa si parla basta menzionare quello che succede immediatamente dopo il calcio d’inizio. Intendiamo, quel che succede in telecronaca, non in campo. Batte l’Atalanta e gioca subito la palla indietro verso il portiere Carnesecchi, per far ripartire l’azione dal limite della propria area. Mentre il portiere atalantino rispedisce il pallone in avanti, Mancini parla dell’assetto della difesa bergamasca:

«Ovviamente tre dietro, intoccabili, anche per Gasperini, Hien a guidare, con i due braccetti che saranno anche oggi Kolasinac e Djimsiti».

A quel punto interviene il commentatore tecnico, che per l’occasione è l’ex calciatore Dario Marcolin:

«Primo pensiero per il Napoli: palla centrale non viene pressata, come la palla va sull’esterno parte la pressione, uno va a chiudere la palla e gli altri gli appoggi vicini».

Occhio al cronometro: sono passati soltanto 25 secondi di partita. Nei suoi primi 17 secondi di parlato, Mancini ha trovato modo di piazzare l’orrendo neologismo «braccetti», con cui vengono indicati i due difensori che nella linea a tre stanno ai fianchi del centrale. Quindi è toccato agli 8 secondi spesi da Marcolin per illustrare un dettaglio da seminario di Coverciano su temi di tattica applicata. Roba di assoluta pedanteria, ma anche indice di ansia da prestazione. Doveva proprio cominciare da subito a guadagnarsi la pagnotta. Ribadiamo: tutto ciò avviene quando sono trascorsi soltanto 25 secondi dal calcio d’inizio. Magari molti fra i telespettatori non si sono ancora sistemati in poltrona, eppure quei due al microfono sono già agguerriti e cazzuti come se si fosse in una fase calda di partita a metà del secondo tempo. E si va avanti così fino a quel passaggio del terzo minuto in cui Mancini afferma che ne sembrano già passati 30. Ma anche di più, se è per questo. Non solo perché, con pieno rispetto delle proporzioni, i 90 minuti (più recupero) si dilatano in 270 minuti (più recupero al cubo) di tempo enhanced, espanso e dispiegato in termini di multidimensionalità. Ma soprattutto perché quei tre minuti sono la summa di ciò che è stata la versione Dazn-izzata di Napoli-Atalanta, l’astrazione televisiva della partita di calcio che della partita di calcio reale è una «versione liberamente tratta», come gli antichi sceneggiati Rai. Né si sta parlando soltanto di Napoli-Atalanta trasmessa via Dazn, perché il discorso vale per qualsiasi altra partita trasmessa da qualsiasi altra emittente (tv di stato compresa, purtroppo) secondo il canone della telecronaca svolta con la formula della compresenza di un telecronista e di un commentatore tecnico. A mutare, fra una telecronaca e l’altra, è soltanto una questione di misura. O meglio, di dismisura. Che è il solo parametro possibile, quello con cui fa i conti il telespettatore ogni volta che deve affrontare questo esercizio di straniamento. L’effetto della dismisura verbale è trasformare la partita di calcio in una sinestesia distopica, l’incubo della perdita di confine fra un senso e l’altro come prodromo della perdita di controllo sul microcosmo personale. Vediamo voci e ne rimaniamo orbati. E da lì in poi anche assordati, desaporati, inolfatti, detattizzati. Tocca pure inventare neologismi assurdi per questo smarrimento dei sensi ch’è soprattutto perdita di senso.

 

Il nuovo ordine del discorso calcistico

Va fatta una precisazione. Il problema non riguarda Mancini e Marcolin. Anzi, ci sentiamo di dire che, al momento, Riccardo Mancini è il migliore fra i telecronisti di Dazn. E lo si apprezza tutte le volte che fa le telecronache in solitario e può raccontare la partita senza la pressione di dover interagire con un compagno di banco. Ciò che è anche un messaggio sull’opportunità di dismettere la formula della telecronaca a due voci, limitandola a pochi e circoscritti casi e a un numero molto ridotto di commentatori tecnici. Invero, Dazn sta già cominciando a farlo. Alcune partite di ogni turno della Serie A, quelle di minor richiamo, sono commentate dal solo telecronista. L’impressione è che la scelta dell’emittente sia dettata dalla drammatica esigenza di ridurre i costi, anziché da un’opportuna scelta editoriale. Ma va bene così, ciò che conta è l’esito. Quanto a Marcolin, di lui si può dire né più né meno di quanto ci sarebbe da dire a proposito di quasi tutti gli altri commentatori tecnici: che non dovrebbe proprio essere lì a commentare una partita in diretta. Non è una questione di competenza calcistica o di talento comunicativo. È proprio il ruolo del commentatore tecnico che destabilizza la versione televisiva della partita di calcio. Bisogna possedere un talento speciale per svolgerlo in modo adeguato e senza incidere sul clima emotivo della partita. C’è da trasferire concetti chiari e secchi con uso di poche parole. Quel talento lo possiedono in pochissimi. Certamente lo possiede Andrea Stramaccioni, che davvero è di un altro pianeta. Dovrebbero andare tutti quanti a lezione da lui, a partire dal devastante Daniele Adani. Qualcun altro della vecchia guardia, come Aldo Serena, tiene botta e lo fa proprio perché appartiene a una prima generazione pre-logorroica di commentatori. Per il resto, francamente, ce li potrebbero risparmiare. Evitarci un profluvio di parole che ci vede inermi, annichiliti da un ordine del discorso calcistico che non abbiamo voluto, ma che ormai si è imposto come se fosse il canone unico per raccontare il calcio televisivo.

Formalmente ci viene inflitto un esercizio di muscolarità tecnocratica, con somministrazione di un linguaggio la cui marca è sempre più esoterica. L’invenzione dei braccetti è soltanto uno degli ultimi ritrovati. Ma la fabbrica delle invenzioni linguistiche è sempre attiva, produce a ritmi inesausti. Pensavamo che i quinti fossero le quote di stipendio mensile da destinare agli acquisiti rateali e invece, da un giorno all’altro, abbiamo scoperto che sono gli esterni di una linea di centrocampo composta da cinque elementi. E il fattore? Non è mica il gestore della fattoria, ma un calciatore che incide più degli altri. E come la mettiamo con la storia degli «esterni a piedi invertiti»? Una formula che fa pensare a un esperimento di alterazione genetica sfuggito al controllo, o magari a una copertina photoshoppata ad minchiam del magazine settimanale Sette del Corriere della Sera; e che invece è soltanto l’ennesimo sfoggio di perversione da parte della neolingua del calcio tecnocratico, con cui si indica la scelta di mettere calciatori mancini a giocare sulla destra e calciatori forti col destro a giocare sulla fascia sinistra. Chiamarli esterni convergenti, no?

Se però si guarda oltre la superficie, ci si accorge che tutta questa sovrastruttura verbale è l’ennesimo inganno capitalista che va oltre il bisogno indotto. Perché in realtà è più che un esercizio di muscolarità tecnocratica. È lo slittamento indotto del bisogno verso un paniere più ampio degli oggetti da desiderare, un tranello architettato per far credere all’appassionato di calcio che gli serve ben altro rispetto alla partita di calcio. Che tutta quella conoscenza, quella versione scientificata e matricizzata della cosa semplice (la partita di calcio) non soltanto gli serva, ma che gli serva proprio in quel momento. Bisogno indifferibile. Sicché la partita di calcio è persino qualcosa di secondario rispetto alla vasta gemmazione di elementi che si muovono intorno a essa. All’utente di calcio televisivo bisogna vendere molto di più che i 90 minuti di gara. E il motivo è ben chiaro. C’è un gran circo della comunicazione che va tenuto in equilibrio, specie se si guarda ai network televisivi che hanno speso cifre da manicomio per comprare i diritti sulle competizioni sportive e sanno che non basta rivendere le partite agli utenti televisivi. Li si deve pure tenere avvinghiati con la fuffa di contorno, perché quella fuffa deve riempire quotidianamente una programmazione di 24 ore che si spera trovi sponsor disposti a pagarla. E senza gonzi che da casa si nutrono di fuffa, trasformandosi in potenziale parco buoi cui vendere prodotti, come volete mai che gli sponsor finanzino? Dunque, serve trasformare la partita in un contenitore di parole. Convincere i telespettatori che ciò che stanno vedendo non è vero, ma in un senso preciso: che non hanno gli occhi giusti per vedere tutta la complessità della partita di calcio. Che non sono allenati a vederla, dunque devono essere accompagnati per mano in un percorso didattico, come infanti. Tutto quanto architettato in modo che l’utente del calcio televisivo non si ponga alcuni, semplici interrogativi. Per esempio: ma chi ha stabilito che la partita di calcio è una cosa complessa? E soprattutto: ma chi ha scelto per me che dovessi vedere la versione complessa della partita anziché la sua versione semplice?

 

La guerra all’immediatezza

Dunque la partita di calcio viene aggredita, disarticolata e ridefinita nei suoi confini e contenuti. A tutti gli effetti viene fatta oggetto di una brutale vivisezione, nel senso più integrale del termine: viene smembrata e riassemblata mentre è in pieno corso, durante il suo ciclo di vita. La si trasforma in un oggetto altro da sé, con immediata conversione dal registro della cronaca al registro della critica. E poiché la critica pretende il filtro del distacco, dunque della presa di distanza dalla dimensione del presente, ecco che l’elemento da colpire e sabotare è quello dell’immediatezza.

Proprio qui sta il punto: l’immediatezza. La piena immedesimazione cognitiva e emotiva con la partita. Quest’ultima è un processo di azioni e reazioni in pieno sviluppo nell’adesso. Ciò che avviene sul campo, e che viene rappresentato in tv, sollecita immediatezza, un concetto da intendersi in duplice accezione: immediatezza come adesione istantanea e empatica al flusso dinamico e emozionale sprigionato dalle azioni che s’intrecciano sul terreno di gioco; ma anche immediatezza nel senso di cosa «in-mediata», laddove l’uso dello «in-» privativo sottolinea l’esperienza non sottoposta a mediazione di qualcuno o qualcosa. Esattamente il rovescio di ciò che il commento tecnico è: l’inserimento di una forma di mediazione fra la dinamica della partita e il pathos del pubblico televisivo. Dinamica e pathos dovrebbero essere un tutt’uno. E invece interviene la spiegazione tecnica su quello che ci sta dando, la spiegazione razionale del moto spontaneo. Ma ve l’immaginate se, quando vi sbellicate dalle risate vedendo uno spettacolo comico, qualcuno intervenisse a spiegarvi i canoni della comicità, e la costruzione del meccanismo comico, e l’impronta industriale della pianificazione e generazione di emozioni, e persino la costruzione scientifica del climax comico? Lo mandereste a quel paese senza indugiare. «Ma lasciami ridere!» gli urlereste in faccia. E se poi voleste davvero approfondire tutti quegli aspetti, lo fareste in un momento diverso, estraneo alla situazione immersiva del consumo di un’opera cinematografica. Invece durante la partita di calcio il molestatore è autorizzato. E è autorizzato a esserlo in modo seriale, poiché interviene a ripetizione. Ormai abbiamo casi di commentatori tecnici che parlano quasi quanto i telecronisti, come se la prima voce di telecronaca fosse la loro. E ciò finisce per condizionare anche lo stile del telecronista, che si lascia catturare a sua volta dal registro del commentatore tecnico e si avventura in un territorio che non dovrebbe appartenergli. Quando ciò avviene, si assiste al massacro perfetto della gara. La partita di calcio e la sua immediatezza non esistono più. La fattualità del gioco che si sviluppa in campo è annegata nell’acqua gelida del commento tecnocratico, con successivo vilipendio di cadavere che si protrae per un centinaio di minuti. E mentre tutto ciò succede, dall’altra parte dello schermo l’utente del calcio televisivo si ritrova catturato da una cecità indotta e impercepita. Continua a vedere, ma non ciò che dovrebbe vedere. Perché non sta vedendo immagini. Sta vedendo voci.

 

Il criptato impercepito

Le parole si muovono lungo lo schermo. Ovattano il movimento dei calciatori, lo rendono estraneo e distante. Gli fanno perdere centralità. E quando poi arriva il gol, ecco le urla scimmiesche, espresse in coppia al microfono col solo, apparente intento di ribadire che è la voce il solo elemento dominante della versione televisiva della partita di calcio. Per i nostri sensi da telespettatori, l’effetto è destabilizzante. Come se si stesse assistendo a una forma non dichiarata di criptaggio. Tornano in mente i tempi della prima pay tv, l’antecedente di Sky che si chiamava Tele+. Era l’inizio degli anni Novanta e dopo un periodo iniziale di emissioni in chiaro e gratuite è partita la fase delle emissioni a pagamento. Al telespettatore non pagante si presentava la scena delle partite di campionati esteri in versione criptata. Ombre grigio acido che si muovevano sul teleschermo, entro uno spazio che perdeva tutti i riferimenti del campo da gioco e in un silenzio da acquario. Chi voleva vedere la partita nella versione «chiara», doveva pagare. Oggi, sotto la dittatura del vedere voci, il meccanismo si rovescia. Il telespettatore paga il criptaggio. È anche felice di pagarlo, crede ancora di esercitare una sovranità da consumatore perché finanzia lo spettacolo. E invece sta soltanto pagando la sua perdita di senso e sensi. Come nel vecchio film di John Carpenter, gli servirebbe un paio di speciali occhiali per scoprire che «Essi vivono». Ma anche un paio di speciali auricolari non sarebbe male.


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Pippo Russo (Agrigento, 1965) è ricercatore di Sociologia dell’ambiente e del territorio presso il Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Firenze. Giornalista e saggista, ha dedicato diversi studi all’analisi sociologica dello sport. Ha pubblicato quattro romanzi, fra i quali la duologia dedicata a Nedo Ludi. Cura per Machina la sezione «agon».

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