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Infantino come Mangiafuoco

L’uomo che sta scassando il calcio globale


Gianni Infantino visto da Angelica Ferrara
Gianni Infantino visto da Angelica Ferrara

Domani inizia il Mondiale per club promosso dalla Fifa. Un'invenzione di Gianni Infantino, boss assoluto della più importante istituzione calcistica internazionale. Una manifestazione concepita da una persona che odia il calcio, aggiunge Pippo Russo. Una summa di vangelo neoliberista che fa del Mondiale per Club un fine ma anche un mezzo: il fine di realizzare una scommessa megalomane, il mezzo di scassare il vasto edificio istituzionale che il calcio mondiale ha costruito durante un secolo e mezzo di storia.



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Il potere assoluto. Lo vediamo incarnato da un uomo che mai al mondo avrebbe pensato di essere un leader globale. Ma che, quando ci si è ritrovato, un minuto dopo ha cominciato a smarrire il senso della misura. Si chiama Gianni Infantino e fino a febbraio del 2016 era un avvocato italo-svizzero che credeva di essere arrivato al suo massimo in carriera rivestendo il ruolo di segretario generale dell’Uefa. E che invece, a causa di una sfacciatamente fortunosa concatenazione di eventi, si è trovato sulla poltrona presidenziale della Fifa. Capo del calcio mondiale. Un ruolo che dovrebbe essere non solo da leader, ma anche da garante dell’equilibrato sviluppo del movimento calcistico internazionale. Nel corso della sua storia, il ruolo è stato interpretato anche in modo «bossistico», con annessa e feticistica accumulazione di potere personale. E tuttavia, anche in quei casi, non era mai stata persa di vista l’esigenza di salvaguardare la centralità dell’istituzione Fifa. Foss’anche soltanto per usarla come macchina di accumulazione del consenso politico e di killeraggio dei malcapitati avversari. Per funzionare, questa macchina necessitava di essere un sistema organizzato e ampiamente articolato, con una serie di nodi cui bisognava lasciare autonomia sia in materia di governance che di malaffare. Ebbene, con l’avvocato italo-svizzero Gianni Infantino da Briga, Canton Vallese, questa architettura del potere Fifa è stata rapidamente smantellata. Per lasciare spazio a una forma istituzionale che si allontana da qualsivoglia abbozzo di struttura organizzativa, per mutare in un’opera di taglio sartoriale: disegnata, tagliata, imbastita e confezionata intorno alla silhouette di Infantino Vincenzo Giovanni inteso Gianni, asceso al vertice del calcio mondiale al termine di una traiettoria preterintenzionale, ma deciso a mantenerlo con ogni forza e mezzo. E quale soluzione migliore che quella di essere egli stesso, la Fifa? O di fare in modo che la Fifa sia soltanto un alias di Infantino Vincenzo Giovanni inteso Gianni? Potrebbero anche ribattezzarla Fifantino e nessuno s’avvedrebbe della differenza. Numerosi sarebbero gli esempi da menzionare a supporto di questa tesi. Ma non serve spostarsi dall’attualità, perché proprio da lì ne giunge uno fra i più emblematici: il Mondiale per Club.

 

Il tic superleghista

Questa è una manifestazione concepita dalla mente di una persona che odia il calcio. Lo affermiamo tenendo in mente l’idea che il calcio, pur procedendo a tappe forzate verso la dimensione da big business, conservi qualche traccia di rito e tradizione: la ciclicità delle stagioni agonistiche, la matrice territoriale delle competizioni organizzata intorno figura dello stato-nazione, la struttura piramidale e democratica del movimento, la coesistenza fra metropoli e provincia, e infine un minimo di spazio residuo per la ragione agonistica rispetto al debordare della ragione economico-finanziaria. Cose che un tempo sarebbero apparse minime, cui mai avremmo pensato di appellarci come se fossero clausole di salvaguardia. E invece, in quest’epoca drogata di superleghismo, queste cose sono state ricatalogate alla stregua di lacci e lacciuoli. Orpelli di cui bisognerebbe liberarsi per costruire un calcio più a misura di investitori in finanza creativa e/o in politica di potenza. Una summa di vangelo neoliberista che fa del Mondiale per Club un fine ma anche un mezzo: il fine di realizzare una scommessa megalomane, il mezzo di scassare il vasto edificio istituzionale che il calcio mondiale ha costruito durante un secolo e mezzo di storia. E a cavalcare cotanta hybris, come fosse la cresta dell’onda sotto la tavola da surf, proprio il soggetto che più di ogni altro dovrebbe avversare qualsiasi disegno di superlega: il capo del calcio mondiale, il principale custode dell’istituzione.

È lui che promuove freneticamente un torneo di esagerate dimensioni, ingombrante per il calendario stagionale, molto probabilmente condannato a essere un fiasco in termini di ritorni economici e un bagno di sangue quanto a partecipazione del pubblico. È lui che ha scelto di andare allo scontro con le principali confederazioni continentali (l’europea Uefa e la sudamericana Conmebol), piazzando una competizione che non soltanto fa concorrenza alle coppe internazionali continentali, ma anche intasa il calendario e divora spazio di manovra per una gestione più sostenibile delle stagioni agonistiche. Soprattutto, è lui che ha deciso di cambiare la concezione della Fifa in quanto struttura apicale del calcio mondiale. Prima di lui, la confederazione mondiale del calcio è stata un’istituzione-ombrello. Ha continuato a esserlo nonostante l’uso autocratico e il cumularsi di foto segnaletiche nell’album dei dirigenti apicali del calcio internazionale metropolitano e periferico. Rimaneva infatti il rispetto degli spazi territoriali delle confederazioni e delle prerogative da esercitare al loro interno. Rispetto a ciò, Infantino ha cambiato regime. Non soltanto nel senso che ha creato il suo Estado Novo, ma proprio perché ha demolito la macchina istituzionale per poi banchettare sulle sue sparse ferraglie. Lui comanda, lui dispone, ma soprattutto: lui disfa. Che poi riesca anche a fare, cioè a mettere in piedi una pars construens dopo avere portato a termine la pars destruens, è cosa perlomeno opinabile. Per esempio, giusto mantenendosi al tema di superleghe, qualche insegnamento l’uomo avrebbe dovuto apprenderlo dal fiasco del super-campionato africano per club. Un’avventura grottesca, che da sola avrebbe giustificato le dimissioni immediate di qualsiasi suo predecessore a capo della Fifa. Adesso, per carità della patria infantina, di quel passaggio ci s’affanna a cancellar tracce per quanto possibile. Ma purtroppo il web è un oceano troppo vasto e renitente, perché possano essere condotte operazioni da Ministero della Verità.

 

La SuperBalla

Con straordinaria impudicizia il presidente della Fifantino aveva lanciato l’idea della nuova competizione dandole una prima etichetta di Superlega Africana. Lo sproposito era dato non soltanto dal fatto che si pretendesse di congegnare un torneo «super», ma soprattutto dall’inopportuno riferimento all’idea di superlega. Era il 2021 e giusto in quelle settimane si era consumato il golpe da operetta della superlega europea: nata e morta nel giro di nemmeno 72 ore, una vettura di Formula 1 che parte a tutta velocità allo start e va dritta sul muro alla prima curva. L’azzardo aveva provocato un’ondata d’indignazione che tracimava dal mondo del calcio per espandersi sull’opinione pubblica europea e armare la reazione dei governi nazionali, quello inglese in primis. Ma nel pieno di una così generalizzata manifestazione di censura, chi mostrava un’avversione alquanto di maniera era proprio lui, l’avvocato italo-svizzero. Che ha preso posizione giusto perché, da numero 1 del calcio mondiale e di sé medesimo, era dovere d’ufficio. Ma l’ha fatto con piglio tiepido. Come se, in fondo, si trattasse di un problema dell’Uefa. In fondo, era o no una bega che riguardava i club di tre federazioni euro-occidentali? Poco più che una grana regionale, vista da dietro le vetrate dall’ipermondo zurighese. Le inchieste giornalistiche legate all’operazione Football Leaks arriveranno a ventilare l’ipotesi che Infantino non fosse esattamente all’oscuro della mossa ordita dall’Armata Brancaleone superleghista. Voci indimostrate e presto derubricate al rango di indiscrezioni. Ma al di là di ciò, resta il fatto che, in quel momento più che mai, il riferimento a qualsiasi forma di superlega è tabù. Per questo suonava alquanto distonico che il capo del calcio mondiale ne promuovesse una in Africa. Perché è esattamente ciò che era successo. Si era in una fase della sua presidenza in cui Infantino era ancora fedele al metodo di accumulazione del potere Fifa brevettato dall’autocrate brasiliano João Havelange e successivamente perfezionato da un altro segretario generale svizzero, il colonnello Joseph Blatter (che, strana coincidenza, come Infantino è nativo del Canton Vallese, nella ridente cittadina di Visp). Il metodo è quello di costruire il proprio bacino elettorale nella corposa lista dei paesi in via di sviluppo (al tempo del presidente brasiliano si diceva ancora «Terzo Mondo» e nessuno aveva a adontarsene). Su questo versante – a proposito di formule linguistiche oggi a rischio d’essere marchiate di scorrettezza politica – il continente africano era terreno di caccia grossa. In quella prima fase della sua presidenza Fifa, Infantino si dedicava alla prosecuzione di quel metodo di governo. L’Africa era praticamente casa sua, il primo banco di sperimentazione per la strutturazione del suo sistema di potere. La prima mossa era stata, poco più di un anno dopo l’elezione al vertice del calcio mondiale, disarcionare il dinosauro camerunense Issa Hayatou, presidente della confederazione calcistica africana (CAF) dal 1988 nonché, incidentalmente, suo predecessore ad interim a capo della Fifa dopo le dimissioni di Blatter. L’elezione del malgascio Ahmad Ahmad è stata un colpo di mano di Infantino. Peccato che, soltanto quattro anni dopo e giusto nelle settimane successive alla rielezione, mister Ahmad al quadrato sia stato travolto dal solito scandalo di malamministrazione. In quel frangente, Infantino ha incassato il colpo senza scomporsi. E anzi, ha finito per convertire l’incidente in opportunità e per tarare un nuovo criterio di selezione dei dirigenti apicali. Basta coi soggetti che arrivano in cima al potere calcistico da professionisti della trafila istituzionale, uomini d’apparato cui il ruolo apicale dà le vertigini esaltandone le umanissime meschinità. Meglio avere a che fare con soggetti che ricchi lo sono di suo, e che non hanno certo bisogno di sfruttare per quel motivo una presidenza di confederazione continentale. È con questa logica che, a capo della CAF, viene portato il magnate sudafricano Patrice Motsepe. Che, oltre a essere presidente dei Mamelodi Sundowns, è detentore di un primato riconosciuto dalla rivista specializzata Forbes: è il primo miliardario nero nella storia del continente africano. E con la medesima logica Infantino ricentrerà il raggio delle alleanze guardando soprattutto a tycoon, emiri e capi di stato preferibilmente di vocazione autocratica. Questione di affinità elettive.

Tornando a Motsepe, il miliardario sudafricano accetta obtorto collo di correre da presidente della CAF, praticamente soltanto per fare un favore a Infantino. Che nel frattempo gli spiana la strada. Misteriosamente, le candidature dei concorrenti alla presidenza della confederazione vengono ritirate una dopo l’altra. Per inciso, prima ancora di essere eletto Motsepe annuncia che rimarrà in carica non più di un mandato, e che alla conclusione del quadriennio 2021-25 la CAF dovrà cercarsi un altro presidente. Annuncio smentito dai fatti, dato che lo scorso 12 marzo Motsepe è stato rieletto, ancora una volta da candidato unico. Ma ci siamo portati troppo avanti con la tempistica del racconto, dunque torniamo a quel 2021. L’anno in cui, celebrato il passaggio elettorale che porta all’avvicendamento fra Ahmad e Motsepe, Infantino lancia l’idea grandiosa di una superlega africana per club a 24 squadre. Dovrebbe trattarsi di un torneo a girone unico, con partite di andata e ritorno. Vengono promessi premi mirabolanti per i club candidati a partecipare. Ma il problema è che sono i club per primi a non volerne sapere. Va a finire che passano due anni prima che il torneo possa celebrarsi. Nel frattempo, esso cambia denominazione, venendo più modestamente ribattezzato African Football League. Il plotone di squadre partecipanti si riduce a un terzo: da 24 a 8. La competizione si celebra in sordina nel 2023 e viene rappresentata quasi come se fosse una prima edizione sperimentale. Scivola via nell’indifferenza. E secondo quelli che erano i programmi, avrebbe dovuto avere una seconda edizione nella stagione agonistica che ci stiamo mettendo alle spalle, la 2024-25. Va da sé che nessuno ha sentito abbia sentito parlare di una African Football League 2024-25. Sparita dai radar. E guardando a questo dettaglio, torna beffardo l’annuncio denso di pirotecnia che Infantino e Motsepe avevano fatto quando pianificavano la prima edizione: la finale doveva essere una sorta di Superbowl africano. È andata a finire che è stata una Superballa.

 

Nelle mani di Mangiafuoco

Quella figuraccia non gli ha insegnato nulla. Anziché fare qualche passo indietro dalla megalomania, Infantino ha provato a rilanciare. Il Mondiale per Club è il segno di questo rilancio. Fatto con un piglio da azzardo assoluto. Infantino si è giocato questa carta agendo da superdirigente. Osservando la cosa con distacco, qualcuno potrebbe dire che il capo del calcio mondiale stia agendo come se fosse un commissioner, l’amministratore delegato di una lega professionistica nordamericana che viene pagato proprio per operare con massima autonomia e che per questo può essere chiamato a risponderne. Ma i ruoli non sono paragonabili, almeno per due motivi. Il primo è che Infantino è eletto a capo di un’organizzazione la cui struttura rimane, almeno nelle forme, democratica. Il secondo è che il modello ispiratore di Infantino non è quello del commissioner, ma quello dell’antico impresario di spettacolo che fissa nei minimi dettagli la scena e i suoi contenuti, per poi governarla in modo autoritario. Un Mangiafuoco del Ventunesimo secolo. Il disegno del Mondiale Fifa per club è stato tracciato in applicazione di questa logica. Infantino voleva che sulla scena fosse presente Lionel Messi, e allora ha trovato l’escamotage per far partecipare l’Inter Miami. Voleva che partecipasse anche Cristiano Ronaldo, che però non è riuscito a qualificarsi con la sua squadra (l’Al Nassr). L’annuncio in questo senso di Infantino («Cristiano Ronaldo sarà al Mondiale») ha provocato non pochi malumori, a cominciare dallo stesso fuoriclasse portoghese, e ha fatto gettare definitivamente la maschera al presidente Fifa. A cui della competizione agonistica interessa proprio nulla. La sua cifra è il circo, unitamente alla pioggia di denaro (1 miliardo di dollari) distribuita grazie agli sponsor e alla vendita dei diritti televisivi. Proprio la distribuzione del denaro è ormai il suo principale argomento. Non altro. Per questo agisce come se dovesse scritturare i migliori calciatori in circolazione, e senza nemmeno curarsi della disponibilità loro e dei rispettivi club. Un delirio di onnipotenza che molto deve a un profilo da parvenu. Perché questo è Infantino Vincenzo Giovanni inteso Gianni: un parvenu messo a capo di una delle massime organizzazioni del potere culturale globale. Un uomo che non ha affinato attraverso la trafila le destrezze del potere, e che per questo lo esercita in modo rudimentale. Il Mondiale Fifa per Club è il punto più alto del suo delirio di onnipotenza. E anche se dovesse essere un flop, state tranquilli: non ne renderà conto a nessuno. Del resto, la Fifa è lui. Troverà un modo per assolversi.


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Pippo Russo (Agrigento, 1965) è ricercatore di Sociologia dell’ambiente e del territorio presso il Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Firenze. Giornalista e saggista, ha dedicato diversi studi all’analisi sociologica dello sport. Ha pubblicato quattro romanzi, fra i quali la duologia dedicata a Nedo Ludi. Cura per Machina la sezione «agon».

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Kari Maru
Kari Maru
Jul 07

If you ask me what impresses me most in Geometry Dash game it's probably the strange "addiction": both frustrating when losing, but unable to stop playing until conquering that level.

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