Il 15 maggio 2024, nel corso della finale di Coppa Italia giocata contro l'Atalanta, l'allenatore della Juventus Massimiliano Allegri si è infuriato talmente tanto da togliersi giacca e cravatta, in una mimica che ricorda l'incredibile Hulk, battibeccando a voce alta contro arbitri, giornalisti, dirigenti. A seguito di questa scena, l'allenatore è stato esonerato dalla squadra torinese.
Nell'articolo di oggi, con la sua consueta sagacia, Pippo Russo analizza questo gesto tracciando una sorta di fenomenologia del corpo incontinente di Max Allegri.
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Un corpo incontinente. A poco più di una settimana dalla fine della storia fra la Juventus e Massimiliano Allegri, quelle scene di dismisura rimangono negli occhi e sollecitano un supplemento di riflessione. Il ritmo compulsivo della cronaca ha già fatto stratificare l’episodio, sopravanzato da altre e più urgenti vicende. Inoltre, la spigolosa conclusione del rapporto fra il tecnico livornese e la società bianconera è stata assunta come il passaggio finale della vicenda. Da qui in avanti parleranno gli avvocati, se necessario. E invece vale la pena tornare sull’episodio e sulla sua cifra più visibile: il corpo tarantolato che non conosce freni inibitori e si prende la scena nell’imbarazzo generale. Il medesimo imbarazzo che si prova in una situazione dove qualcuno irrompe con modi bradi, facendo a pezzi le regole e l’etichetta. Ma se è questo il registro per leggere il comportamento di Massimiliano Allegri, allora bisogna chiedersi: quali regole ha infranto l’ormai ex allenatore bianconero, la sera della finale di Coppa Italia?
Questioni di estetica
Prendiamola un po’ alla larga. E nel prenderla alla larga, tocca fare alcune premesse. La prima è che qui non si fa una difesa di Massimiliano Allegri, tanto più che abbiamo un’innumerevole quantità di motivi validi per NON difenderlo. Soltanto per citarne qualcuno: che non è compito nostro né ci interessa farlo; che di difensori d’ufficio, in questo triennio della seconda esperienza juventina, ne ha avuti già abbastanza e talmente zelanti da dare l’impressione di non essere nella minima condizione di terzietà; che la seconda esperienza juventina è stata al di sotto delle aspettative della società e dei tifosi, oltreché del lauto stipendio garantito all’allenatore livornese; che il gioco della Juventus, già avaro durante il primo ciclo allegriano dei cinque scudetti consecutivi, si è trasformato in pura micragna, schifata pure dalla gran parte del popolo bianconero; e che, infine, la sequenza di gesti estremi compiuti durante e dopo la finale di Coppa Italia non potevano avere altra conseguenza che il suo allontanamento dalla Juventus.
Tutto ciò premesso, rimane da analizzare la vicenda con uso della chiave di lettura che ci pare appropriata per coglierne gli aspetti degni di rilievo: la chiave di lettura estetica, applicata alla performance corporea di un uomo che si trova sul confine della condizione estrema. E che quel confine lo attraversa, incurante di non poter più tornare indietro. Un atto di ribellione estrema nelle forme, al punto da indurre la società a ipotizzare i termini del licenziamento per giusta causa. Che messa così, la vicenda rimarrebbe confinata entro il perimetro dell’indisciplina, della ribellione alle regole comandate dai codici dei rapporti di lavoro. E invece c’è molto altro, qualcosa di corporeamente esplosivo. Perché, davvero, nella reiterata performance fisica e verbale di Massimiliano Allegri, sia sul prato dello Stadio Olimpico che nella pancia dell’impianto, c’è qualcosa dell’eruzione estrogena. Roba che molto da vicino ricorda le metamorfosi dell’incredibile Hulk.
Per chi ha una certa età è impossibile non conoscere la scena vista almeno una volta nei fumetti o nei telefilm. Quella dello scienziato Bruce Banner, che sarebbe un uomo normale ma invece, in conseguenza di un’esposizione ai raggi gamma, quando entra sotto stress si trasforma in un energumeno verde dalla fisicità esplosiva. E quell’esplosività travolge tutto, a partire dai vestiti che vengono sbrindellati perché non riescono più a contenere una corporeità che eccede di cinque o sei taglie. E a quel punto la perdita di controllo non riguarda soltanto la corporeità, ma anche il comportamento. Perché una volta avvenuta la trasformazione in Hulk, il Bruce Banner messo tra parentesi si converte in un soggetto pronto a spaccare tutto ciò che gli si pari innanzi.
Il Massimiliano Allegri visto all’opera la sera della finale di Coppa Italia è stato una cosa che molto si avvicina all’incredibile Hulk. Un’anomalia in generale, ma anche per ciò che riguarda lo specifico del personaggio. Che è sempre stato un tipo fumantino, senza che però ciò comportasse una propensione alla perdita di controllo. Anzi, ciò che spesso ha fatto infuriare i suoi detrattori è stata quella capacità di assorbire e rimandare assalti e provocazioni, come fosse fatto di gommapiuma. E sempre con l’accompagnamento di quel ghigno da toscano di mare che è quanto di più tagliente possa capitare di affrontare quando si è seriamente incazzati. E invece la sera del 15 maggio 2024, infine, Massimiliano Allegri ha sfondato la silhouette fisica e mentale entro cui eravamo stati abituati a vederlo. E davanti a questi fatti tocca interrogarsi: come è stato possibile tutto ciò?
C’era una volta il cappotto
A dire il vero, non è la prima volta che l’allenatore livornese piazza gesti clamorosi nel bel mezzo della partita. Per chi conosce l’aneddotica, l’origine di tutto risale a quella domenica in cui la Juventus giocava a Modena, ospite del Carpi. Era il 20 dicembre, pomeriggio. C’era il sole ma faceva un freddo cane. E la Juventus aveva rischiato di subire il pareggio nei secondi finali dalla modesta squadra emiliana. In questo contesto Allegri ha piazzato uno di quei gesti che, con inflazionata enfasi, vengono etichettati come iconici: si è sfilato platealmente di dosso il cappotto nero e lo ha scaraventato sul prato, affrontando in giacca e camicia gli ultimi minuti di partita sotto una temperatura gelida.
Le narrazioni compiacenti su quell’episodio attribuiscono al gesto non soltanto la vittoria sul Carpi (un faticoso 3-2, manco si fosse trattato del Real Madrid), ma addirittura la svolta mentale che ha condotto la Juventus alla vittoria del suo quinto scudetto consecutivo, secondo della gestione Allegri. E rispetto a una rappresentazione dei fatti così orientata, che dire? Nulla, se non che da troppe narrazioni dipende la costruzione di un personaggio pubblico, sia in senso positivo che in senso negativo. In quella fase Massimiliano Allegri viveva nel territorio delle narrazioni assolutamente positive, ai limiti dell’apologetico. E chissà che non sia stata proprio questa assuefazione alla assolutamente positiva rappresentazione di sé che ha provocato lo sbrocco, giunto dopo che il segno delle narrazioni è virato decisamente in direzione negativa. Ma questo aspetto verrà illustrato più avanti. Per il momento è bene soffermarsi sulla celebrazione del gesto di svestizione. Certamente teatrale e forse anche propiziatorio perché associato a un passaggio che si è risolto in esito positivo. E magari sarà stato per questo che il tecnico livornese lo ha replicato quando se ne è ripresentata l’occasione.
È successo in questa stagione, durante il match del girone d’andata contro il Milan vinto 1-0 al Meazza. La temperatura era ancora tiepida e dunque niente cappotto; sicché è stata la giacca a volare via, seguita dalla cravatta, con accompagnamento di improperi per i suoi calciatori. Invece in un’altra occasione non era stata una questione di svestizione ma di assalto al cartellone pubblicitario. Era successo durante una partita allo Stadium contro lo Spezia, vinta con un po’ troppa fatica come era successo contro il Carpi.
Dunque, per Allegri gli episodi di sbrocco non erano un inedito prima della serata di Coppa Italia. E tuttavia si era sempre avuta l’impressione di una certa teatralità. Cioè, che non fossero reali perdite di controllo, ma soltanto un altro modo di tenere alta la tensione emotiva dei suoi giocatori. E la stessa corporeità di quegli episodi, pur esuberante, pareva rispondere a una forma di controllo. C’era del metodo in quella follia. Ciò che invece non si è visto all’Olimpico.
Tutto fuori misura
C’è da dire innanzitutto che, rispetto agli episodi precedenti, l’Allegri dell’Olimpico era un altro soggetto, calato dentro tutt’altra situazione. L’Allegri che scaraventava il cappotto sul prato del Braglia di Modena era l’allenatore della squadra più forte della Serie A, con a capo una società che dominava in Italia e provava a scalare le posizioni d’élite in Europa. E l’Allegri che scalciava il cartellone pubblicitario dello Stadium o che si svestiva al Meazza era l’allenatore di una squadra in ricostruzione, con una società in ristrutturazione ma comunque ferma nel sostenere il suo allenatore, che proprio di quella ristrutturazione doveva essere il principale esecutore. A unire tutti questi episodi era dunque una posizione di forza di Allegri, che poteva disporre di ogni regola: sia quelle che disciplinano l’ordine, sia quelle che disciplinano il disordine. E anche la sua espressività corporea manteneva una certa coerenza con un tono da leadership. Nel senso che, quando un leader si incazza, lo fa senza andare fuori binario anche quando deve esprimersi in modo clamoroso. Invero, già l’episodio avvenuto nella gara contro il Milan aveva comunicato qualche segno di cedimento. Togliere la giacca, poi anche la cravatta, rimanere in maniche di camicia bianca, era tutto uno spingersi oltre nella linea della svestizione. E anche quanto a compostezza, si cominciava a perdere ordine.
Erano segnali. Un sovraccarico di stress per l’allenatore che a partire da un certo momento del suo secondo passaggio sulla panchina della Juventus ha sentito pesare un gravame eccessivo di responsabilità. E rispetto a ciò, indipendentemente dal giudizio che si ha di Massimiliano Allegri, del suo calcio, e di come sono andate le cose in questa seconda avventura juventina, qualche parola di verità va detta. Le parole di verità riguardano ciò che realmente ci si poteva aspettare da questa Juventus durante le tre stagioni di questa seconda esperienza allegriana. Lui aveva sempre parlato di piazzamento in Champions League. Obiettivo raggiunto in due delle tre stagioni, e sfumato nella stagione di mezzo soltanto a causa della penalizzazione dovuta al caso delle plusvalenze sospette. Quanto al gioco, non lo aveva mai promesso e dunque non aveva da mantenere. La società ne era al corrente quando lo ha ingaggiato per la seconda volta. Ma poi la stessa società ha registrato una vasta ristrutturazione, con l’allenatore che è rimasto come unico elemento di continuità tra una compagine societaria e l’altra, garante del fatto che la squadra non venisse travolta da un passaggio così delicato della sua storia. Un uomo solo al comando di qualcosa che era troppo al di sopra del suo ruolo e della sua figura. Un corpo esposto a una prova gigantesca. Certo, ce n’è stato abbastanza di che far sviluppare un senso della dismisura, una confidenza in se stesso da uomo dotato di pieni poteri, Che però non erano superpoteri, da intendersi come virtù taumaturgiche, e questo era già un primo punto di logorio personale. Il secondo punto di logorio personale è venuto dall’aumento smisurato delle responsabilità. Un carico troppo grande da sopportare, anche per il soggetto più temprato alle prove estreme.
Tutto ha cominciato a svoltare da lì e ha trovato espressione anche estetica nelle sembianze di un Allegri sempre più invecchiato, e in una dialettica da conferenza stampa che non mostrava più la brillantezza di trovate che aveva caratterizzato il primo ciclo juventino. Era l’epoca del corto muso, del riferimento al Collesalvetti et similia. Invece il Max Allegri dell’ultima fase era quello della dialettica catenacciara, quasi aggressiva, che lo portava a valorizzare persino un pareggio casalingo (e in rimonta) contro la retrocessa Salernitana. E a quel punto è arrivata anche la contronarrazione. Perché d’improvviso una parte della stampa che lo aveva sostenuto, anche a costo dell’irragionevolezza, ha fatto una virata di 180 gradi prendendo a bersagliarlo. Un uomo sempre più solo, e forse senza nemmeno più comando. Un corpo pronto a esplodere.
Spaccare i limiti
Il resto è storia di due settimane fa. La sceneggiata a bordocampo con svestizione di giacca, cravatta e, mancava poco, pure camicia. Poi il faccia a faccia col quarto uomo, con tanto di alito e droplet (come abbiamo imparato a chiamare gli sputazzi dal tempo della pandemia) sul malcapitato. L’espulsione è stata inevitabile, ma la cosa non è finita lì. Perché, quando è stato il momento dei festeggiamenti per la consegna della coppa, Allegri si è ripreso la scena per abbracciare i suoi calciatori ma anche per mandare a quel paese il direttore sportivo Cristiano Giuntoli, identificato come il rappresentante di un nuovo corso societario che gli ha mostrato la faccia ostile. E infine c’è stato l’incrocio col direttore di Tuttosport, Guido Vaciago. A proposito del quale esistono versioni distinte, con tanto di comunicato da parte dell’avvocato di Allegri, dunque meglio rimanere sul vago.
Sia come sia, quella sera è stata semplicemente il punto di saturazione. Una personalità spinta all’estremo, dentro un corpo sovraccaricato da uno stress da repressione. E a un dato momento arriva l’esplosione. Contro la situazione, ma anche contro le regole che comandano una disciplina di missione e di ruolo. Quella sera Massimiliano Allegri ha spaccato tutto, come se fosse l’ultimo dei panchinari a cui l’allenatore non ha concesso nemmeno l’ultimo minuto dell’ultima partita di campionato. E allora tanto vale sbroccare e andare contro tutti e tutto. A partire dai limiti. E rimarrà sempre il dubbio: ma davvero ha perso il controllo, o ancora una volta c’è stato del metodo? Forse non lo sapremo mai.
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Pippo Russo (Agrigento, 1965) è ricercatore di Sociologia dell’ambiente e del territorio presso il Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Firenze. Giornalista e saggista, ha dedicato diversi studi all’analisi sociologica dello sport. Ha pubblicato quattro romanzi, fra i quali la duologia dedicata a Nedo Ludi.
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