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L'arbitro sottoposto alla Cura Ludovico


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Questo articolo è il primo di una serie dedicata alla mutazione genetica del ruolo dell’arbitro nel gioco del calcio. In questo testo Pippo Russo discute come la svolta della mediatizzazione ha ridefinito il ruolo dell'arbitro, che da sovrano assoluto è diventato la figura più fragile del gioco del calcio.


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Il suo cognome era già un preannuncio di circostanze fatidiche: Veríssimo. Un superlativo assoluto, un destino più che una connotazione anagrafica per il signor Fábio. Che è iscritto alla sezione di Leiria e a 42 anni è nel pieno della carriera, in un paese dove agli arbitri d’élite può capitare di assumere dapprima il ruolo da presidente della Lega Professionistica e poi quello da presidente della federazione calcistica: Pedro Proença docet. Dal canto suo, e almeno per il momento, Fábio Veríssimo si occupa di fare al meglio la carriera di arbitro. Classe 1982, nativo di Peniche (cittadina affacciata sull’Atlantico, appartenente all’ex provincia dell’Estremadura), Veríssimo è internazionale dal 2015. Lo scorso martedì 4 novembre era in VAR per la gara di Champions League fra Napoli e Eintracht Francoforte. Ciò che in Italia non era noto è che egli, mentre se ne stava davanti ai monitor per sorvegliare cosa succedesse sul prato del «Diego Armando Maradona», si portava dentro il peso di uno stato d’animo non proprio sereno, a causa di ciò che in Portogallo è successo a partire da domenica 2 novembre. Quando l’arbitro della sezione di Leiria si è trovato al centro di un caso che sposta un grado oltre oltre il processo di mutazione genetica e alienazione cui è soggetta la figura dell’arbitro nel gioco del calcio.

 


La pressione della rivalità nortenha 

Dunque, bisogna tornare a ciò che è successo quella domenica 2 novembre. Lo scenario è l’Estadio do Dragão di Porto, la circostanza è la gara fra Porto e Sporting Braga, valida per la decima giornata di Primera Liga. Una gara sempre molto sentita, nel Portogallo nortenho. Il Porto è una delle tre big del calcio lusitano. Con Benfica e Sporting Portugal forma l’oligopolio che, dal 1934 – anno dell’istituzione del campionato nazionale a girone unico – ha cannibalizzato la competizione lasciando per strada soltanto due edizioni: la 1945-46, vinta dal Belenenses (terzo club di Lisbona); e la 2000-01, vinta dal Boavista (secondo club di Porto). Di più: Benfica, Porto e Sporting sono per i portoghesi (tanto quelli della madrepatria, quanto quelli della vasta diaspora) come tre chiese monoteiste. Perennemente in guerra fra loro, senza che sia ipotizzabile qualsivoglia esperimento di pilarization.

In questo quadro, la rivalità del Porto con i club nortenhi di media dimensione appartiene al rango delle inimicizie minori, al dossier degli affari regionali. Ma non per questo sono meno sentite. Lo è certamente quella col Vitória Guimarães. Che orgogliosamente rappresenta, sui campi da gioco dell’intero Paese, il mito di cidade berço: la «città culla», così denominata perché la leggenda vuole che, da quelle parti, nacque il Portogallo. Fu da lì che edificò il proprio potere Dom Afonso Henriques, (cui è intitolato lo stadio municipale), che col nome di Afonso I fu il primo re lusitano. E ancor più sentita è la rivalità con Braga, l’altro grande centro della regione del Minho nonché Cidade de Arcebispos, la città degli arcivescovi; che per tradizione è il centro del cattolicesimo portoghese istituzionale, tanto quanto Fatima rappresenta invece uno dei centri del cattolicesimo devozionale globale.

La rivalità calcistica fra Braga e Porto – che a sua volta è Cidade Invicta, capace di resistere per 18 mesi, fra il 1832 e il 1834, all’assedio delle forze monarchiche assolutiste fino a respingerle definitivamente – scaturisce non soltanto da questioni di egemonia culturale e economica regionale, ma anche dal fatto che, con l’avvio del nuovo secolo, lo Sporting Braga si è affermato come quarta forza del calcio portoghese e scalpita per sfondare il tetto di cristallo che lo separa dalle prime tre. Ciò che ha portato i Guerreiros do Minho (noti in Portogallo anche come Arsenalistas, a causa del tributo storico verso i Gunners londinesi di cui portano i colori sociali e persino il disegno della maglia da gioco) a essere i soli, credibili candidati all’allargamento dell’élite calcistica nazionale. Soffermarsi sulle dinamiche economico-finanziarie grazie alle quali il club bracarense ha costruito la propria ascesa ci porterebbe troppo fuori dal seminato, poiché sarebbe necessario illustrare lo strettissimo rapporto intessuto col super-agente portoghese Jorge Mendes. Magari un’altra volta.

Date queste condizioni, il Porto è per lo Sporting Braga il parametro di riferimento più prossimo nel percorso di crescita. Questione di prossimità geografica, certamente. Ma anche di non inclusione in quella che, a Lisbona, rimane l’eterna dimensione da Derby da Segunda Circular, la circonvallazione che taglia la capitale e sfiora gli stadi da Luz  e José Alvalade. Ancora fino alla metà degli anni Settanta la supremazia nel calcio portoghese era una questione lisboeta, col Porto che s’inseriva di rado e rimaneva ben staccato nell’albo d’oro della Liga. Poi è giunta come un tornado l’éra di Jorge Nuno Pinto da Costa, il presidente più vincente nella storia del calcio mondiale, in sella per 42 anni e capace di condurre il Porto da 6 a 30 campionati nazionali vinti, più 2 Champions League, più 2 Europa League, più 2 Coppe Intercontinentali, più tutto il resto che si potesse vincere.  È stato così che i Dragões  portuensi si sono imposti come seconda forza del calcio lusitano, cacciando i Leões sportinguisti sul terzo gradino del podio e mettendosi a caccia delle Aguias benfiquiste. Per le due chiese calcistiche della capitale è stato già un colpo duro da elaborare, la scoperta che dovessero spostare fuori da Lisbona una parte – nemmen secondaria – delle energie fin lì impiegate per disputarsi il derby locale e globale, col suo intercettare a un tempo le passioni nei quartieri della capitale e quelle della vasta comunità emigrata per il globo. Figurarsi quanta voglia abbiano di prendere sul serio il Braga, visto dalla capitale come nulla più che un club minhoto destinato a non spingersi mai oltre la conquista della medaglia di legno.  Con qualche riga di degnazione lasciano che sia la gens portuense a curarsene, quando le tocca sbrigare il dossier delle beghe locali.

La somma di questi motivi carica di passioni e tensioni particolari ogni match fra Dragões  e Guerreiros do Minho.  Passioni e tensioni che mantengono un tenore standard. Salvo occasioni in cui quel tenore va oltre misura. Ciò che è successo la sera di domenica 2 novembre. Con l’arbitro Fábio Veríssimo che è finito al centro della bufera.

 


La sequenza in loop

All’origine della polemica è un episodio di gioco avvenuto nel corso del primo tempo. Al minuto numero 31 (nel video, a partire dal minuto 0.34), da un calcio d’angolo per il Porto si scatena una rapida mischia nell’area bracarense che si conclude con un gol messo a segno dall’attaccante danese Victor Froholdt. L’esultanza dei Dragões dura giusto un istante, perché immediatamente Fábio Veríssimo interviene a sanzionare una carica – peraltro evidente – del portista Bednarek su Horniček, portiere del Braga. Bednarek compie un blocco che inchioda Horniček sulla linea di porta, impedendogli di saltare e provocandone la caduta. Non ci sarebbe molto da eccepire; ma ci si dimentica che siamo in Portogallo, nel campionato in cui le tre grandi ritengono di avere diritto a un’interpretazione censitaria del regolamento. Come se le 17 regole del gioco fossero state scritte dal Marchese del Grillo. Per questo si accendono le proteste dei calciatori di casa e del pubblico dell’Estadio do Dragão. Ma pare tutto quanto abbastanza rituale. Tanto più che, all’ultimo minuto del primo tempo, il Porto va comunque in vantaggio con un gol di Rodrigo Mora e va all’intervallo in vantaggio 1-0. In quel momento l’episodio del gol annullato sembra archiviato. E invece, proprio negli spogliatoi, avviene il fatto sconcertante da cui segue la polemica che incendia i media sportivi portoghesi.

Giunto nel suo stanzino l’arbitro scopre che il teleschermo in dotazione è acceso e attraversato da una sequenza che scorre in loop. Si tratta del frammento che riproduce l’episodio del gol annullato a Froholdt, con particolare enfasi sullo scontro fra Bednarek e Horniček. Come Fábio Veríssimo scriverà nel referto, le immagini riproducono a ripetizione il frammento che va dal minuto 31.37 al minuto 32.08. di gara. Né c’è modo di arrestare il flusso di immagini: l’arbitro e i suoi assistenti sono impossibilitati a farlo perché non trovano un telecomando né individuano pulsanti per lo spegnimento manuale. Tocca loro sorbirsi la sequenza del gol annullato per tutta la durata dell’intervallo. Non è nemmeno finita qui. Perché al termine della gara – vinta 2-1 dal Porto, capace di riportarsi avanti dopo il momentaneo pareggio del Braga – la situazione si ripete. Stavolta, nel teleschermo in dotazione allo spogliatoio della squadra arbitrale, vengono fatte scorrere le immagini di un episodio che davvero è una chicca. Viene infatti mandata in onda una sequenza che risale a marzo 2024 e si riferisce alla finale Under 13 del Torneio da Pontinha, che in Portogallo è una tradizionale manifestazione dedicata al calcio giovanile. Sul campo si confrontano i ragazzini di Porto e Benfica. E in occasione di un calcio di punizione in favore delle giovani Aguias, la palla viene lanciata lunga verso l’area, dove il giovane portiere del Porto viene caricato da un attaccante avversario. In conseguenza di quell’intervento, palesemente scorretto, il Benfica va in gol. L’arbitro decide di convalidare la segnatura. Quell’arbitro si chiama Fábio Veríssimo).

Il messaggio è chiaro: al cospetto di episodi analoghi, l’arbitro della sezione di Leiria decide in modo differente. Ma in entrambi i casi penalizza il Porto. Altrettanto chiaro è che quel messaggio viene recapitato personalmente all’arbitro, con un tono sottinteso che è un po’ incolpazione e un po’ avvertimento. Con tanto di dossieraggio multimediale che, per quanto desti ammirazione con la sua capacità di custodire le banche-dati e di andare a ripescare l’episodio minuziosissimo, provoca innanzitutto sconcerto. Tutto ciò viene colto perfettamente da Fábio Veríssimo, che rilancia anziché lasciarsi intimorire. Nel referto sulla gara che consegna alla federazione (FPF), il giudice di gara scrive che l’azione effettuata dal Porto va considerata una forma di pressione. Rispetto alla quale, sottinteso, sollecita provvedimenti disciplinari nei confronti dei Dragões.

 


La Cura Ludovico

Quali possano essere le conseguenze disciplinari per il Porto, è tutto da vedere. Nei giorni a seguire le opinioni si sono rincorse, fino a prevedere esiti drastici come la sconfitta a tavolino. Difficile immaginare che si giunga a quell’estremo.

A margine dell’episodio si è anche scatenata la guerra di parole fra le tre big del calcio portoghese. E anche questo fa parte del gioco: ogni volta che un episodio controverso coinvolge una delle tre grandi, le altre due intervengono attraverso il sito ufficiale e l’esercito di spin doctor e giornalisti embedded per alimentare il fuoco della polemica. Per quanto ci riguarda, e per quello che può valere, riteniamo che Fábio Veríssimo abbia deciso correttamente sull’episodio di Porto-Sporting Braga e che invece abbia sbagliato in modo grossolano sull’episodio del Torneio da Pontinha. Ma non è questo il punto. Il punto sta nella curiosa versione della Cura Ludovico che il Porto ha ritenuto di infliggere all’arbitro della sezione di Leiria. Perché il meccanismo mediale messo in atto dai Dragões è il medesimo di Arancia Meccanica, immaginato dall’autore del romanzo Anthony Burgess e poi rappresentato nella versione cinematografica da Stanley Kubrick. Così come il protagonista della storia, Alex, viene costretto rivedere i suoi atti devianti perché prenda distanza da sé stesso e cominci il percorso di rieducazione, allo stesso modo l’arbitro Fábio Veríssimo viene messo ossessivamente al cospetto delle sue decisioni contestate. Con la differenza che, in questo caso, non c’è soltanto un intento di suscitare colpa e ravvedimento: con un secondo tempo tutto da giocare, poteva scattare una, pur implicita, propensione alla compensazione. Ciò che non è accaduto, allo stesso modo in cui non si è avuto un effetto contrario – ossia, che nell’arbitro scattasse un atteggiamento negativo verso il Porto. Per il momento, tutto si risolve in una denuncia da parte dell’arbitro, che qualche conseguenza dovrà pur averla. E c’è da star certi che, quale che sia questa conseguenza, scatenerà un’ondata polemica di ritorno, causata dal troppo o dal troppo poco della sanzione irrogata. Senza che venga messo in discussione il tema davvero centrale: gli effetti devastanti che la mediatizzazione del gioco stanno proiettando sul profilo dell’arbitro come attore decidente.

 


Deminutio senza fine

Il tema è vasto e complesso. E proprio per questo motivo si è deciso di dedicarvi più di un articolo. Il caso che riguarda Fábio Veríssimo apre la strada e torna utile perché mostra l’ennesima variante sul tema della mediatizzazione cui è stato sottoposto il gioco del calcio. Una mediatizzazione di cui va colto il senso più profondo, che è quello dell’ambizione panottica del sistema multimediale. Tutto ciò che avviene in campo è materia da controllare e domesticare. La moltiplicazione dei punti di vista, l’incremento delle capacità di soffermarsi sul singolo dettaglio, la diffusione di apparati mediali che rendono anche al più periferico fra gli utenti del calcio la possibilità di costruire un tribunale personale, e infine l’invasione di campo del mezzo televisivo con lo scopo di dirimere le circostanze controverse – sono tutti elementi che convergono verso un esito certo: la compressione della figura arbitrale.

C’è stato un tempo in cui l’arbitro è stato sovrano assoluto del gioco del calcio. Lo è stato in un senso che verrà meglio spiegato a partire dal prossimo articolo. La svolta della mediatizzazione del calcio ha ribaltato la prospettiva. L’arbitro è diventato la figura più fragile del gioco del calcio. Lo è per spoliazione di legittimità, ma anche per induzione di una falsa coscienza che lo fa sentire maggiormente rassicurato dall’esistenza del supporto tecnologico. Che dovrebbe fargli da rete di protezione e invece diventa la strumentazione dell’ordalia. E dentro questo mosaico di mezzi ipertecnologici e di condizioni contestuali mutate, egli si scopre portatore di un io minimo, il rovescio del potere assoluto che ne aveva caratterizzato il ruolo in un passato nemmeno remoto. E allora, dentro questa dinamica di progressiva spoliazione dell’autorità, ci sta pure che capiti quanto accaduto a Fábio Veríssimo: che il singolo club, a partita in corso, lo metta al cospetto delle sue (presunte) malefatte, con lo scopo di mettergli pressione e scatenare il tribunale della coscienza. Il giudice giudicato mentre sta conducendo la performance giudicante. Di più: viene posto nella condizione di giudicare sé stesso. L’arbitro scaraventato nel suo labirinto. Chi e quando ha stabilito che dovesse essere confinato lì? Ecco l’interrogativo a cui nessuno mai vi risponderà.


(1. Continua)


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Pippo Russo (Agrigento, 1965) è ricercatore di Sociologia dell’ambiente e del territorio presso il Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Firenze. Giornalista e saggista, ha dedicato diversi studi all’analisi sociologica dello sport. Ha pubblicato quattro romanzi, fra i quali la duologia dedicata a Nedo Ludi. Il suo ultimo libro è L'estate di Totò Schillaci (DeriveApprodi, 2025).

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