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A proposito de «L'Università indigesta»

Riflessione sul saggio di F.M.Pezzulli


Gabriele Picco, Un altro miracolo della lettura, 1999
Gabriele Picco, Un altro miracolo della lettura, 1999

Nell'articolo che pubblichiamo oggi Andrea Fumagalli discute le tesi de L'Università indigesta. Professori e studenti nell'accademia neoliberale, ultima uscita di MachinaLibro, sottolineando come il sistema dell'istruzione e dell'educazione sia sempre funzionale alle esigenze del processo di accumulazione dominante. Riforme che toccano nel profondo anche studenti e professori.

L'articolo è pubblicato in contemporanea su Effimera.


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Nel sistema capitalistico di produzione e non solo, il sistema dell’istruzione e dell’educazione universitaria è sempre funzionale alle caratteristiche del processo di accumulazione in quel momento dominante. La creazione di sapere non è mai completamente autonoma e indipendente da condizionamenti e manipolazioni. Ne L’Ideologia Tedesca, Marx e Engels scrivevano:


Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; cioè la classe che è la potenza materiale dominante della società è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante. La classe che dispone dei mezzi della produzione materiale dispone con ciò, in pari tempo, dei mezzi della produzione intellettuale, cosicché ad essa in complesso sono assoggettate le idee di coloro ai quali mancano i mezzi della produzione intellettuale. le idee dominanti non sono altro che l’espressione ideale dei rapporti materiali dominanti, sono i rapporti materiali dominanti presi come idee: sono dunque l’espressione dei rapporti che appunto fanno di una classe la classe dominante, e dunque sono le idee del suo dominio…[1]


Nell’epoca fordista, la struttura del processo educativo era funzionale alla divisione smithiana del lavoro per mansioni. L’organizzazione della produzione era strutturata in modo piramidale e gerarchico tra fase della progettazione (lavoro intellettuale), fase dell’esecuzione (lavoro materiale) e fase della realizzazione (lavoro specialistico e impiegatizio a seconda del tipo di produzione). Ne conseguiva che il dispositivo educativo era segmentato in tre livelli: liceo + università per la fase della progettazione, scuola dell’obbligo per la fase dell’esecuzione, istituti tecnici e professionali di varia natura per la fase di realizzazione.

Prima della contestazione del ’68, l’università era l’università fordista. La crisi del paradigma fordista, fondato su dispositivi fortemente disciplinari e una produzione rigida a stock, verticalmente integrata (modello della grande impresa manageriale autocentrata), con una netta distinzione tra tempo di lavoro (produttivo) e tempo di istruzione (non immediatamente produttivo ma funzionale alla futura produzione), lascia spazio a un nuovo paradigma, quello «cognitivo». Si tratta di un paradigma fondato sulle tecnologie flessibili del linguaggio e della comunicazione, sulla crescente centralità della produzione intangibile a più alto valore aggiunto e su una nuova organizzazione del lavoro e della produzione non più autocentrata ma internazionalizzata, a flussi, caratterizzata da una sequenza di nodi di subfornitura più o meno specializzata. Conoscenza e spazio (economie dinamiche di apprendimento e di rete) diventano i nuovi fattori che determinato la crescita della produttività.

La flessibilità produttiva, tecnologica e del lavoro viene così gestita direttamente dalle attività di mercato, a scapito del ruolo pubblico della governance statale, creando le premesse per la diffusione dell’approccio neo-liberista che a partire dalla fine degli anni’70 prenderà sempre più piede come ideologia dominante, premessa fondamentale perché la cultura dell’impresa diventi il modello di riferimento.

Questa fase di transizione è accompagnata da numerose riforme dell’università. Negli Stati Uniti, la prima riforma è rappresentata dalla legge Bayh-Dole, che segna la nascita di quello che verrà denominato «capitalismo accademico», ovvero la possibilità per le università e per le istituzioni senza scopo di lucro di sfruttare e commercializzare le invenzioni e le scoperte realizzate nei propri laboratori con i fondi di ricerca pubblica. È il primo passo verso la privatizzazione della ricerca. Tale strada viene rinforzata da una formidabile estensione dei diritti di proprietà intellettuale[2] e a livello globale dall’accordo sugli aspetti dei diritti di proprietà intellettuale attinenti al commercio (Trips) del 1994.

Ha così inizio il processo di mercificazione della conoscenza ai fini di rendere scarso e rivale un bene economico che si presenta invece come abbondante e «libero». Tali cambiamenti incidono anche sul processo di riorganizzazione delle università e ne favoriscono l’aziendalizzazione.

Con riferimento all’Italia, Carlo Vercellone, nella prefazione, scrive:


L’Italia, come mostra bene Pezzulli, si rivelerà un allievo particolarmente zelante nell’applicazione delle ricette del modello americano e nell’adesione ai principi guida del celebre trittico neo-liberale che deve guidare l’ordine della società: privatizzazione, mercificazione e aziendalizzazione. Il cavallo di Troia per imporre queste trasformazioni del sistema superiore di insegnamento e della ricerca hanno poggiato su due principali dispositivi: la riduzione dei finanziamenti pubblici per spingere le università ad aumentare la parte della spesa legata a finanziamenti privati; l’adozione del New Public Management che introduce nella stessa università pubblica i criteri della concorrenza e del risultato quantificato, preludio all’affermazione pura e semplice della logica della merce e dell’efficienza aziendale (p. 18)


La governance fordista dell’università era di tipo politico, ovvero un dispositivo di manipolazione dei saperi funzionale alla gerarchia socio-economica imposta dal modello della grande fabbrica manageriale e dall’apparato militare-industriale. Oggi la governance neo-liberale dell’università e di natura economica e privatistica.

Il libro di Pezzulli descrive in modo magistrale questo passaggio anche attraverso le contraddizioni poste dai movimenti studenteschi e sociali che hanno cercato di contrapporsi a questa deriva. Un ruolo importante viene svolta dal movimento della «Pantera», che 35 anni fa poneva il tema della liberazione dei saperi vivi al centro del nuovo modello di accumulazione del capitalismo cognitivo, e, successivamente, dal movimento dell’«Onda» contro la riforma Gelmini. Gli interventi di segmentazione dei percorsi di laurea, a partire dalla ennesima riforma nel 1999, introducono il «sistema del 3+2» ovvero la creazione della laurea triennale e della laurea specialistica[3], con il tentativo, non proprio riuscito, di agevolare non più solo la divisione smithiana del lavoro ma anche una divisione cognitiva del lavoro, funzionale ai nuovi processi di valorizzazione. Siamo nella fase che dà origine all’Università indigesta, espressione che fornisce il titolo al libro di Pezzulli. Una fase in cui la razionalità economica del capitale cerca di coniugarsi con la razionalità burocratica dello stato.

La seconda parte del libro analizza criticamente la costituzione a strati di un gigantesco e kafkiano dispositivo di misure di valutazione di ogni tappa e atto dei percorsi di ricerca, che trova la prima applicazione con la nascita dell’Anvur (Agenzia Nazionale di Valutazione Università e Ricerca)[4] nel 1996 che diventa operativa nel 2011 dopo i decreti Gelmini tra il 2008-10. La riforma Gelmini sancisce il definitivo processo di precarizzazione dell’attività di ricerca allo scopo di incrementare il controllo sulla stessa ricerca, abolendo la figura del ricercatore a tempo indeterminato e commisurando i finanziamenti del FFO (Fondo di finanziamento ordinario) all’efficienza dell’università, misurata con diversi indicatori quantitativi. Si comincia così a misurare l’incommensurabile, favorendo un processo di condizionamento delle pubblicazioni a favore delle tematiche mainstream.

Pezzulli descrive la frustrazione dei professori universitari, come si evince dall’interessante intervista al prof. Federico Bertoni, autore di un libro di denuncia Universitaly. La cultura in scatola.

Non è un caso che il cap. 4 venga intitolato: «I professori nell’università neoliberale». Pezzulli, giustamente, sostiene che i professori universitari sono stati soggetti ad un cambiamento antropologico, che si dipana lungo due direttrici. La prima ha a che fare con


un esteso processo di burocratizzazione, messo in pratica attraverso circolari e protocolli Anvur, che impegnano sempre più i professori in attività amministrative, di valutazione e autovalutazione, a scapito delle attività di studio, di insegnamento, di ricerca (p.81).


La seconda ha a che fare con la pressante richiesta di esser performativi, soprattutto pubblicando articoli sule riviste specializzate a maggior «impact factor», ovvero con più citazioni. A questo proposito, la citazione di Marx e Engels che abbiamo posto all’inizio descrive assai bene la situazione. Le riviste che circolano in misura maggiore e quindi le più citate (e dunque le più richieste) sono quelle che nella maggior parte dei casi si sono più allineate al pensiero dominante. Le linee guida favoriscono un’esasperata specializzazione, dove la forma articolo su uno specifico tema risulta più importante, ai fini concorsuali, di una monografia più ampia e articolata che si muove su un campo interdisciplinare. Si creano così delle nicchie di sapere del tutto autoreferenziali a scapito di un dibattito più ricco e più critico. In tal modo, viene imposto in modo indiretto e apparentemente neutrale (perché spacciato per meritocratico) un sistema di cooptazione che tende a riprodurre il pensiero mainstream. La disciplina che maggiormente soffre di questa distorsione è la scienza economica, non a caso la «scienza del principe», al servizio del potere costituito.

Ma anche gli studenti non se la passano bene. Nel capitolo a loro dedicato, si evidenzia come i malessere di natura psico-somatica siano in forte crescita. L’università neoliberale si trasforma sempre più in un «esamificio», dove i corsi si moltiplicano e le richieste di performatività si fanno più pressanti, in un contesto sempre più individualizzato e frammentato. Gli studenti, lungi dall’essere i protagonisti e i soggetti attivi dell’università, (come dovrebbe essere) diventano sempre più forza-lavoro precarizzata, anticipando quello che sarà poi il loro destino nel mondo del lavoro. Diventano anche soggetti di valorizzazione economica, in un business dell’istruzione gestito secondo la logica del capitale privato.

Possiamo dire che oggi nelle università pubbliche, definanziate e pauperizzate, non vi è una separazione netta tra sfera economica e sfera politica, dove quest’ultima è comunque subordinata alla prima, ma tende a vigere solo la logica dell’efficienza economica.

Al riguardo, è interessante notare, l’estensione dei un processo di corruzione, che non riguarda solo i soggetti più ricattabili, come gli studenti, ma entra prepotentemente anche nell’ambito dell’attività di ricerca e corrode anche le menti più critiche e con preparazione politica militante più solida. Sempre più infatti, anche per porre fine a una situazione precaria non più dilungabile nel tempo, le migliori menti del pensiero critico si fanno cooptare e corrompere dai dispositivi di controllo di un micropotere individualista e opportunista.

Al riguardo, nonostante siano state scritte 10 anni fa, appaiono di stringente attualità le seguenti riflessioni di Cristina Morini[5]:


I movimenti che hanno lavorato sulla precarietà e che hanno fornito le più acute chiavi di lettura rispetto al paradigma di precarietà (penso al collettivo San Precario ma non solo) sono stati messi in difficoltà proprio dalla logica lavorista, esibitoria e meritocratica che hanno combattuto. Le università, i giornali, le istituzioni sindacali e politiche, una gerontocrazia consolidata, hanno succhiato fino in fondo ciò che è stato prodotto, sputando, infine, fuori l’osso. Senza fare panegirici, pur vedendo limiti, autoreferenzialità e leaderismi, tali circuiti sono stati, a differenza degli altri citati, gli unici in grado di partorire, in questi anni, forme di pensiero e perciò di lotta potenzialmente all’altezza della complessità del presente. Ma hanno visto ridurre le proprie fila tra obbligate emigrazioni all’estero e bisogno di reddito, accademizzazione del discorso, traduzione e ricomprensione di multiformi elaborazioni e pratiche all’interno del sistema della riconoscibilità e dell’attribuzione. Tutto ha contribuito a normalizzare e a disciplinare, forse perfino il timore di taluni di vedere usurpato il proprio ruolo di «intellettuali» nel crescere del ruolo del lavoro della conoscenza in una società completamente intrisa di conoscenza.


Note

[1] Karl Marx, Fredrich Engels, L’ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti, 1983, p. 35-36.

[2] Come ricorda Carlo Vercellone: «In seguito al Copyright Term Extension Act (1998). la protezione del diritto d’autore è portata sino a 70 anni dopo la morte dell’autore e a 75 anni per le opere a nome collettivo di una azienda» (p.16).

[3] Decreto del MURST del 3 novembre 1999, n. 509, del ministro Ortensio Zecchino.

[4] L'ANVUR è stata istituita nel 2006 (ai sensi dell'articolo 2, comma 138, del decreto legge 262 del 3 ottobre 2006, convertito, con modificazioni, dalla legge 286 del 24 novembre 2006).

[5] Cristina Morini, Se freelance è donna, «Doppiozero», 30 marzo 2015.


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Andrea Fumagalli è docente di economia all’Università di Pavia. È stato fondatore della rivista «Altreragioni». Con Sergio Bologna ha curato Il lavoro autonomo di seconda generazione (Feltrinelli, 1997). Altri suoi lavori sono: Bioeconomia e capitalismo cognitivo (Carocci, 2007) e La moneta nell’impero (insieme a Christian Marazzi e Adelino Zanini, ombre corte, 2002). Per DeriveApprodi ha pubblicato: La moneta del comune (2015), Economia politica del comune (2017), Valore, moneta, tecnologia (2021).

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