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È di nuovo lo Stato del debito


Maurizio Cannavacciuolo, Very happy frog, 2007, olio su tela, 200 x 200 cm


Il debito incarna, ormai, il grande consenso trasversale: Black Zero mai più! La sinistra, che ha sempre dovuto difendersi dalle accuse di un deficit di bilancio sconsiderato, trionfa, mentre la destra asseconda, o addirittura presiede, la più grande campagna di sempre di prestiti pubblici in tempo di pace. In effetti non si sente molto parlare della destra. Sono così depressi per la fine della loro amata austerità?

Per molti commentatori, l'enorme nuova ondata di prestiti pubblici sulla scia della pandemia equivale a una vittoria del keynesismo. Ma si noti che il debito keynesiano deve essere rimborsato, oltre alle tasse, quando ha fatto il suo dovere: bisogna trasformare un crollo economico in un boom. Il nuovo debito europeo, però, nazionale e presto sovranazionale, si aggiunge a una preesistente, enorme mole di debito pubblico accumulato in tutto il mondo capitalista a partire dagli anni Ottanta, in modo quasi lineare, accanto a una crescita economica in declino perfino negli anni migliori. Qualunque cosa sia, keynesiana non è.

Nel dibattito pubblico, da un lato si trova la destra, che insiste sul fatto che il nuovo debito sovranazionale previsto a livello europeo debba essere ripagato in dieci o venti anni, piuttosto che essere rifinanziato con un nuovo debito. L'indebitamento europeo deve essere una tantum in caso di emergenza, non diventare un'abitudine, come è invece successo con l'indebitamento nazionale. Dall’altro lato, invece, la sinistra tace, a meno che non suggerisca con enormi giri di parole che il debito non è un problema primario, soprattutto oggi, quando i tassi di interesse sono così bassi. Con i tassi d'interesse vicini allo zero, il debito non è forse gratuito, senza costi fiscali? E, guarda un po’, se i tassi di crescita economica superano i tassi di interesse il debito si riduce da solo, non c'è bisogno di austerità e non è necessario alcun rimborso.

Se solo fosse così facile. Ci sono sempre nuove teorie che insistono sul fatto che i tassi di interesse rimarranno trascurabili praticamente per sempre. Ma se si sbagliano, come sostengono altre teorie? L'enorme ondata di indebitamento pubblico post-covid non dovrebbe far salire i tassi di interesse? Un aumento degli interessi sul debito pubblico di appena uno o due punti percentuali può – se i livelli di indebitamento sono pari al cento o più percento del Pil, come spesso accade – rompere facilmente un bilancio nazionale. E dato il triste andamento della crescita della maggior parte delle economie nazionali dal 2008 (a eccezione della Germania, che sta prosciugando gli altri paesi dell’Unione economica e monetaria), chi può garantire che la crescita sarà superiore e non inferiore al tasso di interesse? Per inciso, il nuovo «denaro Corona» può portare a una crescita solo nella misura in cui venga investito in progetti che migliorano la performance economica aggregata, misurata in termini di Pil, invece che essere consumata. (Si sente spesso dire che il denaro dell'Euan debba essere investito principalmente nella «digitalizzazione», che può costare molti posti di lavoro in assenza di un'efficace politica del mercato del lavoro e di sindacati forti).

Inoltre, il fondo per la «ricostruzione» finanziato con il debito della Ue, originariamente previsto per un ammontare di 750 miliardi di euro da spendere tra il 2021 e il 2027, dovrà essere alimentato a partire dal 2028 con il normale bilancio della Ue, a meno che non si possano concordare nuove tasse a livello europeo da parte di tutti i ventisette Stati membri. Ciò sembra però improbabile, anche perché taglierebbe la base imponibile degli Stati membri. Quindi il debito potrebbe essere pagato o da un debito ancora superiore, trasformandolo in debito esterno e presumibilmente facendolo crescere, o potrebbe dover essere pagato dal regolare bilancio Ue, finanziato dagli Stati membri attraverso contributi più alti o un minore sostegno dell’Unione. O magari qualche cavaliere bianco entrerà e tirerà fuori il suo portafoglio? È noto che Yannis Varoufakis, appena nominato Ministro delle Finanze della Grecia, lo fece sapere in un'intervista a «La Tribune» (26 gennaio 2015): «Qualunque cosa dicano i tedeschi, alla fine pagheranno». Si trattava di un errore di calcolo allora, e probabilmente lo sarà anche tra sette anni.

Che ci crediate o no, tuttavia, questi sono solo problemi minori. Vale la pena chiedersi cosa possano fare 750 miliardi di euro, per quanto a prima vista sembrino molti, per ventisette Stati in sette anni. In origine la Commissione prevedeva di trasferire fino a 172,7 miliardi di euro all'Italia e 140,4 alla Spagna, all'inizio del periodo di bilancio che terminerà nel 2027. A titolo di confronto, la Germania ha già approvato due bilanci nazionali per l’emergenza covid per il solo 2021 per un valore complessivo non inferiore a 374 miliardi di euro. Lasciamo da parte il fatto, spesso frettolosamente liquidato dagli indaffarati uomini e donne che gestiscono il cosiddetto «progetto europeo», che l'elemosina una tantum non può curare le condizioni strutturali che hanno reso necessaria l’elemosina. E ricordiamoci che questo è un mondo capitalista, non un mondo «solidale»: ciò significa che, quando si tratta di crollo, i forti soffrono meno dei deboli e hanno più risorse per ridurre la loro sofferenza, con il risultato che quando l'emergenza è finita, i forti sono ancora più forti e i deboli ancora più deboli (il Pil tedesco diminuirà di appena il 6 percento nel 2020, molto meno che nei paesi del Mediterraneo e in Francia).

Questo, infine, ci porta al nocciolo della questione: il rapporto tra debito pubblico e disuguaglianza economica. Il debito pubblico è capitale privato. Gli Stati devono prendere a prestito su base corrente perché non hanno il potere di tassare le loro popolazioni per finanziare i beni collettivi che queste richiedono. I capitali che gli Stati prendono in prestito si sono accumulati soprattutto nei conti bancari dei ricchi, che sono molto abili nel trasferirli nei paradisi fiscali e nell'estorcere tagli fiscali ai governi. Che oggi ci sia un cosiddetto eccesso di risparmio, accanto ai deficit pubblici permanenti, è il risultato del rapido aumento delle disuguaglianze interne che abbiamo visto negli ultimi decenni. Il capitale privato è in crescita, ma non riesce a trovare opportunità di investimento a causa della mancanza di potere d'acquisto – della domanda aggregata – derivante proprio da quel divario di reddito che ha reso possibile l'accumulazione di capitale in eccesso. Imprese come Apple e Google siedono su enormi riserve di liquidità che custodiscono come assicurazione contro l'incertezza globale, o per l'acquisto delle loro azioni. Un modo per tenere al sicuro il capitale inattivo – una sorta di riciclaggio di denaro, se si vuole – è quello di investirlo in debito pubblico. Quello che lo Stato avrebbe dovuto confiscare ora lo prende in prestito, lo protegge, e in tempi normali paga anche gli interessi. I ricchi, invece di farsi togliere i profitti in eccesso, possono tenerli, far sì che lo Stato li custodisca per loro conto invece di toglierglieli, e quando muoiono possono passare i loro titoli di governo ai loro discendenti, fortificando così la struttura di classe in cui prosperano. Un paradiso capitalista, se mai ce n'è stato uno, per la sinistra.


Pubblicato il 20 luglio 2020 su «El Salto» n. 36. Titolo originale: «It's the debt state all over again», traduzione a cura di Giulia Page.

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