Un intervento di Lanfranco Caminiti sulla sentenza della Corte di cassazione francese a respingimento dell’estradizione di alcuni rifugiati italiani condannati per reati politici risalenti a oltre quarant’anni fa.
Il titolo dell'articolo richiama una canzone di Enzo Jannacci.
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L’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo recita: «Ogni persona ha diritto che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti...».
È sulla base di questo articolo che la Corte di cassazione francese ha definitivamente rigettato la richiesta di estradizione dei rifugiati italiani. Qui non c’entra niente il fatto che queste persone si sono ricostruite una vita e, passati più di quarant'anni, sono probabilmente ormai tutt’altre persone, da quelle cui si imputano reati. Qui non c’entra niente il desiderio di verità e che sia «fatta finalmente giustizia» da parte dei familiari delle vittime. Anzi, direi.
La «dottrina Mitterand», che viene citata sempre a sproposito, prendeva atto di una cosa semplice e pure evidente: che i processi per i reati di «terrorismo» in Italia erano una schifezza assoluta. L’emergenza terrorismo aveva stravolto ogni regola del diritto, ogni regola a un giusto processo: si comminavano secoli di galera sulla base delle vaghe dichiarazioni di un pentito, o solo perché si era considerati associati a questa o quella organizzazione armata e quindi si era responsabili, per concorso morale, di ogni reato, di ogni fatto di sangue che quell'organizzazione aveva compiuto. La responsabilità personale, che è il fondamento di ogni diritto, se n’era andata bellamente a strafottere.
La sentenza della Corte di cassazione francese ha un’importanza enorme perché dice e ribadisce questa cosa di qua: in Italia, negli anni del terrorismo, non c’era diritto. Punto.
E siccome non è previsto che si possano rifare i processi – e dopo quarant’anni è anche un filo complicato, diciamo così, anche solo immaginarlo – quelle sentenze sono state emanate senza rispettare i diritti degli accusati, e quindi non hanno alcun fondamento di legittimità giuridica.
Questo è il punto.
Il punto è che l’Italia è svergognata, a livello dei diritti della Convenzione europea, per avere fatto strame del diritto, decreto dopo decreto, legge dopo legge, tribunale dopo tribunale – in quei maledetti anni.
Altro che «prendere atto», come dice il ministro Nordio, e i salamelecchi diplomatici – altro che «il minimalismo» del dottor Armando Spataro che dice che «interventi legislativi talvolta determinarono il rischio di lesioni dei diritti individuali, anche per la libertà personale degli imputati, ma alla fine le istituzioni avevano tenuto»; già «le istituzioni avevano tenuto», ma a quale costo? Davvero il dottor Spataro è convinto che estorcere con la tortura – e questo è un dato di fatto, acclarato – una confessione lasci le istituzioni «al riparo»? Davvero, raggiungere «la verità» attraverso la menzogna, il falso, la manipolazione, lascia quella «verità» immacolata? E lasciamo perdere le sguaiate retoriche del «la devono pagare». Qui bisogna prendere atto che pubblici ministeri, tribunali, parlamenti e ministri di quel decennio infernale hanno fatto porcherie. La sentenza di Parigi è un atto d’accusa.
Questa cosa io la vorrei dire proprio ai familiari delle vittime, di cui, se mi è permesso, capisco il dolore e anche il desiderio di verità e di giustizia: non ci fu verità e non ci fu giustizia in quegli anni. Quei processi e quelle sentenze valgono zero carbonella.
Non faccio vittimismo: ho lottato, ho combattuto, ho perso. Ho pagato. Ma questo non c’entra niente – siamo stati sconfitti «storicamente». Questo non toglie il fatto che nei tribunali in cui venivamo sepolti si facessero porcherie su porcherie in nome dell’emergenza.
C’è un solo modo per «riconciliare» questo paese con la memoria di quegli anni: si chiama amnistia, che serve ad amnistiare non solo le decine di migliaia di condannati – che tanto ormai sono morti o hanno pagato. Serve ad amnistiare anche quelle politiche di governo – che tutti i partiti accettavano come un sol uomo – che hanno permesso nei tribunali di calpestare ogni elementare diritto alla difesa e a un equo e ragionevole processo.
La sentenza francese a me mette una estrema malinconia. Perché qui non succederà nulla, nulla di una riflessione seria. Solo un grande coraggio politico – e da entrambe le parti, se così si può dire, peraltro credo – potrebbe chiudere quella storia.
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Lanfranco Caminiti, siciliano, giornalista, saggista e narratore, collabora con quotidiani e riviste, e ha pubblicato libri di storia e racconti con diverse case editrici. Tra i fondatori della rivista e della casa editrice DeriveApprodi.
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