Potenza e impotenza contemporanee
- Maurizio Lazzarato
- 1 giorno fa
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Lotte senza rivoluzione

Come mai tutte le mobilitazioni di massa degli ultimi trent’anni non sono riuscite a produrre e stabilizzare nuovi rapporti di forza, né a inventare forme di organizzazione capaci di passare alla controffensiva?
È questa la grande domanda a cui prova a rispondere Maurizio Lazzarato. Secondo l’autore, la causa va ricercata nella scomparsa dall’orizzonte politico dell’idea stessa di rivoluzione. Per questo, sostiene, «siamo incapaci di definire la natura della macchina di potere Capitale-Stato che ci domina e di cogliere le diverse forme di conflitto che occorrerebbe organizzare per distruggerla».
Oggi pubblichiamo la prima parte della sua analisi.
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È molto più facile condurre analisi geopolitiche, descrivere l’equilibrio di potere tra gli Stati e i loro grandi spazi, che comprendere le ragioni dell’impotenza politica dei movimenti che si è manifestata dagli anni Settanta in poi. Non che non ci siano state formidabili mobilitazioni di massa contro il capitalismo e lo Stato. Anche recentemente, le rivolte della Generazione Z nel Sud del mondo o contro il genocidio dei palestinesi sono certamente espressione di potenza.Vincent Bevins, un giornalista statunitense, nel libro If We Burn: The Mass Protest Decade and the Missing Revolution, afferma che tra gennaio 2011 e la fine del 2019 ci sarebbe stato un ciclo di lotte senza precedenti nella storia del capitalismo, superiore persino a quello dei movimenti del ’68. L’opera analizza i movimenti che hanno scosso, e talvolta sconvolto, le strutture politiche e istituzionali di dieci paesi (Tunisia, Egitto, Bahrein, Yemen, Turchia, Brasile, Ucraina, Hong Kong, Corea del Sud e Cile) a partire dal 2008.Anche supponendo che quanto affermato sia vero, una domanda si pone immediatamente: com’è possibile che quest’«ondata rivoluzionaria» sia stata incapace di produrre e stabilizzare il più piccolo rapporto di forza con il nemico, che non abbia inventato alcuna forma di organizzazione capace non dico di passare all’offensiva, ma anche solo di resistere all’iniziativa del nemico di classe? Che non abbia abbozzato la capacità di uscire dalla difensiva in cui siamo chiusi e che ormai ha perso qualsiasi efficacia? Perché esperienze locali, anche le più interessanti (come gli zapatisti), restano chiuse, incapaci di contagio, diffusione, riproduzione, a differenza delle rivoluzioni della prima metà del XX secolo?
Questo ciclo di lotte si è concluso con una nuova offensiva strategica degli Stati Uniti – la quarta dalla fine della guerra (1945 - 1971 - 1991 - 2008) – che comprende la guerra contro i BRICS, la guerra civile interna dichiarata da Trump, il genocidio apertamente rivendicato, finanziato, armato e legittimato dalle democrazie liberali per tentare di uscire dalla crisi in cui il capitalismo occidentale è precipitato non a causa dell’opposizione di classe – che non si è mai elevata a tale livello di scontro – ma per le sue stesse contraddizioni.
Il proletariato contemporaneo, anche solo alla luce dei dati «economici», appare uno dei più deboli di tutta la storia del capitalismo: un enorme trasferimento di reddito dal lavoro al capitale, accompagnato dal blocco dei salari, continua ininterrottamente dagli anni Settanta, sostituito dall’obbligo all’indebitamento; uno smantellamento sistematico del Welfare (ovvero di salario socializzato), il cui obiettivo non è soltanto la privatizzazione di tutti i servizi sociali, ma la loro trasformazione in welfare per le imprese e per i ricchi; il carico fiscale grava esclusivamente sul lavoro, poiché i ricchi e le imprese, come i loro antenati aristocratici, si rifiutano di pagare le tasse, in modo che «l’assistenza» ai rentiers – la vera ragion d’essere dell’intero sistema – sia pagata dal proletariato; la secolare lotta per la riduzione del tempo di lavoro, con cui Marx valutava la forza dei movimenti, si è arrestata e radicalmente invertita, concedendo, in un sol colpo, quattro, cinque, sette (e presto dieci) anni di vita al «vampiro» capitalista, e così via, passando di sconfitta in sconfitta.
Questi nuovi movimenti politici sono lontanissimi dal minacciare l’esistenza della macchina Capitale-Stato, unica condizione che la costringe a trattare. Il capitale e lo Stato fanno letteralmente ciò che vogliono in Occidente, senza dover rendere conto a nessuno, praticando l’ingiustizia più radicale e la violenza più estrema, senza curarsi di diritti o istituzioni internazionali, fino ad avere piena libertà di organizzare un genocidio. Sanno che nessuno ha la forza (la forza! La forza è il problema!) di fermarli.
La rivoluzione perduta
L’ipotesi che si può avanzare per tentare di spiegare l’impotenza manifesta dei movimenti politici dopo il ’68 è la sconfitta della rivoluzione negli anni ’60/’70 e, successivamente, la sua cancellazione teorica e politica dalla memoria delle lotte. Fin dal XIX secolo vi è sempre stata una molteplicità di forme di lotta: sindacali, politiche, per i diritti civili, lotte delle donne, di liberazione nazionale, anticoloniali, per la mutualizzazione dei rischi, ecc. Ma ciò che le teneva insieme, che dava loro senso e moltiplicava la loro forza, era la rivoluzione (in atto o minacciata).
Le rivoluzioni sono state sconfitte, ma si potrebbe anche dire che si sono concluse, così come si concluse la rivoluzione francese, pur lasciando un segno profondissimo nel mondo. Le rivoluzioni del XX secolo hanno inaugurato il processo di declino dell’Occidente, poiché hanno rappresentato l’inizio della fine della colonizzazione, l’inizio della fine del dominio e dello sfruttamento del Sud, che costituisce da cinque secoli il fondamento dello sviluppo del capitalismo. Si può dimostrare, anche per via negativa, i progressi straordinari che hanno determinato per le classi popolari del Nord: una volta che la rivoluzione è stata sconfitta (o conclusa), i rapporti di forza tra le classi sono ricaduti al livello anteriore alla rivoluzione francese.
Che cosa abbiamo perduto con la rimozione della rivoluzione? Siamo incapaci di definire la natura della macchina di potere Capitale-Stato che ci domina e di cogliere le diverse forme di conflitto che occorrerebbe organizzare per distruggerla.
Senza la rivoluzione, non siamo più in grado di distinguere – distinzione ancora fondamentale – tra il conflitto contro la dominazione/sfruttamento e il conflitto proprio del processo rivoluzionario. La lotta rivoluzionaria (insurrezione, doppio potere, guerra popolare prolungata, guerra partigiana – queste le forme assunte nel XX secolo) implica relazioni di potere molto diverse da quelle della dominazione/sfruttamento.Questa coppia può essere esemplificata dal rapporto «padrone/servo» della Fenomenologia dello spirito hegeliana, ma anche dalle relazioni di potere imposte dalla «volontà di potenza» nietzscheana. Le forze sono in una relazione asimmetrica, gerarchica: il padrone comanda e il servo obbedisce, tanto in Hegel quanto in Nietzsche. Asimmetria significa che nella dominazione agiscono forze attive dei vincitori (aggressive, conquistatrici, espansive) che impongono potere, valori, sfruttamento alle forze passive/reattive dei vinti.
La rottura dell’asimmetria
Il rapporto asimmetrico che Marx descrive emerge chiaramente nella sua analisi del capitale: la forza-lavoro (il «lavoro vivo») è anzitutto una componente del capitale, al pari delle macchine e delle materie prime. Essa è subordinata, deve obbedire ed eseguire gli ordini del datore di lavoro, perché il proletariato è stato sconfitto e assoggettato dall’accumulazione primitiva. Le relazioni tra uomo e donna, così come quelle tra bianco e razzializzato, appartengono allo stesso ordine di rapporti. Tutte queste relazioni gerarchiche condividono la medesima struttura: la divisione tra chi comanda e chi obbedisce.
La guerra rivoluzionaria rompe questa asimmetria. Clausewitz definisce la guerra – e noi diremo la rivoluzione – come un conflitto «tra eguali», che si distingue dagli altri perché spinto fino agli estremi, fino allo scontro armato. Egli comprende perfettamente che, nella guerra o nella rivoluzione, non esistono più «padroni» né «schiavi». Nel combattimento portato all’estremo, scrive: «Finché non avrò schiacciato l’avversario, devo temere che sia lui a schiacciare me. Non sono dunque più il mio stesso padrone, poiché egli mi impone la sua legge come io impongo la mia. (...) Ciascuno degli avversari impone la propria legge all’altro».
Dire che le forze sono simmetriche non significa che possiedano la stessa quantità di potere o di forza. Significa piuttosto che non si trovano più in un rapporto di comando e obbedienza, pur nella differenza delle loro potenze. Ogni inizio di rivoluzione ne dà prova.Il rapporto simmetrico implica che il proletariato possiede la forza e l’organizzazione necessarie per essere autonomo e indipendente, cioè per imporre la propria legge. La grande illusione consiste nel credere che ciò che non siamo più in grado di conquistare politicamente ci venga donato dall’ontologia: è l’ingenuità in cui si culla tutto lo spinozismo politico.
Nella guerra rivoluzionaria, entrambi i poli dell’opposizione sono positivi, ma eterogenei, poiché non condividono né gli stessi valori né gli stessi obiettivi. Il rovesciamento dei rapporti di forza non avviene attraverso la dialettica, bensì attraverso la strategia. La strategia rivoluzionaria consiste nel rendere debole ciò che è forte e forte ciò che è debole, nel capovolgere i rapporti di potere ereditati dalla dominazione.
Totalità divisa, totalizzazione impossibile
Possiamo distinguere diversi tipi di conflitto: micropolitici; di razza; di genere; di classe; tutti interni e insieme opposti al rapporto padrone/servo. In questi conflitti, l’autonomia e l’indipendenza conquistate contro la dominazione restano sempre relative, parziali, limitate – come la stessa «libertà» – poiché tali lotte continuano a svolgersi all’interno del capitalismo e del suo Stato.
La macchina Capitale–Stato esercita una forma globale di potere, agendo come un «tutto» o, più precisamente, come una totalità divisa: «totalità», perché organizza l’insieme dei rapporti di potere; «divisa», perché il conflitto è endemico, impossibile da eliminare. Questa macchina tende costantemente alla totalizzazione di tutti i rapporti di potere, senza mai poterla completare. La guerra rappresenta il tentativo paradossale di portare a compimento tale totalizzazione, perché spinge il conflitto agli estremi, e al tempo stesso porta all’estremo anche l’autonomia e l’indipendenza del proletariato, qualora esso riesca ad avviare un processo rivoluzionario.
La lotta può rompere con la dominazione e lo sfruttamento, ma resta comunque intrappolata nella totalità divisa della macchina Stato–Capitale, il cui potere continua a crescere se non viene attaccata nella sua interezza. Anzi, nel dopoguerra essa è riuscita persino a utilizzare la resistenza e il conflitto contro di sé come motore della dinamica interna del «tutto diviso».
La teoria critica e i nuovi movimenti fondano la loro strategia sull’opposizione tra molteplicità e dualismo. Il potere, dicono, sarebbe dualista; all'opposto, la moltiplicazione delle soggettività, la proliferazione delle differenze, la creazione di nuove forme di vita basterebbero, da sole, a farlo crollare – o almeno a bastare a se stesse. Ma il «tutto diviso» articola sempre molteplicità e dualismo. Organizza incessantemente una molteplicità di divisioni (di classe, di razza, di sesso) e fa di queste stesse divisioni la condizione del dualismo fondamentale tra chi comanda e chi obbedisce – tra proprietari e non proprietari.
L’organizzazione del potere è dunque duplice; una molteplicità di dispositivi «padrone/servo» e la grande divisione «amico/nemico», che permette di decidere, dare forma e agire nella cosiddetta «complessità» dei rapporti di potere. Questa divisione globale della macchina Stato–Capitale comanda e struttura tutte le altre.
Le autonomie e le indipendenze conquistate nei conflitti di razza, di genere o di sesso, se non riescono a sfidare il capitalismo nella sua dimensione globale e totalizzante, rischiano di perdere intensità e di trasformarsi in forze funzionali al capitalismo stesso. La macchina Capitale–Stato può tollerare, al proprio interno, movimenti che non ne minacciano la distruzione. Ma, prima o poi, essi vengono riassorbiti nella dominazione.
Dopo la sconfitta delle rivoluzioni degli anni Sessanta e Settanta, i movimenti sociali faticano a confrontarsi con la totalità divisa del potere. Quando ci riescono – come in Egitto (Primavera araba), in Cile (insurrezione del 2019) o in Francia (Gilet Gialli) – vengono rapidamente sconfitti perché manca loro una strategia capace di gestire lo scontro con il tutto diviso del potere. In tutti questi casi si è trattato, come recitava un cartello durante la rivolta egiziana, di una «mezza rivoluzione»: una rivoluzione incompiuta, priva del «che fare» e del «come fare» una volta raggiunto il punto dello scontro diretto.
La sconfitta della rivoluzione ha cancellato, tra i dominati, la coscienza e la conoscenza del dualismo, e i movimenti politici attuali sono incapaci di ricostruirlo come asse strategico. Si è così diffusa una paura profonda del dualismo, mentre ogni autentico processo di liberazione passa proprio attraverso la sua accettazione. Scrive Mario Tronti, descrivendo con precisione la condizione in cui ci troviamo dalla «fine» delle rivoluzioni: «La paura del due. L’uno è l’in-sé rassicurante di tutto ciò che esiste. Il tre è il punto d’appoggio della sintesi rassicurante della contraddizione. Il due presuppone, in modo insolubile, la polarità, l’opposizione, anzi la contraddizione. Ed è sempre un positivo e un negativo. È nel saper assumere su di sé la potenza immanente del negativo, sotto forme elevate, nobilmente distruttrici, che si riconosce la forza capace di misurarsi con il destino di cambiare il mondo».
Il «due» del rapporto padrone/servo (femminista, operaio o decoloniale) non è della stessa natura del «due» della rivoluzione. Il primo «due» dispone tutte le donne e le persone razzializzate da una parte e tutti gli uomini e i bianchi dall’altra. Il «due» della rivoluzione agisce invece in modo diverso, tagliando verticalmente donne, uomini, persone razzializzate, lavoratori, consumatori, poiché divide coloro quelli che sono a favore e contro la distruzione dei poteri costituiti. Essa organizza per proprio conto l’opposizione amico/nemico, attingendo tra donne, uomini, razzializzati, lavoratori, consumatori, ma dividendoli in modo differente (secondo una frattura di classe) da come il razzismo, il sessismo e l’organizzazione del lavoro li avevano divisi.
Prima di essere una composizione o una coordinazione delle differenze, la rivoluzione opera una divisione, una radicalizzazione, una centralizzazione e un’intensificazione politica dell’opposizione tra le forze. La «trasversalità» concetto introdotto da Félix Guattari negli anni ’60 — antesignano dell’intersezionalità (che si limita a riprodurne il concetto cinquant’anni dopo) — è efficace solo a condizione che divida prima di comporre (la prima parte dell’azione della trasversalità manca in Guattari, da cui la debolezza del concetto).
Se non si ritrova questa opposizione amico/nemico, non si incrocerà mai la macchina del potere, né la possibilità di disfarla. Si vivrà nell’illusione di essere in esodo o in fuga, nella chimera di costruire forme di soggettività e di vita autonome e indipendenti, di creare comunità, di «divenire rivoluzionari», di vivere piccole e fugaci libertà (Rancière), mentre in realtà si è sottomessi, dominati, sfruttati in un modo che ci riporta ai periodi più oscuri della storia del capitalismo.Un’illusione definitivamente crollata con il regime di guerra, il genocidio, il dilagare della violenza razzista e sessista che, uno dopo l’altro, hanno chiuso tutti gli spazi di «libertà», hanno disfatto i processi di soggettivazione trasformando il divenire rivoluzionario in divenire fascista.
Senza il riconoscimento di questo dualismo, senza la ricerca di un’opposizione radicale alla totalità divisa, le classi oppresse meritano, come si diceva già all’inizio del XX secolo, di essere «trattate come schiavi» — cosa di cui i nostri padroni non si privano affatto. La guerra, il genocidio, la guerra civile mondiale riportano in primo piano questa opposizione amico/nemico, ma a farla riemergere è stato il nemico di classe, e noi la subiamo.
Autonomia, indipendenza, forza
Il processo di soggettivazione dei nuovi movimenti resta concentrato sulla consolidazione del rapporto a sé, delle forme di vita, delle produzioni delle differenze, evitando di prendere in considerazione la necessità complementare del conflitto contro la «totalità divisa» (il passaggio dalla lotta contro la dominazione alla «rivoluzione»), poiché senza un’offensiva contro la totalizzazione impossibile, l’autonomia e l’indipendenza conquistate nella lotta contro la dominazione declinano inesorabilmente.
L’affermazione politica necessita di una doppia negazione. La prima è il rifiuto di sottostare al rapporto di obbedienza imposto dal padrone, dal maschio, dal bianco. Si rompe il rapporto di subordinazione con un atto soggettivo di rivolta. Ma il rifiuto della relazione servo/padrone (capitalista/operaio, uomo/donna, bianco/razializzato) necessita di una seconda negazione, negazione della macchina globale del potere, negazione del tutto diviso, negazione della totalizzazione impossibile. La prima negazione produce un processo di soggettivazione che deve essere continuare, arricchirsi, prendere consistenza nel costituirsi comme volontà di distruzione delle forme della totalità divisa. La seconda negazione apre al processo di costruzione dei rapporti di forza et di soggettivazione capaci di attaccare il potere come un tutto (diviso). Processo di lungo periodo à differenza dell’istantaneità della prima negazione (rifiuto, rivolta, ecc.)
I nuovi movimenti sembrano volersi limitare alla prima negazione e al processo di soggettivazione che ne consegue restando in balia del Capitale et del suo Stato. Ciò che sembrano non desiderare è la necessità e l’organizzazione del ciclo strategico della rottura radicale. Da cui la forza della rivolta che si trasforma in impotenza dei movimenti da almeno 50 anni.
Ciò che non sono riusciti a fare i nuovi movimenti, affermarsi tramite questa doppia negazione, è stato realizzato dai Gilet Gialli, che meritano un’attenzione particolare da due punti di vista: da un lato, sono stati capaci di organizzare il passaggio dalla dominazione allo scontro diretto con il potere; dall’altro, sono riusciti a portare una molteplicità dispersa e frammentata di proletari al dualismo di potere con il «tutto diviso». Questo passaggio non è stata una semplice coordinazione e, se ha mobilitato così ampiamente, è perché ha proposto una concentrazione e un’intensificazione della forza contro la totalità del potere — ciò che i sindacati, i partiti politici di sinistra e i nuovi movimenti politici si rifiutano di fare.
I Gilet Gialli hanno saputo evitare le trappole e le illusioni delle libertà parziali, delle piccole soggettivazioni, poiché hanno ben compreso che questa parzialità resta sempre interna ai rapporti di sfruttamento e dominazione. Il potere non si è sbagliato: ha mobilitato tutta la ferocia della macchina poliziesca per neutralizzare la forza di questo nemico interno che era sfuggito a tutte le mediazioni di integrazione sindacale e politica. Alla fine, ciò che è mancato, ancora una volta, è stata una sapienza strategica di queste situazioni di doppio potere, una capacità di costruire alleanze per consolidarlo, la teoria et la pratica del ciclo strategico.
Dopo la sconfitta degli anni ’70, il pensiero critico italiano ha diffuso l’idea bizzarra che non è più necessario conquistare autonomia e indipendenza politicamente, poiché costituirebbero il patrimonio ontologico del nuovo proletariato. Ancora più strano: la sua impotenza sarebbe dovuta a un eccesso di potenza, a un troppo di competenze, abilità, saperi e saper-fare che non saprebbe come articolare. Si può legittimamente sospettare che l’impotenza sia politica, come del resto la potenza.
La cosa è tanto più sorprendente se si pensa che nell’Italia degli anni 1968-1978 il proletariato aveva conquistato un’autonomia e un’indipendenza reali (non vagamente ontologiche), esprimendo un potere di decisione, di scelta, una volontà di imporre il proprio punto di vista nelle fabbriche, nelle università, nei quartieri — e al contempo una negazione complementare della capacità di decisione, di scelta e d’imposizione del nemico. Il tutto conducendo dentro una lotta accanita contro la totalità divisa, instillando nelle classi dominanti — attraverso l’uso della forza, locale e globale — quella paura che normalmente esse utilizzano come mezzo di governo. Non c’è libertà senza la forza, lo sappiamo almeno da Machiavelli!
Il pensiero critico ha fatto un passo avanti e due indietro, volendo promuovere l’azione positiva, affermativa della molteplicità. Come i nuovi movimenti, ha ampliato il ciclo dell’accumulazione includendo lo sfruttamento della riproduzione sociale (femminismo), delle persone razzializzate (movimento decoloniale), della terra e del vivente (ecologia politica); questi rapporti «padrone/servo», che il marxismo aveva trascurato, sono stati politicamente analizzati, vivisezionati, trascurando però il ciclo guerra/rivoluzione. Ma il dualismo strategico è stato pensato e riorganizzato unicamente dalla macchina Stato-Capitale, e completamente abbandonato da chi le si oppone, come se la moltiplicazione delle modalità di sfruttamento e di dominazione che i nuovi movimenti e il pensiero critico mettevano in luce contenesse da sola l’insieme dei rapporti di potere e la forza per batterli. La «riproduzione» richiede sempre il concorso della forza: non è garantita unicamente dai diversi dispositivi padrone/servo. La chiusura impossibile della riproduzione capitalista è assicurata dalla polizia e dall’esercito quando essa è minacciata dall’interno; dalla guerra e dalla guerra civile mondiale quando rischia di crollare, come accade oggi. Le varie teorie della riproduzione dimenticano troppo facilmente che il potere è inseparabile dal militare, il governo dall’uso della forza e dal suo monopolio, sollecitate in questo senso dalle teorie del potere del dopo ’68, dove tutte queste categorie sembrano essere scomparse per lasciare il posto a concetti come governamentalità, biopolitica, società disciplinari, del controllo, della sorveglianza, ecc.
Solo la Macchina Stato–Capitale ha saputo, a ogni rottura (1945 – 1971 – 1991 – 2008), ripensare la propria strategia, perché ha sempre mantenuto un’idea chiara di chi fosse il suo nemico e di come combatterlo.
Impotenza teorica
L’impotenza politica contemporanea ha radici profonde, che affondano negli anni successivi al ’68. Come hanno reagito la teoria critica e i movimenti alla sconfitta della rivoluzione del dopoguerra? I pensatori critici sono molto diversi tra loro, ma convergono su un principio: neutralizzare i concetti di guerra, di guerra civile e di rivoluzione, negando al contempo il legame stretto che unisce quest’ultima alle prime.
Alain Badiou vede nel fatto che le rivoluzioni nascano all’interno delle guerre la causa del loro fallimento. Considera le politiche che adottano concetti come «strategia», «tattica», «mobilitazione», «ordine del giorno», «offensiva e difensiva», o persino «rapporti di forza», come «morte», poiché «il modello della guerra è onnipresente».
Per Étienne Balibar, «le rivoluzioni hanno avuto luogo (o almeno alcune rivoluzioni, ma di scala mondiale e di portata universale), e nell’immediato hanno tutte fallito. Il loro uso politico della violenza è al cuore di questo fallimento».
Le affermazioni di Negri sulla rivoluzione sono paradossali: in mezzo a una contro-rivoluzione capitalista che ha travolto tutto sul suo passaggio, egli afferma che la rivoluzione è già avvenuta (sottinteso: non è più necessaria, bisogna passare al potere costituente come dopo ogni rivoluzione), lasciandoci in eredità una trasformazione ontologica che avrebbe reso il proletariato più forte della classica classe operaia. Alla fine della trilogia con Michael Hardt, gli autori trovano il modo di liquidare la guerra: «L’opzione militare ha ampiamente fallito, poiché la società in guerra mina la produttività... L’opzione finanziaria è molto più efficace».
Michel Foucault, rifiutando la guerra civile come analizzatore dei rapporti di potere – dopo averla considerata tale durante tutta la prima metà degli anni Settanta – dichiara la fine del ciclo delle rivoluzioni. Per questo, occorre abbandonare il punto di vista radicale (rivoluzionario) e globale (combattere la totalità divisa del potere) e dedicarsi alla micropolitica (i rapporti uomo/donna, maestro/allievo, medico/malato, ecc.), strategia consigliata anche da Deleuze e Guattari. Le rivoluzioni finiscono sempre male, ma non il «divenire rivoluzionario», che ciascuno può coltivare come un’etica, un rapporto a sé identificato con un «divenire rivoluzionario». Con Guattari, operano un controsenso sulla natura del capitalismo, perfettamente espresso da quest’ultimo, che liquida guerra e rivoluzione assumendo i luoghi comuni ingenuamente ripetuti prima di ogni guerra mondiale: «Le rivoluzioni che mirano alla presa del potere statale – pensiamo al modello rivoluzionario affermatosi nel secolo scorso e all’inizio di questo – sono rivoluzioni che non corrispondono più al livello attuale d’integrazione, di relazioni internazionali, di strategia, di sviluppo del capitale, di sviluppo politico», mentre l’economia, invece di sostituire la guerra, l’ha trasformata in guerra totale, industriale, tecnologica, tanto più micidiale quanto più integra l’intero mondo. In queste condizioni, senza guerra né rivoluzione, la macchina da guerra non ha più la guerra come obiettivo, ma la mutazione: la produzione di una nuova soggettività, la rivoluzione micropolitica. Rancière non ha bisogno di rimuovere guerra e guerra civile (pur essendo il vero fondamento della polis greca da cui ricava il suo modello di democrazia), poiché non hanno mai fatto parte della sua «politica». La divisione tra le classi, risultato di feroci guerre civili, è ridotta al «partage du sensible».
L’accecamento di fronte alla guerra e alla rivoluzione è la conseguenza diretta della doppia battaglia che tutte queste teorie hanno condotto contro il «negativo» e il «due». La negazione e il dualismo rimanderebbero alla dialettica hegeliana, alla sua automatica permutazione dei termini, alla sintesi come superamento delle contraddizioni. Così, la critica della trascendenza dell’«Uno» si fa attraverso la «molteplicità», un altro modo per eludere o aggirare il «due» del potere. Eppure, la nostra società non è né «una» né «molteplice»: è divisa, drammaticamente divisa, come si può constatare in mille modi. La guerra, la guerra civile, il genocidio sembrano cattivi ricordi di un’epoca passata per sempre, mentre sono un richiamo sanguinoso al dualismo che fonda il capitalismo.
La cosa assolutamente sorprendente di tali affermazioni è che sono state formulate nel pieno di una guerra civile scatenata dagli Stati Uniti, guerra che queste stesse teorie sono state incapaci di riconoscere e nominare. Condotta tra il 1971 e il 1985, in tutto il «mondo libero» (c’era ancora l’URSS), questa guerra civile mirava a ristabilire la loro potenza economica e politica, fortemente scossa negli anni Sessanta (la guerra contro il Sud, esemplificata dall’intervento in Vietnam da un lato, e la concorrenza di Giappone e Germania dall’altro).
L’insieme di queste teorie è rimasto cieco di fronte alla grande portata strategica del «due» di questa guerra civile, che ha determinato il passaggio dal fordismo al cosiddetto «neoliberismo» attraverso una vasta attivazione della negazione e l’affermazione di un dualismo di classe capace di imporre un cambiamento economico, politico e sociale dettato e comandato dalla forza, che, quando necessario, era anche armata.
Come è avvenuto il passaggio dal fordismo al cosiddetto neoliberismo? Il cambiamento si è prodotto in modo immanente alla produzione? Si può dubitarne, così come si può dubitare che l’economia sia un ambito e una scienza autonoma, chiusa in sé stessa, dalla quale si possano trarre «leggi» come fa la scienza della natura.
Già Marx, seguendo gli economisti classici, parlava di economia politica, e mai semplicemente di economia, poiché essa era inseparabile dall’azione dello Stato, dal suo intervento tanto politico, militare ed economico (in particolare attraverso il credito pubblico, vero e proprio «credo» del capitale). Il lato politico del sintagma «economia politica» non è mai stato realmente studiato da Marx, che ha privilegiato il «capitale». Con l’avvento dell’imperialismo le cose cambiano profondamente, poiché non solo lo Stato svolge un ruolo determinante, tanto dal punto di vista economico quanto da quello politico/militare, ma anche uno degli attributi della sua sovranità diventa strategico per il capitalismo: dichiarare e condurre la guerra.
Gramsci, nel suo celebre articolo La rivoluzione contro il Capitale, analizza ciò che distingue il capitalismo di Marx da quello di Lenin: «Marx ha previsto il prevedibile. Non poteva prevedere la guerra europea, o meglio, non poteva prevedere che questa guerra avrebbe avuto la durata e gli effetti che ha avuto». Rosa Luxemburg, qualche anno prima, nella sua opera principale, osserva che nel mercato mondiale, così come si è configurato con l’imperialismo, la guerra, i rapporti di forza tra Stati, i conflitti per l’appropriazione coloniale rendono il funzionamento delle leggi economiche più che precario.
In modo più generale, la critica dell’economia politica presenta un difetto fondamentale: non può partire dalla produzione delle merci e dalla loro distribuzione. Nemmeno la produzione marxiana costituisce un buon punto di partenza, poiché essa presuppone che la forza lavoro sia già privata di ogni proprietà, e che il capitalista, al contrario, sia il proprietario delle condizioni materiali dell’esistenza. La divisione tra proprietari e non proprietari non è il risultato della produzione: essa nasce dalla forza, dalla violenza, dalla guerra civile. Da qualunque punto di vista si analizzi la produzione (livello macro – mercato mondiale – o micro – produzione in fabbrica, lavoro domestico, ecc.), non la si può separare dalla guerra.
Ma l’elemento decisivo è la trasformazione della natura del conflitto: l’ingresso dei «popoli oppressi» (i popoli colonizzati) nella lotta. La trasformazione, in questa parte del mondo, della lotta di classe in guerra di partigiani e in rivoluzione vittoriosa, sottrae alla sovranità dello Stato la prerogativa di dichiarare e condurre la guerra. La divisione Nord/Sud, ossia la colonizzazione, subisce un primo e decisivo attacco dal quale non si riprenderà più. Il conflitto compie un salto qualitativo diventando globale, superando una soglia che costringe Stato e capitale a riorganizzarsi per tentare di fermare quello che, dopo la fine della Prima guerra mondiale e la rivoluzione sovietica, si chiamava già «il declino dell’Occidente».
A partire dall’avvento dell’imperialismo e della «guerra dei partigiani», il quadro generale dell’azione politica ed economica è la guerra civile mondiale. È questa la ragione principale per cui la definizione di critica dell’economia politica è insufficiente.
Che la guerra abbia una funzione strutturale nel capitalismo significa che essa costituisce il quadro entro il quale si svolgono le lotte; e se ogni lotta non è una guerra, deve comunque tener conto di questa realtà, tanto più che, prima o poi, la macchina Stato-Capitale vi conduce inevitabilmente. Che lo si voglia o no, la guerra, data la natura, le contraddizioni e le opposizioni che il capitalismo suscita, rappresenta lo sbocco finale del ciclo di accumulazione. In poco più di un secolo, si sono succedute quattro guerre mondiali (e una guerra civile occidentale). Pensare la strategia al di fuori di questo quadro significa condannarsi all’impotenza e alla sconfitta.
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Maurizio Lazzarato vive e lavora a Parigi. Tra le sue pubblicazioni con DeriveApprodi: La fabbrica dell’uomo indebitato(2012), Il governo dell’uomo indebitato(2013), Il capitalismo odia tutti(2019), Guerra o rivoluzione (2022), Guerra e moneta (2023). Il suo ultimo lavoro è: Guerra civile mondiale? (2024).








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