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Università, occupazione e capacità umana. Un frammento di Romano Alquati



Parallelamente alla recensione pubblicata questa settimana su «Machina» (https://www.machina-deriveapprodi.com/post/la-societ%C3%A0-del-gioco-lavorativo-a-proposito-del-libro-di-alquati-sulla-riproduzione) del volume inedito del sociologo e militante politico Romano Alquati, Sulla riproduzione della capacità umana vivente (Derive Approdi, 2021), proponiamo su «Transuenze» un piccolo frammento dello stesso autore, tratto da un testo anch’esso inedito della fine degli anni Novanta, intitolato Studenti universitari verso il mercato dell’occupazione. Alquati aveva dedicato alla formazione intesa in un’accezione «alta» (di riproduzione delle capacità complessive della forza-lavoro) una parte fondamentale della sua elaborazione degli anni Ottanta e Novanta, per ragioni ben esplicitate nella succitata recensione. Il testo da cui sono tratti i frammenti qui proposti era stato inserito da Alquati come prologo della versione più recente delle dispense del corso di «Sociologia Industriale» da egli tenuto presso l’Università di Torino, intitolata Nella società industriale d’oggi (inedito, 2000). Per ragioni legate alla possibile pubblicazione del volume, punto d’arrivo del suo trentennale lavoro di modellizzazione della società capitalistica nella sua fase iper-industriale (cfr. anche lo «Scavi» dedicato ad Alquati su «Machina» - https://www.machina-deriveapprodi.com/post/la-riproduzione-del-futuro) e all’ampiezza dello stesso prologo, che eccede lo spazio convenzionalmente previsto da un articolo, di questo testo proponiamo solo alcuni frammenti, «cuciti» dai redattori in modo da mettere a fuoco alcune argomentazioni ricorrenti di Alquati sulla formazione universitaria. In specifico, muovendo dall’interrogativo iniziale («perché ci s’iscrive all’Università?») Alquati si confronta qui su un tema che tuttora occupa un posto centrale nella riflessione pubblica sui rapporti tra conoscenza, società ed economia. Un testo, come altri di questo autore, che non sembra avere perso attualità, nonostante gli oltre venti anni trascorsi dalla sua redazione.


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Perché si pensa che ci s’iscriva all’università? Gli opinionisti e la pubblica opinione danno tre risposte prevalenti. 1) Per migliorare la propria situazione sul mercato dell’occupazione. 2) Per contribuire ad aumentare la produttività generale del sistema aumentando la propria. 3) Per aumentare il proprio livello culturale e la propria capacità di vivere e capire la vita, il mondo, la società, la storia, ecc. Orbene, queste tre risposte non sono incompatibili tra loro ma possono andare benissimo d’accordo. Però di solito queste tre ragioni non si accordano spontaneamente, ci vuole ancora una politica, pratica, qualcuno che governi in maniera d’armonizzarle. [...]


1) Studiare per migliorare la propria posizione sul mercato del lavoro.

Io dico «mercato del lavoro come occupazione» e quindi anche «mercato dell’occupazione». Ma già questo dire segue un’abitudine scorretta. Dovrei dire mercato della forza-lavoro-umana destinata all’occupazione, cominciando a precisare cosa intendo come lavoro e come occupazione. Tuttavia «mercato» presuppone che la forza-lavoro-umana (che io preferisco chiamare forza-lavorativa-umana e di più capacità-lavorativa-umana-vivente) sia una merce, in senso proprio la principale di tutte le merci, e anche una neo-merce[1]. [...] Inoltre noi siamo adesso, da una trentina d’anni, all’inizio di una transizione, non so bene a cosa, in cui molto cambia. La capacità-lavorativa-umana-vivente si produce nella riproduzione allargata del suo duplice valore, ovvero nella formazione[2], poiché essa formazione è proprio il riprodurre la capacità con un suo incremento. [...] Orbene, la riproduzione formativa da oltre un secolo pure in Italia si è fatta anche e parecchio nel sistema scolastico e pubblico, sebbene non solo qui. Tantopiù si è fatta qui la sua parte «intellettuale». La quale è usata e si affitta fin dall’inizio della società capitalistica: solo in apparenza ieri gli operai vendevano/affittavano soltanto le loro braccia, ma con esse cedevano anche il sapere utilizzare le braccia e il sapere applicare questo sapere: davano in affitto e utilizzo altrui anche capacità mentali, cognitive, intellettuali, culturali e timiche. [...] La capacità-lavorativa-umana da sempre contiene un’importantissima componente non solo cognitiva, ma pure «intellettuale», che molti scoprono solo oggi. [...] Gli odierni iper-proletari, sono oggi coloro che sopravvivono affittando ad altri l’accesso alla loro vita, esperienza, capacità e soggettività per sfruttarle in cambio di un salario-di-fatto. [...] Anticipo la grande ipotesi che sono queste oggi «le due grandi classi-parti dicotomiche» almeno oggettive nell’odierna società capitalistica e industriale: affittuari ed affittatori di capacità-umana-vivente-merce. [...] Assumo esplorativamente l’ipotesi centrale che questa capacità e forza lavorativa degli umani nel capitalismo è concepita in grande prevalenza per i bisogni\desideri/interessi di chi la prende in affitto (o la «compra») e non tanto per quelli di chi la contiene in sé, calda nel proprio corpo-vivente; e in gran parte la riproduce e la forma, abbastanza a proprie spese. [...]

Succede inoltre che adesso la capacità-lavorativa-richiesta dal sistema sociale e civiltà capitalistica odierna (in produzione, distribuzione e consumo) stia cambiando ancora molto rispetto alla fase classica del capitalismo industriale: tuttavia né i funzionari ministeriali né i docenti della nuova autonomia scolastica sembrano comprendere le nuove caratteristiche già di molta forza lavoro domandate nella fase da poco iniziata, e tantomeno quelle del prossimo futuro. [...] Questi attori universitari indiretti italici sono in grande ritardo sui tempi internazionali: hanno ancora in testa una vecchia ed obsoleta proceduralità standardizzata, piuttosto tipica della fase di capitalismo manifatturiero che dico appunto «classico», il quale produceva in grande serie nella tangibilità dell’oggetto di lavoro e del lavorare, tangibilità ormai da più di un paio di decenni assai declinante e residuale: non colgono le grandi novità dell’industrialità reticolare dell’intangibile ormai già prevalente. [...] L’ipotesi che la variegata utenza italica del sistema scolastico, quale senso-comune, (ormai) guardi alla scuola in primo luogo in relazione al mercato dell’occupazione resta tutt’ora plausibile, certo; sebbene di solito, in apparenza, quest’utenza lo faccia con idee e argomentazioni molto vecchie e oggi piuttosto sbagliate nel merito. Nondimeno questi suoi utenti un poco sulla scuola e il mercato dell’occupazione finiscono con l’imbroccarla almeno in parte, malgrado tutto, perché l’arretrata situazione italiana ha qualcosa di paradossale, per via dell’incrociarsi di un nuovo dualismo ovvero di un nuovo assai prevalente lavoro semplice e di un nuovo minoritario lavoro complesso, con quel che residua del dualismo vecchio tra lavoro semplice e complesso vecchi, dove la semplicità era un poco più spinta: cosicché adesso un poco trova compensazione il fatto che anche molti settori traenti in Italia sono tuttora in arretrato di una fase storica: stanno passando solo adesso al vecchio taylorismo, mentre in USA magari ne stanno uscendo! E mentre i settori che sono stati taylorizzati per primi (già vari decenni fa) adesso entrano in un taylorismo nuovo, i servizi si taylorizzano solo adesso e di solito alla maniera vecchia. La nostra scuola sta scoprendo solo ora una forma vecchia della domanda di capacità-umana che fu tipica negli anni ’30. [...]

Torniamo al primo motivo d’iscrizione. Sull’università molti opinionisti scelgono, sostengono e diffondono «a naso» l’ipotesi che la gran maggioranza delle famiglie italiane, degli studenti, e ormai pure la maggioranza dei docenti e dei funzionari ministeriali (i quali tutti stanno nell’offerta-di-lavoro/occupazione), ritengano, piuttosto concordi, che lo scopo di gran lunga principale della scolarizzazione, in particolare di quella elevata, sia da riferire al suo sbocco sul mercato dell’occupazione; nel senso che i più scolarizzati dovrebbero ottenere più facilmente l’occupazione, e inoltre un’occupazione migliore[3] e soprattutto meglio pagata. Certo. Ma quest’ipotesi è giusta? In vero chi domanda la capacità-umana invece vuole che il sistema scolastico dia con abbondanza e a basso costo le specializzazioni di cui ha bisogno lui, nell’immediato o almeno nel tempo breve! E molto spesso non riconosce la scolarità degli offerenti o la evita. Orbene, oggi il mercato dell’occupazione e della capacità-umana-vivente-merce anche in Italia è dominato dalla domanda, la quale però non è sempre chiara e certa. Allora tutti gli attori dell’offerta cercano di interpretarla per soddisfarla e servirla al meglio; anche se, come dicevo, spesso con idee stranamente sbagliate e fantastiche di essa. [...] L’opinione che in prima istanza gli studenti universitari e le loro famiglie aspirino ad ottenere non solo un posto stabile e garantito[4], ma anche ambiscano a guadagnarsi un posto meglio pagato, più prestigioso (e pure di maggior potere)[5] è fondata? È proprio vero che gli utenti italiani dell’offerta aspirano nettamente a questo? È giusta quest’opinione degli opinionisti sugli utenti universitari? Rispondo: anch’io vorrei che, almeno, l’offerta di capacità-umana (gli studenti in specie) si comportasse davvero così; che pretendesse davvero di valorizzarsi in questa triade (prestigio, potere, denaro); che i rapporti di forza lo consentissero. Ma ricordo che l’essere opinionisti si qualifica con l’opinione.... che molto spesso è errata. Infatti, se si controlla sul campo, questa prima opinione e supposto motivo, caratterizzanti prevalentemente studenti e loro famiglie, risultano veri solo in parte. Quali sono allora i motivi e le aspettative effettivi degli utenti offerenti la capacità verso lo studio universitario?

Risulta da molte ricerche sul campo pure che, a causa dell’odierno strapotere della domanda, le aspettative effettive degli studenti e delle famiglie rispetto alla spendibilità della laureanon di rado sono ben più modeste e più pessimiste di quel che molti credono. Ossia, spesso succede effettivamente che studenti e famiglie (iper-proletarie) si attendono che la formazione universitaria serva soltanto ad apprendere quel che è richiesto per occuparsi con retribuzione media in ruoli sociali correnti, in ruoli impiegatizi al più; o perlomeno a ricevere nozioni utili in questa direzione. Studenti e famiglie «iper-proletari», in vero in maggioranza non sperano tanto in posti direttivi, come accadeva una volta; e quindi non si aspettano che, anche nella sua titolarità, la laurea serva a trovare un posto davvero confacente e contribuisca granché alla carriera lavorativa. Nella flessibilizzazione (ovvero precarizzazione) di tutti quanti, non lo credono. [...] Così, ripeto, intanto spesso per la laurea ci si accontenta, anche da parte delle famiglie, di un posto (stabile) pure di modesto prestigio e medio salario (di fatto). Questo smentisce gli opinionisti e le convinzioni suddette! Così stando le cose l’università sarebbe un grande spreco, comunque. Ma allora gli utenti si sbagliano, come sembrerebbe? Studiano per (quasi) niente? [...]

Molti ingenui credono che la qualità della domanda si stia alzando ovunque, che ci sia una domanda crescente di laureati dappertutto; ma non è proprio così: c’è in vero, come ho detto prima, oggi in Italia un nuovo dualismo; nuova domanda di moltissima capacità di lavoro-realmente semplice non da laureati ma da diplomati; e di una certa modesta quantità di capacità di nuovo lavoro complesso che dovrebbe essere “da laureati”... dovrebbe, ma paradossalmente entrambe le domande di nuova capacità malgrado l’alto tasso di disoccupazione apparente rimangono parecchio inevase. [...]


2) Studiare per contribuire ad aumentare la produttività generale del sistema aumentando la propria.

D’altronde imprenditori e perfino parte crescente della burocrazia pubblica dal canto loro guardano ormai alla produttività[6], locale e generale, dell’università e del sistema che ne fruisce. Costoro hanno il consenso di moltissimi docenti. E ritengono che la scuola e in specie l’università debbano incrementare la produttività del sistema-Italia, del sistema-Europa, nel sistema-globale capitalistico. L’altro fatto è però che (come pel primo caso) se quello è il loro obiettivo non è detto poi che i suoi sostenitori abbiamo idee molto chiare e valide su come lo si può raggiungere! Infatti, a mio parere pure qui sbagliano non poco; ma qui sbagliano soprattutto i domandanti capacità-umana-vivente! [...] La mia ipotesi è che il potere su molte condizioni del mercato oggi l’hanno sempre coloro che domandano la capacità-lavorativa-vivente-umana, in particolare i grandi tecno-burocrati, i quali comandano l’economia e la tecnologia, sono i sacerdoti del progresso economico-tecnologico (fra l’altro sempre più indipendenti dalla differenza fra pubblico e privato). E lo fanno col consenso di quasi tutti quanti: ci sono per lo più solo conflitti all’interno di ciò. Questi tecno-burocrati della domanda di capacità sono sovente i primi ad avere idee sbagliate: sia sulle vere e corrette necessità delle imprese e aziende per la produttività, sia sulla formazione di capacità-lavorativa-umana atta a soddisfarle. [...]

Infatti, ci sono più strade per quest’incremento della produttività del sistema iper-industrializzando. Dal lato del lavorare nel vecchio tangibile adesso, come dicevo, si è ad un taylorismo nuovo e a nuovissime tecnologie neo-tayloristiche. Inoltre, da un altro lato, adesso si mira a razionalizzare, standardizzare, proceduralizzare, semplificare, svuotare e serializzare, ossia a taylorizzare pure i servizi invece piuttosto alla maniera vecchia, in vista di automatizzarli: il vecchio taylorismo ritorna qui! Quindi abbiamo tutto un mare di lavoro-semplice, qui e là, vecchio e nuovo come concezione, onde bastano davvero pochi laureati qui e lì. Ma dall’altro lato ancora resta comunque sempre la pesante e duratura questione irrisolta di certe differenziate minoranze a capacità complessa, e di una certa loro non bassa qualità, anche nuova, e pure nei servizi. In questo grande dualismo la mancanza più grave per la domanda è la notevole scarsità di idonei al pur minoritario nuovo lavoro complesso. Proprio al lavoro complesso col suo lungo tempo di formazione e metodi pedagogici peculiari però a mio parere dovrebbe guardare l’università precipuamente; e non è una questione né semplice né facile. Questa è qui la mia ipotesi, scabrosa. I laureati in Italia non sono pochi, ma non sono quelli giusti e poi sono utilizzati in maniera irrazionale. Ma l’università lo recepisce? [...]

3) Studiare per aumentare il proprio livello culturale

C’è poi il terzo motivo attribuito dagli opinionisti alla fruizione dell’insegnamento universitario: l’aumento della propria cultura e conoscenza per se stessi; magari tuttora perfino come persone o addirittura come soggetti. In verità l’Italia è oggi un paese piuttosto arretrato. Nel mondo oggi prevalente dei servizi siamo indietro quasi di un ciclo. Così ad esempio oggi negli USA è in corso una nuova trasformazione in cui, si dice, non solo la scuola deve essere una comunità, ma deve servire innanzi tutto a creare comunità, cultura locale, socialità, significati, profondità ecc… In rapporto al territorio pure esteso, e in una nuova reciprocità: nella differenza. Che serva proprio da brodo di cultura per «l’economia», ossia per le relazioni e gli scambi mercantilizzati, che altrimenti inaridiscono. In Italia questa dimensione fondamentale non s’intravvede ancora e purtroppo si mira tutt’oggi all’opposto. La convergenza fra i due primi motivi intanto sembra se non proprio escludere almeno mettere assai in secondo piano le visioni «disinteressate» e culturaliste della formazione scolastica e in specie universitaria della personalità e soggettività per altri fini, visioni che sono ormai molto minoritarie e deboli: si direbbero in via d’estinzione, nella nostra società. Per giunta hanno forse pure una connotazione di classe-sociale in senso sociologico che meriterebbe di essere approfondita. [...] Nondimeno anche questo terzo motivo è compatibile con gli altri due, se ci s’impegna. Ma dalla maggioranza è tenuto al terzo posto, talora come un sovrappiù un poco ornamentale e un poco dimostrativo (qualcosa del «consumo vistoso».....), un pochino simulato.


Note [1] Chiamo neo-merce una merce non destinata tanto alla compravendita ma piuttosto al leasing. [2] Da non confondersi con la mera «formazione professionale». [3] Migliore per quelli che già sono occupati, nel significato che si aspettano un posto migliore di prima; migliore per quelli che non sono occupati nel significato che aumentano le possibilità di trovare un posto appetibile. Ma in verità i significati che si danno a quest’aggettivo sono parecchi e spesso contrastanti. [4] Questo è sempre meno realistico poiché appartiene ad un passato in via d’estinzione. [5] Soldi, prestigio e potere si combinano nel successo e sono una triade di grandi variabili (e valori: variabili valoriali) fortemente correlate fra loro, variabili che di solito vanno sempre insieme. [6] Faccio presente che ormai ci sono vari movimenti d’opinione, e di iper-lavoratori, che sostengono che la produttività non é più ne un obbiettivo né una funzione strategica dell’odierno iper-capitalismo: si veda ad esempio la rivista Wired.


Immagine: Omaggio a Fahlstrom


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Romano Alquati (1935-2010) è autore di numerosi articoli e saggi, una parte dei quali è tuttora inedita. Tra le sue principali pubblicazioni si segnalano Sulla Fiat e altri scritti (1975), Dispense di sociologia industriale (1989-92), Lavoro e attività (1997).

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