Un’intervista a Romano Alquati
(Torino, 1990)
In concomitanza con la pubblicazione, da parte di DeriveApprodi, di un importante testo inedito (Sulla riproduzione della capacità umana vivente, 2021) del sociologo e militante politico Romano Alquati, e della proposta di una selezione di suoi scritti nella sezione Scavi di questa rivista, disponibile a partire da questi giorni, anche la nostra rubrica converge nel percorso di riscoperta di questo per noi fondamentale autore. Il contributo proposto è un’intervista realizzata nel 1990 da Emiliana Armano, sociologa autrice di numerose pubblicazioni sui temi del lavoro e della soggettività e all’epoca allieva dell’intervistato, pubblicata a suo tempo su una rivista studentesca torinese, La Lente. Rinviamo i lettori che non conoscono la figura e l’opera di Romano Alquati, scomparso nel 2010, alla lettura dei materiali pubblicati nella sezione Scavi di Machina. Per quanto attiene a questo testo, per il quale i redattori di Transuenze ringraziano Emiliana per averlo reso disponibile e averne autorizzata la pubblicazione, è sufficiente anticipare alcune connessioni con le riflessioni proposte dalla rubrica. Fin dai primi articoli – sul solco di una delle principali linee di ricerca proprio di Alquati – ci eravamo ripromessi di dedicare ampio spazio alle «industrie riproduttive», in particolare a quelle dedicate alla riproduzione della più «speciale» delle merci della società capitalista, la Capacità Umana (come Alquati ridefiniva arricchendo di implicazioni politiche il concetto marxiano di Forza-Lavoro). Di ciò tratta l’inedito prima citato, di questo Alquati discute nell’intervista che segue, focalizzata in specifico sulle trasformazioni in corso nell’Università italiana. Lo sfondo, infatti, è rappresentato dalla riforma universitaria, la «legge Ruberti» che alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso inaugurò la stagione dei grandi cambiamenti dell’istituzione universitaria (con le riforme Berlinguer, Moratti e Gelmini, cfr. l’articolo di Francesco Pezzulli, www.machina-deriveapprodi.com/post/l-università-indigesta-note-da-un-inchiesta). La riforma Ruberti fornì l’innesco per il principale movimento studentesco universitario italiano della fine del secolo scorso, il movimento della Pantera. A dispetto degli oltre trenta anni trascorsi, alcuni degli argomenti proposti in questo colloquio non sembrano affatto invecchiati e forse, neanche troppo paradossalmente, hanno acquisito con il tempo quella evidenza che all’epoca forse non era immediatamente percepibile. Alquati, si potrebbe in realtà dire, era facile profeta quando individuava nell’impoverimento neoindustriale della formazione universitaria l’esito delle riforme auspicate da forze politiche, autorità accademiche e … dalla maggioranza degli studenti stessi. Certo, molte cose sono cambiate, nella società e nell’Università, ma la sostanza delle riflessioni proposte nel 1990 da questo instancabile ricercatore di alternative radicali alla povertà della vita e dell’umano sotto il capitalismo, riteniamo possano costituire tuttora una solida base di riflessione per la critica di questa fondamentale istituzione (e fabbrica) riproduttiva.
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Quali saranno i cambiamenti che la Riforma Ruberti e l’istituzione del nuovo ministero apporteranno all’Università?
Parlo a titolo strettamente personale. Io penso che l’Università oggi sia diversificata e lo sarà molto di più domani. Gli studenti hanno destini lavorativi diversi e questa diversificazione si accentuerà con l’istituzione del diploma biennale che crea nuove figure professionali e differenzia ulteriormente, proprio come un livello, gli sbocchi professionali. Ci sono notevoli differenze fra le sedi territoriali e le Facoltà! Parlo collocandomi dentro la mia Facoltà. Qui, a Scienze Politiche, c’è stato un ribaltamento di tendenza, negli ultimi anni. Questa diventerà la Facoltà degli amministratori pubblici, in funzione dei quali saranno differenziati quattro-cinque diplomi biennali (ma ci saranno diplomi pure negli altri indirizzi). Siccome qui pochi tra gli iscritti si laureano, credo che il diploma funzionerà bene, cioè molti si fermeranno a questo secondo anno e pochi si laureeranno.
Questo riferimento all’indirizzo politico-amministrativo avente come sbocco prevalente il pubblico impiego, cioè qualche cosa che è perfino più arretrato dell’Università, pone la nostra Facoltà in una condizione peculiare. Perciò non ci saranno grandi trasformazioni in senso tecnocratico e tecnico, se non indirettamente perché c'è la necessità di formare dirigenti pubblici che siano non solo degli imprenditori (in Italia ce ne sono pochi) ma anche dei tecnici amministrativi, col diploma, ecc. L'indirizzo sociologico, che prima aveva più iscritti e questo era l’indicatore di tutta una situazione globale che valorizzava la sociologia in un quadro di trasformazione generale delle società, oggi arretra nelle preferenze. Per quanto il rapporto integrativo Università-Ricerca, io non credo che qui si farà grande Ricerca e quella che si farà non sarà granché finalizzata e sponsorizzata. Questo potrà avvenire invece in quelle Facoltà che la fanno già e che si prestano già oggi ad un processo di standardizzazione e industrializzazione quali il Politecnico, Fisica, Chimica, Agraria (che è una Facoltà internalizzabile nell’industria Agricola), Informatica, ecc. E' di due o tre anni fa il Convegno di Mantova nel quale la Confindustria disse che la scuola è il principale nodo da sciogliere per la prospettiva futura del capitalismo italiano. Ma questo non vale tanto per la Ricerca! O non solo per essa. Certo, le possibilità di privatizzazione e soprattutto di sponsorizzazione spaventano molti perché temono l’ulteriore selezione. E la selezione è uno dei problemi per gli studenti: selezione, efficienza e risorse, adeguamento al mercato del lavoro. Ma qualche studente pensa che le sponsorizzazioni della ricerca abbiano anche un risvolto positivo di aggiornamento e possibilità occupazionale. In un paese a vasta disoccupazione giovanile (più nel sud) e femminile, il posto di lavoro conta per molti più della qualità del lavoro e della qualità del vivere. E ciò si relaziona con la qualità della Scuola e dell'Università.
Dal versante istituzionale quello che è stato fatto negli ultimi tre anni è stato fatto in modo selettivo, lo si è visto con l'ex Ministro signora Falcucci - molto furba questa democristiana - che anche nella distribuzione delle cattedre, ha fatto una graduatoria classificando in tre tipi le Facoltà: a) le Facoltà dove era urgente aggiornare e sviluppare; b) le Facoltà dove era necessario un piccolo sviluppo; c) le Facoltà peso-morto in cui non c'era, secondo lei, niente da valorizzare, alle quali non è stato dato quasi nulla. Noi siamo tra queste ultime. Da qui si vede quali sono le Facoltà che, mediante il sistema politico, interessano alle imprese. La nostra interessa meno mentre quelle che ho citato prima interessano moltissimo e queste sono già in condizione di forte diversificazione dei modi di funzionare e delle risorse disponibili (ma non hanno una più alta qualità didattica, al contrario!).
Che rapporto c’è tra Ricerca-Formazione Universitaria e impresa?
Secondo me le facoltà dove si fa ricerca in modo massiccio e che hanno anche i mezzi per farla, la fanno come luogo notevolmente subalterno alle imprese, e questa subalternità è destinata ad aumentare riducendo sempre più la capacità propositiva dell’Università, anche senza eventuali privatizzazioni e prescindendo anche delle sponsorizzazioni. Le facoltà umanistiche, proprio per i loro limiti, avranno più autonomia perché sono meno «industrializzabili», soprattutto nella loro ricerca. Questo anche perché non hanno altre funzioni: non sono destinate a formare prevalentemente dei tecnici ma quadri dirigenti, anche di minore livello (col Diploma universitario). Scienze Politiche da questo punto di vista è una via di mezzo. Qui però interviene la differenziazione dei livelli, perché a ricoprire i ruoli di quadri dirigenti di alto livello non andranno certamente gli studenti del Diploma. Si tratterà di sviluppare il Dottorato di Ricerca e soprattutto le specializzazioni post-laurea e quindi si determinerà una selezione, se vuoi di «classe», secondo tre livelli. È una selezione che ha dietro una stratificazione sociale e quindi i livelli didattici avranno una qualche corrispondenza con i livelli sociali nella stratificazione sociale, confermandola.
Molti di questi quadri dirigenti si formano nelle Università italiane, prevalentemente nelle Facoltà umanistiche, perché ad esempio, si assumono molti dirigenti provenienti dalle Facoltà di Filosofia (più che dal Politecnico). Questo vuol dire che anche nelle Facoltà umanistiche ci saranno delle isole interne per le élites. Anche li arriveranno le nuove tecnologie ma non sarà la serializzazione, la standardizzazione programmata, come invece comincerà ad arrivare ai livelli del Diploma; non subito s’intende, ma tra un dieci anni. E tutto ciò riguarda più la Didattica che la Ricerca. Ci sarà – in apparenza almeno – scelta culturale e settoriale, e di livello, sia sul piano metodologico-pedagogico che sui contenuti. Penso che l‘aspetto metodologico-pedagogico della didattica sia quello fondamentale e che produca le differenze di capacità per il mercato del lavoro. Questo è il centro!
Come si ricolloca la Scienza dentro l’Università?
Quando voi parlate di Scienza mi pare che la intendiate come produzione di Scienza, la Ricerca scientifica. Essa è già oggi spesso di bassa qualità e bisogna cambiarne la funzione per elevarne la qualità. Io invece vedo lo sviluppo della Scienza come mezzo e risorsa per la didattica. La Didattica scientifica che usa pedagogie e metodologie di scienza applicata, con l’aggiornamento legato a metodi didattici (organizzativi e pedagogici) ma anche ad un capitale fisso, un macchinario in grande crescita. Questo si comincia a vedere già nella scuola media. Qui questo tipo di tecnologia e di macchinario sarà sostitutivo degli insegnanti perché funzionerà a livello di massa riducendo tra l’altro, il livello dei costi. Questo dal punto di vista degli utenti, degli studenti, sarà forse pure positivo. Dal punto di vista degli insegnanti è chiaro che solleverà dei conflitti. Qualcuno dovrà scegliere, rendersi conto. Nell’Università sarà una cosa più d’élite e quindi non sarà tanto un problema di riduzione dei costi ma di avere un macchinario integrativo, di ausilio didattico per gli insegnanti, in alcune Facoltà. Ma in altre la prospettiva di industrializzazione delle didattica è quella di un'applicazione della scienza al metodo e all’organizzazione e di un macchinario più determinista e sostitutivo.
...in che misura la ricerca nell’Università è industrializzata?
Secondo me oggi è notevolmente industrializzata nelle Facoltà del primo gruppo che citavo prima, con la differenza che l'impresa fa soprattutto Ricerca applicata e l’Università fa piuttosto Ricerca pura. Però questa differenza tende sempre di più ad assottigliarsi, perché anche l’Università fa sempre più Ricerca applicata, tanto più quanto si integra con le Imprese; come nei «campi tecnologici» in progetto. Qui l’industrializzazione crescerà.
Come si colloca l’Università all’interno del processo di valorizzazione?
La Ricerca, è ovvio, si pone direttamente all’interno del processo di valorizzazione, questo discorso vale per l’Università come per qualsiasi laboratorio. In modo mediato (indiretto) va vista la didattica, che è produttrice indiretta di plusvalore formando una forza lavoro più capace secondo canoni capitalistici. Perché crea le premesse per l’estrazione del plusvalore attraverso la qualificazione e la qualità delle capacità.
Questa forma mediata di valorizzazione, la didattica, è più importante di quella immediata, la ricerca: per cui io do molta più importanza alla didattica. Il grosso discorso da fare sull’Università è semmai come la didattica si qualifica collegandosi con la ricerca, come la distribuzione e l’apprendimento della conoscenza diventa diverso se collegato ad una esperienza di produzione della conoscenza. La didattica è un luogo di distribuzione della conoscenza già prodotta altrove. È come il commercio. Distribuisce conoscenze procedurali pre-confezionate. E questo piace agli studenti, che non capiscono la miseria di ciò! Se tu colleghi direttamente il compratore della conoscenza alla sua produzione, se lo rendi partecipe riesci a capire di più come può essere sfruttata nell’uso. Ma il fine per rinnovarsi è migliorare la didattica. Perché se la didattica è integrata nella ricerca allora è tutta un’altra «Capacità Attiva». Intendo per Capacità Attiva quella che veniva intesa come Forza Lavoro. Bisogna togliere l’alone di sacralità che la ricerca scientifica si porta dietro! Niente è più alienante dell’azione della ricercatrice che riempie migliaia di volte la stessa ampolla per stabilire una media. La ricerca proceduralizzata ed esecutiva ha poca qualità, vale poco, richiede poca capacità e ne sviluppa poca. Non conviene dal punto di vista della qualità e del valore della capacità da rivendere. Quando la Didattica è una trasmissione di procedimenti prefabbricati, si produce una Capacità Attiva di basso valore ma con un alto rendimento capitalistico. Le imprese la chiedono ma la pagano poco. Invece bisogna cercare di ottenere una Capacità ricca e ampia. Quindi il problema è lo scontro con la mentalità degli studenti. Mentalità che punta al prezzo e non al valore; a un posto in fondo modesto. E per il quale proprio non è necessaria la laurea e nemmeno il diploma! Non ci si laurea per finire manovali nella ricerca! Non appena la domanda di quella data formazione cala, il suo prezzo, non essendo supportato da un dato valore, si sgonfia tutto. Bisogna alzare la qualità della ricerca cambiando i suoi fini! Gli studenti coinvolti nella ricerca universitaria sono un’esigua minoranza. La ricerca in cui sono coinvolti didatticamente per imparare a ricercare (anche applicativa allora) deve aumentare la sua qualità: imparare una ricerca meno routinaria! Mentre la ricerca che fanno i ricercatori universitari dovrebbe alzare a sua volta la qualità ma essere «fondamentale» e «pura».
L’Università è un centro o è soggetta a un centro?
L’Università non è un centro, è sempre a valle dell’Impresa, sia in modo diretto sia indiretto, perché l’Università è a valle delle istituzioni, le quali oggi sono a valle dell’Impresa: soggettivamente. Ci sono poi Facoltà, quelle del primo gruppo, che sono già direttamente a valle dell’Impresa.
Qual è il giudizio che dai sull’Università italiana?
Quelli che capiscono qualcosa, che sanno cos’è il potere, quelli che vengono da un ambito borghese, sanno che l’Università, così, paradossalmente, è buona, perché è discriminata dentro e dà strumenti di comando, di dominio e di esecuzione dall’altro. Discrimina anche le risorse didattiche. L’Italia è un paese che ha una delle meno peggiori scuole del mondo, proprio perché non è stata riformata.
La riforma promuove la standardizzazione e l’industrializzazione di massa nell’Università, come è avvenuto nel mondo americano, inglese, in Giappone, in Corea e in parte in quello francese (molto meno in quello tedesco), ecc. La scuola giapponese è orrenda. Il modello, per molti in Italia, è quello giapponese! Al limite oggi gli inglesi e gli americani stanno facendo autocritica perché hanno ristrutturato l’Università in modo sbagliato. E molti capiscono che si ritrovano avvantaggiati gli italiani che hanno l’Università tagliata per una formazione d’élite, di cui anche i neo-proletari si avvantaggiano. Altrove hanno ristrutturato puntando sulla massima efficienza nella standardizzazione, sulla logica matematica, sull’informatica, sulla riduzione dei costi, sulla ripetitività e sulla massima estensione, sulla standardizzazione del macchinario, come qualsiasi altra produzione di merce. Questo a discapito della formazione umanistica. Oggi stanno scoprendo il bisogno di creatività, ma questa non sarà mai il frutto della didattica specialistica standardizzata.
È molto più formativa per l’industria la filosofia e l’ermeneutica che la matematica. Bisogna leggere Omero e la grande letteratura per formare il buon tecnico. L’alfabetizzazione informatica va fatta all’asilo e non è compito dell’Università. E non è vero che il nostro è il mondo che privilegia la questione dell’informazione: privilegia la questione della conoscenza. L’informazione è roba vecchia! Questo tipo di formazione, che in Italia è una formazione d’élite, sopravvive proprio perché non hanno mai riformato. E questo vale anche per la scuola media. La scuola media italiana è una delle meno quotate del mondo nelle classifiche, ma proprio perché sbagliavano quelli che facevano le classifiche. Adesso cominciano a ricredersi. Quindi, gli studenti che chiedono essi stessi l’industrializzazione non si rendono conto che per la massa ci sarà una didattica più chiara e servizi più funzionali ma una qualità didattica e pedagogica peggiore di questa, più «arretrata». E questo è il centro del discorso. La logica e la matematica insegnate come procedure non portano da nessuna parte ma il mercato le apprezza. Come dicono anche gli psicologi cognitivisti, non viene fuori una capacità creativa, immaginativa dalla logica e nemmeno la capacità di pensare. La logica è l’applicazione di una sequenza di regole. Viene fuori l’esecutore.
...e dal punto di vista del controllo sociale, della formazione programmata degli individui?
Secondo me la formazione degli individui avviene attraverso i mass-media e solo in minor parte a scuola. La scuola è sempre più un momento integrativo della televisione e non viceversa.
...quale istituzione, quale corpo docente, quali studenti?
A me pare un po’ fuori luogo privilegiare la denuncia della repressione. Non c’è repressione, a meno di frange marginali; perché non c’è proprio niente da reprimere! I marginali hanno i loro diritti; ma è con la maggioranza centrale che bisogna vedersela!
A me pare che voi concepiate, in modo pazzescamente ottimistico, dei docenti con voglia di fare e sperimentare cose diverse ed eversivi o pericolosi e degli studenti con la stessa voglia e una minacciosa autorità accademica che controlla tutto, pure le discipline, le tematiche.
Insomma, una istituzione immersa in una dimensione fortemente corporativa, potente, che si è riprodotta ed è molto più potente, anche sul piano tecnico rispetto a prima e che impedisce e vieta chissà cosa. Invece, non è così. Mentre i cosiddetti baroni di una volta erano potenti ma privi di una professionalità tecnica, gestionale, manageriale, nel senso politico, i potenti di adesso sono spesso dei politici di professione e non chiudono nessuno spazio reprimendo. Sono i professori che non fanno nulla di diverso e che si sono ricompattati in un’identità e quindi in un’immagine, in uno stereotipo della professione ma anche della figura sociale. Un’immagine sociale che torna al passato, con delle differenze però.
Mediamente i professori di oggi sono migliori di quelli di una volta. Ma la media pur essendo migliore di quella di quarant’anni fa è modellata sui professori di allora. Si sono spontaneamente compattati tutti e fanno più o meno le stesse cose. Sono di un notevole conformismo, tutti, compresi quelli di sinistra e sono contenti così. Prima di tutto quelli del ’68. Si sono convertiti a questo stereotipo e alla selezione e alla conformità tutti quanti alla stessa maniera.
Voi pensate a un controllo sociale istituzionale; secondo me questo non c’è. È perché i docenti stessi si autocollocano disciplinatamente e fanno quelle cose che il sistema vuole che facciano. Intendo qui per sistema l’istituzione. Gli insegnanti vogliono efficienza, risorse, aggiornamento e modernizzazione, riconoscimento sociale: come gli studenti! Il discorso vale ancora di più per gli studenti. Gli studenti affollano le aule dove si insegnano quelle cose che il mercato del lavoro richiede, secondo la loro opinione il più delle volte sbagliata, perché non sono attrezzati per individuare le domande del mercato. Questa loro incapacità di capire cos’è la capacità più richiesta è un problema enorme! Comunque c’è una notevole e crescente convergenza tra le domande degli studenti, quello che spontaneamente fanno i professori e poi i bisogni dell’impresa. Oggi sono tutti, ma proprio tutti, a favore dell’impresa, ma una parte teme la selezione.
Ritornando agli studenti, quando si sono mossi due o tre anni fa cosa volevano? Volevano che la scuola fosse in grado di specializzarli nel modo voluto dall’impresa. Oggi l’impresa cerca la specializzazione e tuttora solo rari esperti parlano di polivalenza; che sul piano del riformismo è un tema di venticinque-trenta anni fa. Non sempre l’impresa italiana è molto aggiornata nel suo modo di concepire i modelli e i metodi pedagogici e la stessa qualità della capacità da richiedere ai laureati! Il punto è che più una merce è specializzata, specifica, meno è stabile, meno dura perché il capitalismo si innova, si trasforma di continuo e di conseguenza tutto ciò che non è facilmente modificabile è soggetto ad obsolescenza, e presto si butta via, non serve più; ciò avviene in fretta. E il livello dell’istruzione universitaria non dovrebbe essere finalizzato a specialismi tecnici provvisori.
Questa auto censura si afferma nell’ultimo decennio? Rispetto agli anni ’60 e ’70 cosa è cambiato?
L’Università degli anni ’60 era d’élite, quindi quella che si è ribellata nel ’68 non era l’Università di massa ma era d’élite. L’élite che si ribellava all’autoritarismo: i figli dei borghesi. Il mettere dentro l’Università i figli degli operai è risultata un’azione di stabilizzazione dell’Università e ha coinciso con l’esaurirsi delle lotte operaie in una dimensione generale di sconfitta della classe operaia. Il ’77 ha avuto poco in comune con il ’68 che era stato antiautoritario. Nel ’77 c’è un rapporto più stretto tra le trasformazioni soggettive, il cosiddetto proletariato giovanile, le lotte nelle fabbriche e nel territorio. L’interesse del proletariato che era entrato nell’Università nel ’68 era solo quello di laurearsi per promuoversi individualmente sul mercato, ma facendolo in massa. Quando poi si è scontrato con le difficoltà insite in una Università che era di massa in quanto massa di singoli in competizione che sfruttavano per queste le conquiste del ’68, conquiste che sono poi gradualmente venute meno con la riaffermazione della selezione individuale, allora anche il proletariato giovanile si è mobilitato contro la selezione. Dietro c’è la proletarizzazione del lavoro intellettuale, l’«intellettuale-massa». Adesso con la frammentazione degli ultimi dieci anni c’è stata la rincorsa al titolo con la speranza che questo sia riconosciuto. Ma la parte socialmente sfavorita teme l’inasprirsi della selezione pure meritocratica. Me l’élite no. Vuole selettività! Ci sono interessi differenti tra gli studenti. Fra l’altro, oggi è cambiata la figura, il tipo, e l’atteggiamento degli studenti lavoratori.
Gli studenti non capiscono il loro interesse?
Sì, è in parte così! Nella scuola e nell’Università italiana oggi c’è molto consenso e accordo fra docenti e studenti; ma in un errore di entrambi.
I docenti italiani non sono tenuti ad occuparsi di pedagogia, del metodo d’insegnamento e di apprendimento; e della sua qualità e valore nel produrre una capacità del discente che abbia a sua volta (con quello sforzo e dispendio e costo) un’elevata qualità e valore. Essi operano empiricamente secondo tradizioni con un metodo pedagogico modesto che però peggiora gradualmente ma è oggi meglio di quello giapponese! Potrebbe essere davvero migliorato andando però nella direzione opposta a quella cui puntano i progetti di riforma e l’aziendalizzazione auspicata, e che auspicano i docenti, gli studenti e le loro famiglie.
I docenti stessi auspicano metodi e tagli dell’insegnare di massa americano-giapponese che in genere peggiorerebbero: 1) la qualità della formazione nei metodi, e nei contenuti; 2) la qualità della capacità formata (anche rispetto ai bisogni degli utilizzatori e compratori della capacità umana poco consapevoli e confusi).
I docenti rivendicano efficienza e risorse; e però aggiornamenti che in genere peggiorano entrambe le qualità modeste. Gli studenti consentono, cercano metodi didattici proceduralizzati e standardizzati, privi di problemi e problematicità; vanno dove ci sia poco da pensare e da capire creativamente. Non apprezzano la capacità critica ma la chiarezza procedurale nell’apprendimento (mnemonico) di problemi già pre-risolti di pre-soluzioni già canonizzate e omologate. Questo si vende; ma vale poco! Questo è povertà e miseria! Gli studenti neo-proletari di ceto medio preferiscono sia i metodi pedagogici che valgono poco, sia la formazione di un tipo di capacità umana e di conoscenza banalizzata, che a sua volta vale poco. La rivendicano e possono anche mobilitarsi per questo. Senza poter capire (non danno loro i mezzi) che la capacità che vale di più, più durevole, sicura, e meglio pagata è tutta un'altra! E con loro le loro famiglie e tutti quanti! La responsabilità di quest'inganno è dei media. Questo è un nodo tragico e questa negatività di orientamento, autolesionista, vede il consenso coi docenti, e tutti quanti.
Questo nodo lega negativamente oggi la povertà vera della formazione di massa alla condizione sociale e umana complessiva della gente: impoverita della capacità di lavoro, di attività e di vita! Pure istruendosi! Bisogna capire che il clou sono i modelli pedagogici e didattici; da cambiare nella direzione opposta a quella «formazione dell'esecutore» specializzato cui tutti tendono. L’vunico punto di merito fra professori e una parte ampia degli studenti è la selezione. Che però è condivisa da una vasta minoranza degli studenti stessi! Però i docenti oggi sono piuttosto inerti sulle risorse e sull'efficienza organizzativa, che pure desiderano. Qui il personale non docente è più attivo.
...quale figura di riferimento?
Il quadro è nero e quindi non bisogna andare a cercare il marginale, bisogna sapersi legare alle situazioni più avanzate che sono il più alto livello del Capitale e rovesciarle. Se si ha presente una figura di riferimento allora questa è quella del Diploma, però non per dire «no al diploma», «no all’industrializzazione» – tanto dire sì o no non tange. Gli studenti lo vogliono, vogliono le istruzioni da seguire e da eseguire. Vogliono la razionalità strumentale; studiare col minimo sforzo avendo il massimo dei vantaggi sul mercato (questo ragionamento è tipico del proletariato). Lo vuole l’Impresa e questo basta. Però bisogna partire da questo che è il discorso della Didattica, non dalla Ricerca.
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