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Una terribile libertà. Recensione a «Per la critica della libertà»





Nessun discorso scatena tanti luoghi comuni, assurdità, abusi, come quello sulla libertà: è a partire da questa considerazione che comincia la lettura di Massimo Ilardi del libro di Gigi Roggero intitolato, non a caso, Per la critica della libertà. Frammenti di pensiero forte (collana Input di DeriveApprodi, 2023). Parlare di «terribile libertà» non significa attribuirle una connotazione negativa; significa invece affermare che la libertà non è un valore, sfugge cioè alle definizioni di buono e cattivo. Discutendo le ipotesi del volume, Ilardi solleva problemi e nodi critici che sono di grande importanza nel dibattito contemporaneo.


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Credo che nessun discorso scateni tanti luoghi comuni, assurdità, abusi, come quello sulla libertà. Il disagio di descriverla così come appare nel mondo, con i suoi atti e le sue pratiche, è all’origine delle incredibili acrobazie mentali che gli ideologues sono costretti a fare pur di non prendere atto di quello che essa realmente è nei tempi e nei luoghi del suo agire storico. Tutto ciò con la segreta speranza che inserirla nell’ambito di una nuova definizione possa mitigare la sua carica eversiva nei confronti dell’ordine vigente.

Non è questo il caso di Gigi Roggero e del suo pamphlet Per la critica della libertà. Frammenti di un pensiero forte (DeriveApprodi 2023). Anzi l’autore la definisce subito come la «terribile libertà». E non perché sia cattiva – la libertà, scrive a ragione Roggero non è né buona né cattiva: la libertà è soltanto la libertà ma perché «è assenza di un disegno divino, di un ordine morale, di una freccia della storia che corre verso un fine: un’apertura radicale del mondo, un campo di battaglia che ci pone di fronte alla più mostruose paure e alle più grandi possibilità».

Ma affermare che la «libertà è» presuppone anche la liberazione da un altro luogo comune: la libertà come atto del pensiero. Se ci si riferisce infatti, come di solito avviene, alla libertà del pensiero o dello spirito sarebbe impossibile dimostrarla: certo, non si potrebbe vivere negando questa idea ma senza l’esperienza del corpo, che decide a un certo punto di spezzare le catene e di andare senza impedimenti per il mondo, la libertà rimarrebbe solo una possibilità. Rimarrebbe in potenza. Dunque, solo il corpo può decidere per la libertà e renderla manifesta. La libertà allora non può essere solo un pensarsi libero, ma deve scaturire da una decisione per l’azione da parte di un soggetto che coglie l’occasione e compie nell’attimo l’esperienza della propria libertà nel mondo.

Ma ancora. Sostenere che la «libertà è» vuol dire molto di più, vuol dire che la libertà è la libertà, punto e basta, e che non ha nulla a che vedere con la democrazia, la giustizia, il lavoro, l’economia, la proprietà, la solidarietà, il capitalismo o il socialismo. Afferma Roggero, entrando però in contraddizione con quanto riportato all’inizio, che «la libertà è fin dalle origini, la materia centrale prodotta dal rapporto sociale capitalistico. Libertà della forza-lavoro di vendersi, libertà del capitale ad acquistarla» tanto che porta l’autore ad affermare che «nel capitalismo il problema principale è la libertà, non la sua mancanza». Ma il rapporto sociale di produzione, insieme con le altre categorie sopra elencate, sono invece gli stati di necessità da cui solo possono nascere sia il conflitto che le pratiche di libertà a esso legate e sono dettati appunto dalla potenza delle legge, dalla disciplina del lavoro, dalle regole del mercato, dal dominio delle relazioni sociali. Se la domanda di libertà venisse sganciata dal quotidiano e dalle necessità del presente, non potrebbe che porsi, come la pone Hannah Arendt che, nel suo caso, la aggancia ai principi dell’onore e della gloria, come momento straordinario, irruzione miracolosa, manifestazione improvvisa di eroismo rimanendo di fatto un approdo per pochi eletti.

La «libertà è» nella sua terribile autonomia, nella sua pratica, nella sua violenza, nella sua «apertura radicale al mondo». «Decisione partigiana» la chiama Roggero e che non ha nulla di universale. Asserisce Spinoza nell’Etica: «Si dice libera quella cosa, che esiste per sola necessità della sua natura, e si determina ad agire da sé sola: mentre necessaria, o piuttosto coatta, quella che è determinata da altro ad esistere ed operare secondo una certa e determinata ragione». In altre parole: se la mia libertà non finisce dove inizia la libertà dell’altro, sarebbe facile affermare che sto commettendo una ingiustizia ma sarebbe difficile negare che in questo modo metto in grado di aumentare la mia libertà. La libertà di me come individuo e che risulto tale solo nel momento del conflitto e della decisione per la libertà, e non come cittadino proprietario di capitale o forza-lavoro, o come dovrei risultare o, meglio, transitare nel processo ininterrotto di individuazione che si sprigionerebbe dal gioco delle continue trasformazioni, aperture, incontri, relazioni con l’ambiente. Nella frantumazione sociale del mondo contemporaneo, la questione della libertà diviene la questione del soggetto, del fondamento politico del soggetto. Se è vero, come afferma Roggero, che nella società capitalistica il corpo non è mai mio perché messo al lavoro, e se è altrettanto vero che la libertà è solo quella del mio corpo, allora il processo di demercificazione non può che transitare attraverso il mio corpo. Ma individualmente e non collettivamente come vorrebbe Roggero. La liberazione da qualcosa è certamente collettiva perché è organizzata da una parte, la stessa democrazia è uno strumento per governare la società, ma la libertà è solo individuale e con questo non voglio dire che non esistono la collettività e la società ma è per questo che democrazia e libertà non vanno mai d’accordo. Più c’è democrazia meno c’è libertà, scrive lo stesso autore.

Ma un’accusa arriva immediata: se è così allora vivremmo in un mondo dove tutti sono contro tutti! È vero, ma è proprio per combattere questa verità che in democrazia vengono create norme e regole attraverso il consenso dei cittadini. Il problema ovviamente non è questo, il problema è che una democrazia riduce la libertà allo stesso consenso che i cittadini esprimono a quelle regole che essi stessi si danno e, di conseguenza, la libertà viene fatta coincidere con la legge, l’autonomia con l’autorità. Di conseguenza, la società deve essere un progetto costruito in conformità alla razionalità delle leggi e dunque la libertà, quella vera, deve essere data agli individui perché solo così si possono comportare in maniera razionale. Costringere l’io empirico a un giusto disegno non sarebbe, per il saggio legislatore, tirannia ma liberazione.

In questo contesto problematico ma decisivo per la questione che si sta affrontando vorrei citare un passo che ritengo fondamentale nel libro di Gigi Roggero che, tra l’altro, mi perdonerà se non riesco ad affrontare tutte le questioni, e sono molte, che mette in campo:


Tronti ci ha insegnato che la libertà si può effettivamente esercitare se l’uomo libero riconosce l’autorità. Auctoritas è il contrario di potestas: solo la libertà che si riconosce nell’autorità può combattere e battere il potere. È un’autorità che non richiede il consenso perché collettiva, non personalizzata, diretta da un’aristocrazia. Non i migliori per nascita o per collocazione sociale, ma i migliori perché hanno deciso di costruire il destino di una parte. Basileia senza basileus, regno senza re. Questa è la comunità degli esseri umani liberi […] La libertà senza autorità e obbedienza è finzione, ideologia, discorso vuoto e tautologico. Gli uomini, individualmente, non sono in grado di sopportare la libertà: restano soli, cioè in compagnia del dominio. Perché la libertà […] non si conquista mai una volta per tutte si pratica […] È una prassi collettiva che ha bisogno di vincoli.

No, non di vincoli morali, quelli vanno rifiutati. Ha bisogno di vincoli che osiamo definire etici […] Più si è liberi individualmente, meno si è liberi collettivamente (p. 34).


Qui Roggero facendo coincidere autorità e libertà corre il rischio di appiattire la sua riflessione, nel migliore dei casi, proprio su quel regime democratico a cui giustamente non risparmia invece critiche per tutto il suo libro, ma, nel peggiore, di far precipitare il suo pensiero dentro la «volontà generale» di Rousseau, «uno dei più sinistri e formidabili nemici della libertà». E questo rischio lo corre proprio perché il suo obiettivo (legittimo) è che gli uomini siano liberi e nel contempo uniti in una collettività che però come tale ha bisogno per sopravvivere di sottomissione a vincoli e a disciplina. Se la libertà è una pratica, e sono d’accordo con lui, svincolata da ogni obbedienza come unica garanzia di non adesione, come è possibile praticarla, anzi come è possibile che sussista in una organizzazione dove deve necessariamente misurarsi dialetticamente e in ogni momento con una autorità seppure più assomigliante a un sodalizio che a un Leviatano? È una vecchia storia: l’opposizione tra ragione e vita c’è sempre stata, soprattutto se si pretende di trasferire nella vita la sintesi di una contraddizione dialettica che può agire solo sul terreno della razionalità logica. La libertà non è funzionale all’interno del sistema della dialettica: la dialettica può fornire solo spiegazioni relazionali, il suo sforzo è quello di funzionalizzare nel sistema ogni elemento soggettivo. Ma la dialettica fallisce di fronte alla domanda di libertà dimostrandosi incapace di comprenderla perché la libertà è esaltazione del contrasto contro qualsiasi autorità, è ricerca di un linguaggio non mediato dalle esigenze dell’ordine, è opposizione reale di elementi che rimangono non-mediati, irriducibili al piano della logica concreta e della necessità di un sistema o di una organizzazione, è rifiuto di integrarsi positivamente e attivamente nei loro processi di razionalizzazione. «La libertà – scrive l’autore – non come valore, diritto o condizione data una volta per tutte. La libertà come campo aperto di battaglia tra possibilità contrapposte» (p. 32). E allora, come si concilia un campo di battaglia con un’autorità costituita, seppure dal consenso, a cui si deve obbedienza? Come risolvere questa aporia?

È anche vero però che con la pratica della libertà ma senza organizzazione non si abbatte il sistema e non si conquista il potere come vorrebbe Roggero e non solo lui.

A questo punto, per sciogliere questo nodo, è necessario volgere lo sguardo altrove, ai conflitti sociali o, meglio, alle rivolte urbane degli ultimi decenni. Un pensiero critico non può non farlo per non diventare, come ammonisce Roggero, «argomento astratto, disincarnato, effimero». Non ho qui lo spazio sufficiente per una lunga analisi, mi preme solo sottolineare un dato che non può essere smentito, e cioè che nessuna rivolta urbana, da Los Angeles a Parigi da Genova a Londra, ha posto come obiettivo l’abbattimento del sistema. Anzi non ha proprio posto alcun obiettivo, né il lavoro, né la democrazia, né l’uguaglianza. In tutti i casi però ha occupato e liberamente attraversato il territorio della città, non assaltando il Palazzo d’Inverno ma saccheggiando negozi e supermercati. La pratica della libertà sembra avere oggi davanti a sé spazi infiniti stracolmi di merci, da consumare o da distruggere non fa differenza, dietro non ha nulla, oltre vede il vuoto. Territorio e merci: la materialità dei desideri è evidente e per di più questa scelta è stata conquistata con la forza. Qui il conflitto c’è stato, qui il politico si è mostrato, ma è mancata e tuttora manca la politica perché non ha ancora capito questo passaggio d’epoca: dai valori astratti e universali alla riconquista dei luoghi dove agisce una pratica della libertà che risponde sempre alle domande: chi? dove? quando? La libertà, dunque, reclama l’urgenza del presente e la rivolta lo rende visibile. E che cos’è il presente se non mondo e spazio? E non è forse la metropoli la condizione spaziale del nostro vivere quotidiano? Il frutto dell’azione rivoltosa è contenuto nell’azione stessa che è quella, appunto, di attraversare e occupare spazi contro le regole e le istituzioni del mercato che, per governarli, tendono invece a restringerli e a chiuderli. La politica ha saputo governare gli imperi; il mercato sta dimostrando che al massimo sa tenere ordinati i centri commerciali. Perché non far partire da qui, nell’immanenza più assoluta, una ricerca su una nuova teoria del conflitto e della soggettività? D’altra parte, la perdita trascendentale di teoria e prassi, ha detto Massimo Cacciari, sembra totale e definitiva.


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Thomas Berra


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Massimo Ilardi, sociologo urbano, responsabile scientifico della collana «Territori» per le edizioni Manifestolibri. Ha insegnato alle facoltà di architettura di Pescara (Università G. D’Annunzio) e di Ascoli Piceno (Università di Camerino). Ha diretto le riviste «Gomorra» e «Outlet». Tra le sue pubblicazioni: L’individuo in rivolta (Costa & Nolan,1995); Negli spazi vuoti della metropoli (Bollati Boringhieri, 1999); In nome della strada. Libertà e violenza (Meltemi 2002); Recinti urbani. Roma e i luoghi dell’abitare (con C. Cellamare, R. De Angelis, E. Scandurra, (manifestolibri, 2014); Il tempo del disincanto (manifestolibri 2016); Le due periferie. Il territorio e l’immaginario (DeriveApprodi, 2022).



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