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Un «mana» per la rivoluzione


Note a margine di Materialismo magico



Materialismo magico
Immagine di Veronica Marchio

Pubblichiamo una riflessione di Federico Battistutta su Materialismo magico. Magia e rivoluzione (DeriveApprodi 2023).


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0. Che cosa può legare tra loro la prestidigitazione da palcoscenico, l’epistemologia malgascia, i vignaioli biodinamici, il ready-made di Duchamp, la protagonista di un romanzo di Toni Morrison, i medici-stregoni Zande dell’Africa centrale e la sincronicità esplorata da C. G. Jung e W. Pauli? Sembrano cose tra loro stellarmente distanti (e in effetti lo sono), ma al contempo c’è un filo sottile che le attraversa, le agita e le rivitalizza. Questo filo lo chiamiamo Materialismo magico. Sto parlando del recente volume curato da Stefania Consigliere, uscito per DeriveApprodi, che reca appunto questo nome (il sottotitolo marca ulteriormente la ricerca: magia e rivoluzione). Si tratta, è bene sottolinearlo, di un volume collettivo, a testimonianza della necessità di un’esplorazione che richiede un respiro ampio, in grado di calpestare campi del sapere differenti, la cui ariosità può innescare evocazioni e risonanze oltrepassando gli angusti confini delle enclosures mentali acquisite. Si tratta di contributi di spessore diverso che spaziano in molti ambiti, dagli studi antropologici (qui l’ontological turn gioca un ruolo fondamentale), alla filosofia, dalla teoria dell’arte e della letteratura alla cultura materiale[1].

Di primo acchito l’espressione materialismo magico può stordire e suonare come un ossimoro, in quanto l’addomesticamento scolastico, i cliché mentali insieme ai vocabolari inducono a considerare incompatibili fra loro i due termini. Cinque secoli di sviluppo tecnico-scientifico e di successivo illuminismo non sono trascorsi invano. Fertile pertanto è l’ampliamento dello sguardo e l’invito ad abitare il mondo molteplice offerto da questo volume, che ben si colloca in quella ricerca teorica e pratica (quindi politica) che mira a smontare le grevi tessere che compongono il realismo capitalista in cui viviamo con le sue tristi e funeste passioni. Parliamo di un mondo molteplice in cui declinare al plurale diviene esercizio quotidiano, dove incanto, disincanto e reincanto s’intrecciano attraverso reciproci rilanci, dove neo-materialismo e neo-animismo effettuano prove di ascolto e di dialogo.

Un libro fonte di ispirazione e cospirazione. Detto ciò, quanto segue non vuol essere altro che un assemblaggio di note di lettura su alcuni snodi del testo, amplificando alcuni punti e congetturando eventuali piste di approfondimento: tra le molte possibili, riuscirò a toccare tre questioni: una epistemologica, un’altra genealogica e la terza schiettamente politica.


1. Abitualmente siamo soliti adoperare i verbi «conoscere» e «sapere» come interscambiabili fra loro e va bene così; però è interessante osservare come originariamente le due parole avessero significati affini ma distinti, tali da designare due differenti procedure cognitive: cognoscĕre e sapĕre. Il primo termine, formato da cum più gnosis rinvia al greco noûs, che indica l’apprendimento conoscitivo della mente, l’atto intellettuale per eccellenza contrapposto alla mera sensibilità. Viceversa il latino sapĕre ha un’origine etimologica strana, imparentata con la parola sapore e sta a significare sia l’esser sapiente ma anche l’aver sapore delle cose, un rapporto sensibile col mondo, l’assaporare come fonte sia di piacere fisico che di sapienza.

Diciamo allora che Materialismo magico si colloca dalla parte del sapere, non per formulare un ulteriore modello dicotomico (cognoscĕre vs. sapĕre) in aggiunta a quelli già operanti, ma, al contrario, introduce a un percorso in cui i due possano abbracciarsi, dove l’elaborazione intellettuale, astratta si nutre dell’esperienza, dell’apprendimento concreto, sensibile e sensuale. Una sapienza, quindi, partorita dall’affinamento dei sensi, da quella qualità del sentire che può schiudere davvero ciò che William Blake – artista, mistico e rivoluzionario – chiamava le «porte della percezione».

Dentro questo discorso merita almeno un cenno la riflessione sulle parole per dire l’esperienza di un materialismo magico: come tradurre gli effetti e gli affetti di questa esperienza che sappiano mantenere desta l’apertura e la tensione restando comunque comprensibili? Il rinnovamento linguistico non può non affiancare quello cognitivo, pena uno snaturamento comunicativo. Quale poietiké téchne? Entriamo in un campo che sarebbe alquanto riduttivo ritenere di competenza esclusiva dei poeti e degli artisti, perché non sono solo i poeti e gli artisti a doversi avvalere di questo esercizio inventivo: appartiene a tutti, a tutti quelli che, in qualche modo, ne avvertono fino in fondo la necessità. Qui davvero i limiti del linguaggio sono anche i limiti del mondo.

Viene allora alla mente Jakob Böhme, il mistico-filosofo-ciabattino del Cinquecento apprezzato da Marx («il ciabattino Jakob Böhme era un grande filosofo, molti filosofi sono solo grandi ciabattini«) e amato da Ernst Bloch («ha un’immagine della natura totalmente qualitativa»). Egli parlava della messa in campo di un nuovo idioma, un «linguaggio sensuale», «specchio limpido dei nostri sensi», un linguaggio della natura condiviso con gli altri animali.

Questo diceva Böhme e su ciò non azzardiamo più di tanto, dentro un tale rinnovamento linguistico e comunicativo probabilmente ci troviamo ancora balbettanti, muoviamo i primi passi, dobbiamo per questo ingegnarci, tentare e osare. Con le parole di un grande vecchio: bisognerà ancora parlare molto fino al momento in cui i fatti consentiranno una buona volta di tacere.


2. Sarebbe errato descrivere il materialismo magico come un prodotto della condizione post-moderna, autosussistente, privo di agganci col passato. Lo sappiamo, ogni epoca, anche l’attuale, che la si chiami post-moderna o altro, non nasce ex nihilo (come indica fra l’altro la stessa espressione «post-moderno»), ma si trova imparentata, con tutte le possibili ramificazioni, con i tempi vicini o lontani che l’hanno preceduta. Giustamente gli autori e le autrici del libro indicano parentele dirette o acquisite, a sottolineare come nel mondo occidentale covino, latenti, pratiche e narrazioni differenti dalla prosa corrente a cui siamo stati abituati. A cominciare dalla physis dell’antica sapienza greca, che noi sbrigativamente chiamiamo natura, ma che indicava qualcosa di più grande, la totalità delle cose esistenti, ciò da cui ogni cosa viene, ciò in cui ogni cosa finisce, ciò che è e sussiste, coincidente con il divino in quanto non generata da nulla. Quella physis che poi Spinoza descrisse nei termini di Deus sive natura, facendo ammattire tanto i teologi (il Dio di Spinoza non è il Dio dei teologi) che i naturalisti (la sua natura ha poco in comune con quella dei naturalisti).

Verrebbe utile a questo proposito ipotizzare la costruzione di una genealogia del sapere materialista e magico, in grado di dissotterrare ciò che Foucault chiamava i «saperi sepolti e assoggettati». Molto, infatti, ci sarebbe da far emergere. Interessanti sono ad esempio le pagine di Materialismo magico dedicate agli scritti esoterici di Newton che smentiscono l’immagine dello scienziato freddo e razionalista, laddove poteva coabitare in lui un labirinto di logiche fra loro incommensurabili. Già si sapeva di Galileo e Keplero studiosi di astronomia e astrologia, a mostrare che in quell’epoca – ricordiamolo: il periodo della rivoluzione scientifica – di saperi magici erano in molti a interessarsi, non solo i vari Giordano Bruno, Paracelso o Böhme.

Da questo punto di vista meriterebbe anche sfatare il mito dell’âge des lumières, mostrando come in quel periodo, sempre in Francia, prendevano corpo quelli che sono stati chiamati gli «altri lumi», a cui ci si riferisce col termine «illuminatismo», un sapere eterodosso, esoterico e misterico il quale si è trovato in più di un’occasione intrecciato con l’illuminismo in un rapporto vitale di complementarietà.

Dentro questa genealogia del sapere materialista e magico è fertile imbattersi in Marx (fra gli autori più citati nel libro). Si tratta di un Marx ben lontano dalla decrepita versione Diamat o da quelle comunque riguardanti una supposta oggettività scientifica marxiana. Al contrario viene alla luce qui il Marx dell’utopia concreta, colui che parlava di resurrezione della natura e dell’umano, dentro una dinamica continua di naturalizzazione dell’umano e di umanizzazione della natura; quel processo nel quale Ernst Bloch ravviserà le tracce dei messaggi visionari di Böhme e di Franz von Baader. Un Marx che intrattiene un rapporto assai articolato con la religione e l’ateismo, le cui posizioni sono invece spesso superficialmente accostate a Feuerbach e ai giovani hegeliani. L’ateismo viene letteralmente definito da Marx come l’ultimo grado del teismo, l’ammissione di Dio per mezzo della sua negazione. Ponendo in stretta relazione alienazione religiosa e alienazione sociale ed economica Marx apre a una prospettiva differente: l’autoposizione dell’essere umano non attraverso la negazione, ma dentro una relazione affermativa e produttiva con i propri simili e con la natura, al di là di tutte le religioni, ma inverando la dimensione liberatrice, profetica e sovversiva in esse latenti (sul non-più-ateismo di Marx ha scritto pagine importanti Luciano Parinetto, un autore oggi poco valorizzato).


3. Ma fra tutte, la domanda più ardente è questa: come coniugare magia e rivoluzione? Detto altrimenti, come calare nella nostra vita quotidiana di refusenik (riprendendo un termine usato da Stefania Consigliere) questo binomio al punto da abitare un progetto e una pratica politica (e, per dirla tutta, una critica - al tempo stesso - della politica come attività parcellizzata)? È una questione che merita porre con una certa urgenza, avvicinando le parole alle cose e all’agire. A ben guardare è un tema che si intreccia con le riflessioni che in questi anni si stanno provando a elaborare e a sperimentare in diverse latitudini, a testimonianza di come i motivi che attraversano Materialismo magico risuonano e sanno contaminarsi fin d’ora. Quanto segue è poco più di un elenco disordinato su cui sarà necessario ritornare.

La «militanza gioiosa» di Silvia Federici è molto prossima ai temi presenti nel libro. È gioiosa questa militanza perché sa essere curativa e costruttiva già nel presente, ponendo al centro della pratica politica proprio l’espressività del corpo: un corpo capace di espandersi, andando oltre i margini della pelle, in una continuità magica con gli altri viventi; un corpo che desidera ricomporre ciò che il capitalismo divide, seguendo l’armonia nascosta del cosmo, in un processo dove la diversità è una risorsa e un bene per tutti e tutte, per reincantare sé stessi e reincantare il mondo.

Anche l’«attivismo spirituale» di Gloria Anzaldua è in sintonia col binomio magia/rivoluzione. Il termine descrive una spiritualità volta a una radicale trasformazione sociale, basata anche qui sull’ascolto attento, presente e curativo del corpo; quindi una spiritualità fondamentalmente incorporata che attraverso ciò sa riconoscere la ragnatela di interconnessione tra i viventi, orientata da un’epistemologia e un’etica visionarie, verso un nuovo tribalismo planetario.

Dentro al materialismo magico possiamo collocare anche l’ultimo Mark Fisher con il suo «acid communism» come risposta al realismo capitalista impostosi attraverso una strategia mirata alla distruzione delle forme di consapevolezza emerse dalle lotte negli anni ’60 e ’70 (lui ne cita tre: coscienza di classe, coscienza femminista, coscienza psichedelica). Proprio quest’ultima - la coscienza psichedelica – evidenziando la plasticità del reale, permette di denunciare la realtà presente come provvisoria, null’altro che una costruzione tra le tante, confutando alla radice l’asfissiante imperativo del «there is no alternative».

Anche Paul B. Preciado ha qualcosa da dire su una pratica politica collocata tra magia e rivoluzione. Per Preciado rivoluzione è il crollo dell’universo semiotico esistente per dare vita a una riorganizzazione dei corpi (corpi altrimenti mineralizzati, vegetalizzati, animalizzati, femminilizzati, razzializzati…). Ma rivoluzione è così anche il momento di dismissione della nozione di soggetto politico, con le implicazioni identitarie che si reca appresso, agendo invece per processi (e non più per soggetti) attraverso i quali un corpo vivente e vulnerabile si tramuta in simbionte politico (in biologia un simbionte è un corpo preso in una relazione simbiotica con altri organismi al fine di sopravvivere) per dare corso a nuove alleanze fra i viventi.

Infine pure un autore come Bayo Akomolafe è sulle corde per una politica dislocata tra rivoluzione e magia. Egli parla di un post-activism che non allude a un «dopo» nel senso di un’evoluzione lineare secondo i criteri del progresso, né significa l’abbandono di quanto l’attivismo è faticosamente impegnato a fare, ma è un invito a saper sostare e riformulare le domande, provando a pensare al di là dei nostri confini immediati e ben visibili, per avanzare proposte che non replichino i paradigmi della modernità con le sue aberrazioni, ma per interrogarsi se l’agentività, il fare-mondo risieda solo e soltanto in noi umani.


4. Per finire. Come già detto, sono note disordinate di lettura, queste, su questioni che richiederanno la costruzione di più ampi spazi e tempi di elaborazione e condivisione in grado di toccare e provocare pratiche e saperi differenti. Un mana per la rivoluzione, dunque? Perché no, riprendiamo pure questo termine (tradotto come «forza vitale», «forza sovrannaturale», «potere spirituale», «efficacia simbolica») usato dagli antropologi per riferirsi a lontane pratiche magiche. Facciamo pure tutto ciò e altro ancora, ma senza culto per l’esotismo e le stravaganze; ciò che conta alla fine è saperlo declinare al presente, animando le urgenze, i bisogni e i desideri di trasformazione che soggiornano inquieti dentro questi tempi incerti in cui ci tocca vivere.



Note [1] Gli autori sono Daniele Balicco, Ilaria Bussoni, Arianna Colombo, Claire Fontaine, David Graeber, Federico Rahola, Michael Taussig, oltre ovviamente Stefania Consigliere.


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Federico Battistutta si occupa per lo più di questioni di frontiera riguardanti il religioso contemporaneo (prospettive post-teiste e post-religiose, dialogo interculturale e interreligioso, ecosofia ed ecoteologia, teologie di genere e queer, stati modificati di coscienza ecc.). Collabora a riviste di settore e a volumi collettanei italiani e stranieri. Ha pubblicato alcuni libri e diretto un paio di riviste.

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