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Un’idea di libertà. San Vittore ’79 – Rebibbia ’82


Disegno di Alberto Magnaghi
Disegno di Alberto Magnaghi

Proponiamo due capitoli del diario dal carcere di Alberto Magnaghi Un’idea di libertà. San Vittore ’79 – Rebibbia ’82, pubblicato da DeriveApprodi nel 2014.


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La piazza del tempo 19 dicembre 1980 – Rebibbia, Reparto G7, sezione speciale

Quando la metamorfosi è avvenuta, la misura del tempo si rifonda. Il suo scorrere si sintonizza sulle identità cresciute dentro le mura. Ma non integralmente: la nuova scansione del tempo assume la forma di un crocevia tortuoso e congestionato di diverse misure: – il tempo degli eventi – esterni – riferimento per ciascuno nella memoria, nel desiderio, nel progetto; – il tempo ridefinito da ciascuno – individuale e collettivo – nel tempo vuoto della metamorfosi. Viviamo in una grande piazza del tempo: una piazza in movimento, un crocevia che modifica la sua posizione in ogni istante. Il punto d’impatto delle due misure (e di percezione di esso) si desitua senza sosta, determina in ogni istante una particolare coordinata di una curva dall’andamento bizzarro e imprevedibile. Imprevedibile, ma greve: allontanandosi la realtà esterna nella percezione sensibile, procedendo la mutazione, la piazza del tempo – nel suo procedere inquieto in molte direzioni – precipita dal «sociale» verso la comunità interna: essa si fa, sempre più corposamente e autorevolmente, misura del tempo esterno e dei suoi eventi. È vero: questo intreccio di universi temporali si dà in ogni percorso di identificazione drammatica con le regole di una comunità; ma, in carcere, esso si evidenzia in modo forzoso e dirompente; una stella cadente che si sovrappone all’immagine del tempo sociale esterno fin quasi ad annullarla. Non colgo una legge generale di questo percorso, scandibile in giorni, lune, anni solari, anni giudiziari. Ciascuno di noi in questa piazza deforma il tempo in relazione alla propria storia e al modo in cui essa filtra, si compenetra, si dirada, si stravolge e muta nel percorrere il tempo carcerario. Mille misure, non due – una interna, l’altra esterna – attraversano la piazza del tempo. Alcuni, solidamente piantali nel prolungamento dei propri valori, dilatano il «tempo sociale» anche per anni; altri, privi di questo sostegno immaginario, o meno propensi a coltivarlo, bruciano la misura esterna del tempo in pochi giorni. Un raggio di un carcere, la cui composizione è mutevole, in parte casuale, differenziata per percorsi e tempi della mutazione, è un crocevia brulicante di traffici, linguaggi, monete e misure del tempo non comunicanti. Eppure cresce in questa babele un problema della comunicazione e della comunità; c’è un impercettibile cammino di ciascuno, un quotidiano darsi da fare per restituire a questo crocevia informe la dimensione e l’architettura di una piazza: la piazza del tempo dove i percorsi si incontrano nel linguaggio della mutazione dei sensi e sedimentano storia. La piazza del tempo non è progettata: essa si plasma attraverso l’intrecciarsi di sguardi tesi a distruggere il tempo vuoto dell’annientamento. Un’idea di libertà Cerchiamo di appropriarci di una misura soggettiva del tempo vuoto; cerchiamo di renderla commensurabile con le altre nel collettivo. Questa tensione a rompere l’attesa e a vivere un presente possibile, trasforma in noi l’idea e la pratica di libertà. Che cosa residua la metamorfosi? Viviamo in uno spazio annullato, in un tempo vuoto: di qui è necessario partire, di qui si sviluppa la contraddizione tra uno spaziotempo sottratto e il bisogno – biologico affettivo, simbolico, culturale – di segnare uno spaziotempo locale; di dare forma a gesti espropriati: di localizzare il corpo, le regole, la comunicazione, i sentimenti in una comunità. Accettare il tempo vuoto. Accettare la caduta di informazione di uno spazio astratto. Di qui ricostruire i muri di cinta del proprio territorio. Accettare il tempo vuoto: una spoliazione necessaria per accedere alla costituzione del tempo proprio. Dall’interno di questo tempo ricostruito autonomamente, si pone, allora, il problema della dissoluzione dell’istituzione e dei suoi confini.

Allontanamento, dissoluzione del senso, non simbiotica distruzione.

La distruzione è un atto sostitutivo; la dissoluzione è un atto rifondativo di valore. Il carcere è essenzialmente un sistema di confini: muri, sbarre, reti, porte, percorsi obbligati, divise, gesti rituali, sequenze prestabilite che organizzano le leggi di un sistema di vita: l’istituzione totale.

Questi confini che materializzano barriere concettuali e violenza sui corpi, producono la metamorfosi. Le barriere sono inizialmente agenti di spoliazione: sottraggono atti, movimenti, tempi, relazioni, identità. Progressivamente divengono introiezione di un confine invalicabile alla percezione, al di fuori del quale esiste un mondo percepito unicamente con la memoria, un paesaggio storico: i visitatori che sfilano nelle sale colloqui, con cui scambiamo abbracci ed emozioni ne rappresentano i monumenti. Ormai i muri di cinta sono i confini invalicabili del cielo in una notte stellata; il paesaggio percorribile è il sentiero dei camosci.

Dobbiamo smettere di sbattere la testa contro il muro.

Riconoscere dentro di sé l’identità connessa intimamente con questa dimensione «naturalizzata» dei confini (il muro di cinta come orizzonte, dove tramonta il sole). Il muro come regola di un discorso fra tanti possibili, confine fra i tanti che definiscono una condizione esistenziale. Confine nazionale, linguistico, di classe, di sesso, di comunità, di codice: identità date di cui prendere coscienza. Riconoscere in noi la trasformazione del muro da barriera coattiva a confine dell’esperienza sensibile, non significa rassegnazione, adattamento, fine della ribellione, della speranza di valicare il muro. Significa soltanto non accettare l’annientamento del tempo presente; liberare e far vivere i bisogni di una comunità nel tempo presente; costruire la sua autonomia dal tempo di attesa, dal tempo di coazione; far fluire le condizioni per l’inizio di una storia. Quando la barriera, divenuta confine, si allontana, è l’inizio della ricerca del campo di libertà dell’esperienza, dei possibili percorsi di autodeterminazione della vita quotidiana, nel tempo vuoto che l’istituzione organizza come tempo di parcheggio dei corpi e di annientamento della persona. Da un tempo vuoto di funzioni possono nascere bisogni ricchi, siamo oltre i confini del tempo funzionale al lavoro. Per sua natura il tempo del carcere non è misurato sulla produzione, il detenuto non è misurato sulla produttività, ma unicamente sul suo grado di sottomissione alla barriera. Al di qua della conflittualità che si svolge a ridosso della barriera nell’estenuante contrattazione dei suoi confini, nel tempo svuotato da ogni funzione, la struttura non chiede e non impone di fare nulla. Il tempo deve trascorrere come assenza. Il carcere funziona bene – a differenza di altri luoghi funzionali – quando non succede nulla; ogni avvenimento è sintomo di qualche disturbo o interferenza nel buon funzionamento della macchina. Un buon direttore deve saper regolare allo stato puro la sopravvivenza animale dei detenuti. Una volta fissate le regole di questa riproduzione – assente ogni finalità diversa: rieducazione, reinserimento sociale, ecc. – nessun altro patto associativo regola il tempo vuoto del detenuto. Il tempo vuoto è delegato ai soggetti che lo vivono. Il tempo vuoto, come nella cassa integrazione guadagni, come nella disoccupazione, crea panico, disadattamento. Può consolidarsi come tempo angoscioso di attesa, o essere occultato con altre funzioni: lavoro, studio, processi, politica, progetti di evasioni, ecc. Più difficile, forse, accettarne la dimensione reale, ribaltarne il senso, senza occultamenti; paradossalmente viverne la vuotezza come occasione di ricerca di percorsi di libertà. Produrre attività che nascono da bisogni interni: Abolizione del denaro. Lo scambio come dono. Le festività costruite e consacrate dal collettivo. Le relazioni creative attivate oltre la solidarietà da sopravvivenza. La regola del collettivo, crisalide della sua identità. In questo universo ogni giornata è un vuoto che può essere contemplato, occultato o vissuto. Nessuno ci aiuta a viverlo, nessuno ci propone qualcosa da fare, qualche dovere da assolvere, qualche atto da compiere. Siamo liberi da ogni funzione! Il senso di oppressione che in noi – animali produttivi del nostro tempo – procura questa libertà, diviene sovente alibi per non produrre storia, identificarci con il lamento e con l’odio, riversare sulla struttura l’incapacità individuale o collettiva di vivere il tempo vuoto. Liberi da ogni funzione! La mutazione: dare agli scambi aleatori e casuali fra le persone il significato di una costruzione, la trama di una storia. Ciò che appare è la barriera, con le sue leggi, i suoi rituali, i suoi codici; ciò che esiste, che per noi si costruisce come storia nel presente, sono i faticosi, lenti e continuamente interrotti percorsi di autodeterminazione del tempo vuoto, a partire dalla metamorfosi dei corpi senza spazio e senza tempo. Ma questo riappropriarsi del tempo è ancora allusivo. La percezione di nuove libertà, di rapporti solidali, comunitari, di altre creatività, è un suggestivo orizzonte continuamente oscurato da una barriera che, nella sua greve, idiota, ossessiva presenza, riusciamo solo per brevi periodi a trasformare in confine mutante del mondo.

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I carcerati plasmano l’istituzione 8 febbraio 1981 – Rebibbia, Reparto G7, sezione speciale

Nei percorsi carcerari, nella «piazza del tempo» molte sono le diverse forme di allontanamento dalla barriera, di ricostruzione dell’identità: ma l’allontanamento è intermittente, oscillante; forze attrattive ci sospingono continuamente verso la barriera. I pestaggi dei compagni al G7, le pozze di sangue nei corridoi, le proteste, le strumentalizzazioni dei combattenti (ma già la vicenda di Trani aveva lasciato il segno, soprattutto fra i detenuti «comuni»); tutto ciò ci fa sentire le difficoltà di mantenere la rotta. Il timido momento intuitivo della nostra piccola comunità è stato travolto da forze attrattive – da opposti versanti – verso la barriera. Rieccoci a riconoscersi come collettivo solo attraverso l’impatto con la struttura repressiva, unica misura del tempo, finalizzato a strategie di guerra e unica misura della nostra identità. L’esistenza del nemico come condizione per agire. A volte, come questa, lo scontro è deciso unilateralmente dalla struttura repressiva, altre dai detenuti, a volte da entrambe le parti in una simbiosi funzionale alle regole del gioco di guerra. Ma sul lungo periodo la forma dei rapporti interni fra detenuti e istituzione è plasmata dai comportamenti dominanti dei detenuti. La struttura di controllo – ferma restando la sua funzione – si organizza, educa i suoi uomini, attrezza e propri meccanismi in risposta alla cultura e ai comportamenti che la popolazione carceraria esprime. I carcerati fondano il linguaggio della macchina di controllo. Come gli operai, in fabbrica. Il percorso di allontanamento dalla barriera è lungo e tortuoso: occorrono lunghi periodi di pratica collettiva per produrre effetti sul comportamento della struttura. D’altra parte la forma di allontanamento che intravediamo è solo una fra quelle possibili: le molte forme, diverse e contraddittorie che si danno, nel contempo si stratificano, producendo risultati che condizionano per tutti l’uso del tempo, le scadenze, le forme di vita, le forme di repressione. Ciascuno di noi è in ogni momento attraversato da questa pluralità di universi reattivi e di comportamento. La vita quotidiana è risultato dalla casualità di questo intreccio.

Le mille arti di allontanamento dalla barriera

Fra le mille, ne racconto alcune fra quelle che hanno intrecciato la mia vita carceraria.

Autodeterminazione dei confini, costruzione della comunità

E la forma di cui racconto in questo diario e che cerco, con la mia comunità, di praticare. Una definizione possibile: un «allontanamento», psicologico e materiale, dal concetto di barriera, di coazione; pratica di autodeterminazione, nello spaziotempo vuoto, delle attività, delle relazioni fra i soggetti, fondative di valori comunitari e di forme creative del quotidiano e della conoscenza. Ridisegnamo la barriera: lo scenario e le quinte rappresentano confini naturali. Addobbiamo le guardie da «guardiani del tempio». Immaginiamo la direzione del carcere come struttura di un processo di rifondazione (la rieducazione – nelle carceri italiane – è concetto più utopico!). Ridefiniamo il corpo, i sentimenti, le relazioni, a partire dalla metamorfosi dei sensi, all’interno di questo universo della percezione, allontanando sullo sfondo il tempo-attesa, il tempo-politica, il tempo-processo, il tempo produttivo della metropoli. La deriva carceraria diviene costruzione attiva di distanza, la maggiore possibile, dalla struttura: «coesistenza antagonistica» con essa, tesa alla dissoluzione di senso dei suoi confini. Questo percorso non significa accettazione, adattamento, riduzione del desiderio di libertà; né la perdita di consapevolezza che il carcere è una barbarie da abolire. Significa finalizzare il desiderio di libertà e la conflittualità alla crescita dei bisogni dei soggetti nel loro percorso di autodeterminazione, nel loro darsi, nel presente, come innovazione, come trasformazione. L’azione, non è inizialmente rivendicativa; è fondativa della comunità; poi la comunità dovrà difendere il proprio spazio e rivendicare i bisogni che la sostanziano. Poiché il «vuoto» non è subìto come tale, ma è ridisegnato dalle regole della comunità, il «pieno» che vi edifichiamo ciò che dà forma ai rapporti con la struttura. La struttura svuotata dalle sue funzioni. Le guardie sono semafori. I muri sono montagne senza vegetazione, oltre il deserto.

Quest’arte di allontanamento è instabile, debole, sospinta da ogni parte al ridursi a forme esteriori di conflittualità e a forme codificate di esistenza. Lo sviluppo di questo percorso soggettivo richiede l’espansione di forme di creatività della vita quotidiana, fondanti nuovi valori e nuovi bisogni. La struttura allora, addestrata a gestire un rapporto – prevalentemente militare – di annientamento e controllo, comincerà a rivelarsi un ferrovecchio inutilizzabile. (D’altra parte: la riforma carceraria è stata disattesa non solo per le resistenze burocratiche, le controtendenze dei governi della restaurazione; ma anche per la «resistenza» della popolazione carceraria a trasformare i valori tradizionali della coazione – «coatteria» –, valori strettamente simbiotici – in quanto valori di guerra – con le forme date del controllo!). Non siamo ancora in una fase di espansione di quest’arte di allontanamento. Pesanti forze magnetiche rendono continuamente eccentrico questo percorso.

La malattia, il taglio, il tentato suicidio, lo sciopero della fame, la simulazione della pazzia, la pazzia

L’elenco accomuna coloro che, rifiutando in blocco e individualmente il tempo e la forma della detenzione, fanno violenza su di sé, esprimono attraverso di essa protesta o disperazione. Non riesco a staccarmi dall’impatto con la barriera che domina e annienta la mia vita quotidiana, né riesco o intendo rovesciare violenza su di essa. Qui il confine fra simulazione e realtà è molto labile: la violenza che opero su di me, anche se razionalmente programmata e non subita, è in ogni caso reale. Sovente ho visto simulare la pazzia: ma il costo umano di questa simulazione, in una cella, é così alto che occorre aver perso la ragione per reggerlo. Non tutti si tagliano le vene per morire: sovente perché non trovano un altro modo per far venire un medico; i corpi martoriati dalle cicatrici che passeggiano all’aria, danno il senso di una contrattualità disperata. Ogni giornata di carcere è segnata da atti di rifiuto individuale; le strisce di sangue sulle scale accompagnano la nostra ricerca di una contrattualità collettiva. Ogni giorno qualcuno, dalla sua solitudine profonda, ci ricorda, anche se ci sforziamo per qualche ora di dimenticarlo, dove sono situati i nostri corpi. Questo stillicidio puntiforme di angosce individuali, segna il tempo, scandisce le sequenze interne. Esso induce un forte movimento attrattivo verso la barriera quando diviene unica dimensione percepita, ossessiva – l’avvenimento – del vissuto collettivo. Chiunque usa violenza contro se stesso, apre una ferita in ogni cella. In galera le ferite si rimarginano più lentamente. La simbiosi con l’istituzione, nelle forme più dirette di autolesionismo è totale: fra linguaggi di violenza ci si intende.

Dialogo a «Villa Paradiso» (celle di punizione di Regina Coeli, 29.9.80): Detenuto, dallo spioncino: Guardia mi taglio! Guardia, dal corridoio: Aspetta le quattro, che smonto.

La politica, il clan, le strutture di potere interno

Il gruppo, il clan, la banda: strumenti efficaci per la costruzione di una storia interna, e per l’occultamento della barriera. Tra i politici: in questa fase che ha residuato nelle carceri la generazione della «lotta armata», la continuità politica assume la forma prevalentemente del rovesciamento della violenza subìta dalla barriera contro la barriera stessa; finalizzando questo rovesciamento a progetti di militarizzazione dello scontro nelle carceri. Ogni obiettivo o rivendicazione sulla condizione materiale dei detenuti (i «proletari prigionieri») è utilizzabile – data la permanente tensione – per lo sviluppo di dinamiche di rivolta e di militarizzazione dei rapporti. In questa forma di allontanamento dello spaziotempo vuoto mantengo la mia identità: attraverso il riconoscimento storico-politico dei motivi della carcerazione, l’organizzazione restituisce senso e legittimità al mio tempo carcerario, come tempo di lavoro politico. La vita quotidiana del «combattente» carcerato non è molto dissimile dalla vita esterna in clandestinità. La sofferenza della coazione rinsalda l’odio contro i persecutori e rassicura l’identità di «avanguardia» del proletariato. Il partito del proletariato ci libererà. Come nella migliore tradizione dei prigionieri politici. Al tempo neutro, amorfo, della detenzione, contrapponiamo un tempo scandito dalle tappe e dagli eventi del progetto politico esterno. Rispetto a esso ciascuno misura e consolida la propria identità e distrugge il tempo vuoto dell’annientamento. Lo spazio-tempo vuoto non è attraversato in profondità: è aggirato, utilizzato, semplificato nella sublimazione delle singole identità nel «politico». Ogni elemento di crisi che sfugge a questa sublimazione «deve» riguardare l’individuo e il suo «privato», non è socializzato; dunque non determina trasformazioni collettive. La barriera è solo apparentemente allontanata, anzi è condizione per dare senso allo scontro. Un campo di battaglia: luogo dell’azione, non dell’essere. Sul campo di battaglia si è vincolati – non c’è spazio per problemi esistenziali – ma anche sostenuti: si evitano cadute di identità, si vinca o meno.

Analoghe arti di allontanamento della barriera sono praticate dai detenuti comuni (bande, clan, associazioni, ecc.): mutano soltanto le finalità del progetto, le regole interne, i codici di comportamento. Queste forme di occultamento della barriera e di riappropriazione del tempo carcerario sono – in particolare per i politici –, le più alte finché il rapporto di continuità organizzativa e progettuale con l’esterno resta prevalente. Il riconoscimento di sé nella continuità organizzativa risulta sicuramente più produttivo e creativo della crisi/trasformazione dei valori e dei comportamenti. Il carcere è un semplice incidente di percorso. Ma in tempi come i nostri – radicale chiusura di un ciclo politico e ricerca di nuove forme dell’azione sociale – il «continuismo» delle identità rischia di divenire riduzione della conoscenza.

La violenza spontanea

Esplosione dello scontro con la barriera: effetto dell’accumularsi di fattori quotidiani di crisi. La rivolta si addensa come il temporale: ma non ci sono satelliti a prevederne i tempi, l’intensità, i vettori di propagazione.

In questa esplosione si esasperano e ribollono i comportamenti del proletariato metropolitano, le sue regole, i suoi codici fondati sulla materialità del rapporto di forza e sulla violenza, sulla marginalità e sull’esclusione. Il dialogo, la contrattualità sono orizzonti sconosciuti o temuti. Il carcere è prolungamento del rapporto di coazione, esclusione, violenza vissuti nel ghetto della metropoli. Il raggio del carcere riproduce le regole, i codici, i comportamenti i valori del quartiere. Una realtà culturale «naturalmente» trasferita nel carcere – domicilio per molti intermittente con il quartiere, alcuni hanno una cella fissa, come una seconda casa – ma senza strategie, senza progetto. Ma è tempo di attesa; tempo di annientamento; tempo di odio; tempo di tensione; di esplosione. Un tempo elettrico che si addensa e si scarica con fragore.

Il carcere come miglioramento delle condizioni materiali di vita

Qui l’arte di allontanamento della barriera è evidente: vivere – come per gli anziani, d’agosto negli ospedali o nei supermercati

– il tempo carcerario come soluzione temporanea della propria riproduzione. Atteggiamento di pochi, ormai, nella società postindustriale: tuttavia esiste ancora. Quando la vita fuori è così grama, che garantirsi i pasti, un letto, amici, giochi e meno botte del solito non è così indesiderabile e drammatico. Ho conosciuto un ragazzo che non ha richiesto la libertà per scadenza dei termini. Voglio restare ancora qualche mese a far compagnia ai miei amici.

Il carcere come tempo di produzione

L’arte di allontanamento si definisce in questi casi – non molto insoliti – come uso del tempo vuoto per il proseguimento di una attività esterna, generalmente extralegale. Il carcere come piazza del mercato. Il carcere come tempo di circolazione del capitale. Il carcere come luogo di acquisizione di nuovi mercati. Il carcere come luogo di selezione e reclutamento di personale per l’impresa. Questi «cavalieri del lavoro» non hanno crisi di identità, o le superano – quotidianamente – abbastanza facilmente. Attraversano e possiedono la galera con lo sguardo brillante e furbo del mercante.

Il carcere come tempo di progetto della libertà

Il sogno di evasione: si assommano diverse componenti descritte nelle prime tre arti. Lo spazio-tempo è vissuto come attesa strategica, come preparazione tecnica – vincere tecnicamente la barriera! – conto alla rovescia rispetto al momento che cambierà il mondo. Tutta la vita quotidiana – rapporti con gli altri detenuti, con la gerarchia, forme di comportamento – è freddamente subordinata, organizzata, vissuta emotivamente in relazione al progetto di liberazione. Il progetto – la proiezione: desiderio della battaglia – dà senso alla quotidianità; annulla il tempo subìto in sua sospensione magica che contiene un orizzonte. Un rischioso gioco d’azzardo con il tempo.

Il processo: il 70% dei carcerati italiani è in attesa di giudizio: è ovvio dunque che gran parte del tempo si organizzi intorno alla difesa processuale. Anche qui lo spazio-tempo vuoto è scandito dai tempi esterni – istanze di libertà, rigetti, interrogatori, colloqui con gli avvocati, dibattimenti, osservazione di «segnali» del mondo esterno. E un inafferrabile tempo di attesa. Un tempo marginale, quando la speranza di «uscita» è minima; un tempo dilatato, convulso, spasmodico, quando la speranza è concreta. Come rendere concreta la speranza: questa è l’arte di allontanamento della barriera che pratichiamo in questa forma d’uso del tempo. (In carcere, misurare la durata del tempo di attesa – ore, giorni, settimane, mesi, anni – è attività terribilmente autolesionista. Si imparano tecniche raffinate per non scoprirsi mai a misurare e per barare con se stessi sui criteri di misura). Queste arti di allontanamento ed altre ancora, affollano ogni raggio in forma parziale, sovrapposta, intermittente. In ciascuno di noi una di esse prevale, ma coesiste, variando di intensità nel tempo, con le altre: poiché tutte convivono nello stesso collettivo carcerario. Gli effetti di ogni arte praticata si riflettono su tutta la comunità. L’insieme delle arti praticate segna in ogni momento l’identità, la storia, l’evoluzione di un carcere. Un raggio di un carcere è un sistema complesso di «arti e mestieri». Nell’universo delle relazioni chiuse del sistema carcerario, nessun individuo o gruppo può andare compiutamente per la sua strada, sperimentare in linea retta il proprio cammino e le proprie arti. Forse così avviene, banalmente, dappertutto. Ma in carcere la sinuosità dei percorsi e delle turbolenze è più avvolgente che altrove. Mercanti, guerrieri, sognatori, suicidi, tutti intrecciano i loro destini nella piazza del tempo.

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