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«Un conto che non torna» (II)

Sull'opera d'arte come merce





In questo ricco contributo, Stefano Suozzi s'interroga sulla reale natura del rapporto tra arte e mercato, tra la valutazione estetica e quella economica dell'opera d'arte, per cercare di comprendere se, riconoscendola nel suo carattere di merce, l'opera d'arte possa dirci qualcosa in più su se stessa, sull'arte e sul mondo che abitiamo.

Qui la prima parte.


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Se, dunque, l’opera d’arte non possiede uno specifico valore d’uso, ma consiste completamente nel suo valore di scambio, non vi è ragione di cercare di stabilire una corrispondenza tra valore di scambio e valore estetico, poiché non è la bellezza dell’opera che ne determina il prezzo, ma è il prezzo che ne fissa il valore estetico. In altri termini, siamo tornati al noto problema marxiano che Alfonso M. Iacono così riassume: «mentre in origine il denaro rappresentava gli oggetti, adesso il rapporto è invertito: sono gli oggetti ad avere valore solo in quanto rappresentano il denaro, solo in quanto, cioè, sono valore di scambio»[1]. Ma questa inversione non è immediatamente percepibile e l’inversione tra valore d’uso e valore di scambio viene occultata nell’equivalenza tra valore di scambio e valore estetico. Ne consegue che il lavoro storico e sociale che costituisce l’opera d’arte come merce – ovvero quel processo di autolegittimazione della nuova indipendenza dell’artista e dell’opera autonoma come realizzazione dell’idea di Arte – viene occultato e naturalizzato in valore estetico, ovvero indentificato come essenza dell’opera stessa. Ed è proprio in questo processo che Iacono rinviene ciò che costituisce la feticizzazione della merce in Marx:

 

Il carattere di feticcio della merce significa l’attribuzione di naturalità alla forma sociale delle cose. Appunto la forma sociale delle cose appare come proprietà naturale della merce: si spezza dunque quel legame che renderebbe possibile l’autosservazione, cioè la coscienza del nesso tra il carattere realmente sociale della merce e i rapporti sociali della sua produzione, attraverso cui è a sua volta possibile controllare la necessaria modificazione che si produce nel processo di rinvio dell’immagine, cioè nell’inversione di due realtà (carattere sociale della merce e rapporti sociali della sua produzione) corrispondenti ma non simmetriche[2].

 

In altri termini, con l’inversione di valore d’uso e valore di scambio nell’opera d’arte non assistiamo solamente alla formazione di un mercato dall’aspetto irrazionale, ma si verifica quel processo di naturalizzazione dei rapporti storici e sociali grazie al quale il valore di scambio dell’opera d’arte viene interpretato come una proprietà intrinseca dell’opera, come la sua essenza, ovvero come il suo valore estetico. È grazie a questo processo che è possibile rappresentare l’artista come in perenne conflitto con i disumani meccanismi del mercato e l’arte come assolutamente estranea a ogni sua forma di mercificazione. In realtà, queste rappresentazioni non sono che il risultato di quei medesimi rapporti storici e sociali che, è bene ricordarlo, hanno trasformato un oggetto che non era opera d’arte ma serviva a qualcosa in un’oggetto che non serve a niente e, sulla base della sua precedente funzione che non assolve più, acquista il valore di opera d’arte. In altri termini, è proprio il vedere un oggetto come opera d’arte che ci impedisce di vederlo come merce, ma vederlo come merce significherebbe riuscire a emanciparsi dai condizionamenti sociali, economici e produttivi che ce lo presentano come opera d’arte. Inoltre, poiché il valore economico è fondato su un valore estetico privo di fondamento, a sua volta fondato sul valore di scambio «immaginario» di un oggetto che non ha un valore d’uso, l’opera d’arte può essere addirittura considerata come lo stadio finale della merce, come la forma merce par excellence. E l’aura dell’opera autonoma non è che il nome assegnato alla feticizzazione dell’opera d’arte come merce.

La domanda che si impone a questo punto, allora, riprende la questione marxiana esplicitata da Iacono: esiste«un procedimento che permette all’osservatore interno di vedere come dall’esterno il fenomeno inconscio dell’inversione»?[3]

 

5. Seguendo Pullega, il paradosso estetico consiste nel fatto che ciò che abitualmente si considera come essenza dell’opera d’arte e che, con una certa superficialità, si continua a contrassegnare come aura, non è che il prodotto della naturalizzazione del lavoro sociale (inversione tra valore d’uso e valore di scambio) che viene occultato nel processo di feticizzazione delle merci in quanto opere d’arte. La difficoltà risiede nel fatto che per rendere visibile questo processo sarebbe necessario porsi al di fuori del sistema ideologico in cui si produce. Come abbiamo già sottolineato, secondo Iacono questo è forse il problema fondamentale di Marx:

 

Come è possibile osservare la coscienza di una società dal di dentro, quando le sue forme sono in grado di esteriorizzare attraverso le ideologie ciò che essa pensa di se stessa? Quando cioè quelli che sono essi stessi prodotti della società, le ideologie, si mostrano come proiezioni cristallizzate, specchi deformanti, immagini esteriorizzate ed autonomizzate, di ciò che gli uomini sociali pensano di se stessi?[4]

 

L’avere insistito sul processo storico, sociale e culturale che, nell’era dell’arte, ha portato all’invenzione dell’opera d’arte ci ha permesso di svelare l’artificiosità del conflitto tra arte e mercato e di portare in primo piano lo statuto di merce dell’opera d’arte. Tuttavia, ciò non significa disconoscerne le caratteristiche costitutive, e tra queste, in particolare, il fatto che l’opera d’arte marca una separazione tra sé e il mondo circostante che le consente di fare affermazioni sul mondo da cui si distingue e, in questo modo, di costituirsi come un mondo diverso, ovvero proprio come opera d’arte. Per realizzare questa distinzione si serve di strumenti specifici che possiamo ricondurre sotto il titolo di cornice: automatismi, codici, convenzioni, regole, ambienti, supporti materiali e strumenti tecnologici che possono appartenere a una tradizione consolidata, essere liberamente inventati o essere reinventati una volta diventati obsoleti.[5] Come osserva Iacono:

 

La cornice fa del quadro un quadro, ne determina i confini di significato e di senso, crea cioè un contesto che rende peculiarmente comprensibile quel che è descritto nel quadro. La cornice crea la differenza tra i significati racchiusi all’interno del quadro e il mondo ad esso esterno. [...] Il vincolo creato dalla cornice, che racchiude e determina un universo di significato è esattamente quello che crea la possibilità di cogliere il senso di quell’universo racchiuso[6].

 

Ovvero, la cornice segna un confine tra interno e esterno, marca la differenza tra il mondo della realtà circostante e il mondo rappresentato nell’opera, separa le due realtà e, allo stesso tempo, ne costituisce la possibile relazione. Ed è qui che interviene lo scarto prodotto dalla riflessione di Iacono, secondo il quale il processo innescato dalla cornice non appartiene esclusivamente all’ambito artistico, ma è rinvenibile anche in tutti gli altri ambiti della vita, ad esclusione di poche eccezioni (il sogno, la follia, ecc.)[7]

La cornice non è uno spazio neutro posto tra il mondo che racchiude e il mondo che esclude, ma è lo strumento attraverso il quale un mondo delimita se stesso e, così facendo, si pone in relazione con il mondo che resta escluso. Nel momento in cui viviamo nel mondo del quadro, questo mondo è protetto e separato dal mondo circostante grazie all’attivazione di una cornice che lo esclude, pur consentendo di percepirne la presenza con la coda dell’occhio. Allo stesso modo, quando viviamo nella realtà quotidiana, percepiamo la presenza di un quadro alla parete senza avere la necessità di osservarlo ogni volta con la medesima intensità[8]. Senza la presenza del mondo esterno, il mondo racchiuso dalla cornice perderebbe di significato, così come il mondo interno alla cornice ha il potere di attribuire un nuovo senso al mondo al suo esterno. Pur essendo un prodotto del mondo in cui tutti noi viviamo, e questo comporta la necessità di demistificarne gli aspetti ideologici e su tutti il conflitto con il mercato, l’opera d’arte si costituisce proprio come esterna a questo mondo, come esperienza diversa di questo mondo, come occasione di formulare un discorso sul mondo senza essere completamente al suo interno. L’opera d’arte è dunque una possibile risposta al problema dell’osservatore formulato da Marx e così riassunto da Iacono:

 

Il momento del rapporto tra l’osservatore e l’osservazione riguarda [...] il problema di come sia teoricamente possibile cogliere il fenomeno del fetici­smo, quella inversione secondo cui quelli che sono i rapporti sociali appaiono come rapporti di cose e tra cose, al di là della coscienza degli attori sociali che stanno dentro il contesto e subiscono quel particolare fenomeno a partire da un determinato sistema di interazione. Di come cioè sia possibile che l’osservatore capace di cogliere la realtà al di fuori e al di là della coscienza dei soggetti stia allo stesso tempo al di fuori e al di dentro del fenomeno osservato[9].

 

Ciò diviene particolarmente evidente quando la funzione della cornice viene a mancare, quando è occultata o eliminata. Come osserva Iacono, in linea di principio la cornice dovrebbe svolgere la medesima funzione anche nel caso di fotografia, cinema, televisione, computer, tablet e smartphone[10]. Ma questi strumenti tecnologici sono invece la manifestazione di un predominio dell’immagine di cui la prima vittima è proprio la cornice, la differenza tra i diversi contesti:

 

L’oblio della presenza della cornice allenta o addirittura toglie un vincolo cognitivo. La finestra albertiana[11], in sostanza, presuppone quella distinzione tra il dentro e il fuori, i cui confini sembrerebbero diventare meno netti nel processo di inclusione dell’osservatore così come si produce nella realtà virtuale che sembra determinare l’oblio del confine, la sparizione della cornice, la perdita di un vincolo cognitivo[12].

 

Nell’era dell’arte, privare un’immagine della cornice significa privarla della possibilità di essere significativa, di avere una funzione cognitiva e, non ultimo, di essere opera d’arte, ovvero di essere un punto di osservazione esterno al mondo che abitiamo. Senza le cornici, le immagini che saturano il nostro mondo percettivo si susseguono l’un l’altra senza soluzione di continuità, così producendo quella che Franco Vaccari definisce come la discarica dei rifiuti, un contesto in cui molteplicità e indifferenza sono indissolubilmente legate: «è nelle discariche che si realizza il massimo di varietà e imprevedibilità locale con un massimo di omogeneità e di indifferenziazione complessiva»[13]. Pretendendo di rinunciare completamente a ogni forma di cornice[14], ad esclusione della sola affermazione «questa è un’opera d’arte», la confusione tra arte e vita, la mancanza di una distinzione tra mondo esterno e mondo interno all’opera comporta pertanto l’abdicare a una delle funzioni costitutive dell’opera d’arte: vedere il mondo a cui apparteniamo come se fossimo al di fuori di esso.

Sin qui abbiamo sostenuto che la consapevolezza della natura ideologica dell’opera d’arte come merce (e della sua rappresentazione come in perenne conflitto con il mercato) e la funzione dell’opera d’arte come strumento per osservare il mondo dall’esterno grazie al processo innescato anche dalla cornice, reagiscono reciprocamente. Se ciò è corretto, occorre allora riconsiderare il modo in cui la questione marxiana della relazione tra osservatore e osservazione è connessa al modo in cui i sistemi ideologici si conservano o declinano. Come sottolinea Iacono, per Marx «ogni epoca ha una sua cultura e sue determinate forme di espressione, una sua coscienza e determinate forme ideologiche»[15]. Ma la coesione di questo sistema è resa instabile dalle spinte sociali interne che tendono a spezzare l’equilibrio tra forme di relazione, rapporti di produzione e forze produttive. Sono le contraddizioni tra questi elementi che tendono a frantumare le connessioni grazie a cui il sistema si conserva. Chiarisce Iacono:

 

Il dato fondamentale dello schema marxiano è che l’osservatore può costruire la sua osservazione a partire dalla non corrispondenza tra gli elementi interni del sistema. È esattamente questo che gli permette di osservare come dall’esterno pur essendo interno al fenomeno osservato. È cioè il fatto che il processo storico e la conoscenza storica sono date per Marx dalla non corrispondenza, ovvero dalle possibilità, interne al sistema, della sua sconnessione[16].

 

Se dunque, come osserva Pullega a proposito di Benjamin, «la posizione politica dell’arte è la mediazione fra tecnica ed economia[17], riconoscendo la relazione costitutiva che lega arte e mercato e portando in primo piano il processo di feticizzazione che rivela l’opera d’arte come la merce par excellence, si mette in evidenza lo statuto ideologico dell’opera d’arte e, allo stesso tempo, si mostrano - marxianamente - le sconnessioni che si manifestano tra processo storico, modo di produzione e lavoro sociale all’origine dell’opera stessa. È solo grazie al manifestarsi di queste sconnessioni che, attraverso il lavoro della cornice, l’opera d’arte può essere un discorso sul mondo, una forma di osservazione del mondo di cui è parte come se ne fosse all’esterno, e non solamente una manifestazione dell’ideologia corrente.

 

 6. In conclusione, ritorniamo al punto da cui siamo partiti. Nella silloge di poesie dedicate a Lorenzo Lotto, e in gran parte basate sul Libro di spese diverse, Francesco Scarabicchi chiude la poesia emblematicamente intitolata Necessità osservando che la dura battaglia tra arte e mercato a cui Lotto è costretto, e testimoniata dall’affannosa registrazione di entrate e uscite, si risolve inesorabilmente in «un conto che non torna»[18]. È vero che Scarabicchi si sta rifacendo all’immagine tradizionale di un Lotto in «uno stato di indigente e costernata solitudine»[19], spinto a un continuo girovagare da un successo altalenante e dalle costanti difficoltà economiche. Un’immagine di Lotto forse un po’ datata, che proprio il Libro di spese diverse ci aiuta a rinnovare perché, mentre ci mostra le difficoltà materiali in cui Lotto si dibatte, ne rivela anche l’intraprendenza e la quantità e varietà di relazioni sociali e professionali che intrattiene e che sono ormai  parte indispensabile del mestiere dell’artista nel nuovo mercato. Ma il verso di Scarabicchi, forse anche oltre le sue intenzioni, ci dice molto di più. Non solo perché ridurre la relazione tra arte e mercato a un conflitto insanabile è fuorviante, ma soprattutto perché l’opera d’arte si rivela essere un dispositivo dalla duplice funzione.

Da un lato, l’opera d’arte è il risultato di un articolato complesso di condizioni storiche e sociali tra le quali è necessario comprendere anche il mercato, senza il quale l’opera autonoma sarebbe stata qualcosa di completamente diverso da ciò che è oggi, e di cui non ci è dato conoscere nulla. Non solo. La completa trasformazione del valore d’uso dell’immagine di culto nel valore di scambio dell’opera autonoma, l’equivalenza tra valore di scambio e valore estetico e tra valore estetico e valore economico, e la disarticolazione del rapporto tra la realizzazione materiale dell’opera e la sua legittimazione in quanto opera d’arte (grazie soprattutto allo sviluppo dell’opera d’arte tecnicamente riproducibile e del readymade), hanno rivelato come il processo di feticizzazione delle merci raggiunga il suo massimo sviluppo proprio nell’opera autonoma, così rivelando l’opera d’arte come la merce par excellence. In tale contesto, la rivendicazione dell’autonomia e dell’indipendenza dell’artista dal mercato e l’autolegitti-mazione dell’arte in quanto arte, ovvero come del tutto estranea al mercato, non sono che la forma paradigmatica del processo di occultamento su cui si fonda la feticizzazione dell’opera autonoma come merce.

Dall’altro lato, prendere coscienza dello statuto ideologico dell’opera autonoma come merce significa, allo stesso tempo, rendere visibili le marxiane sconnessioni che in ogni merce si manifestano tra processo storico, modo di produzione e lavoro sociale. Secondo Marx sono proprio queste sconnessioni a rivelare la struttura ideologica di ogni sistema e i suoi processi di riproduzione, ed è compito della scienza individuarle[20]. Anche in questo caso, l’opera autonoma non è una merce come le altre. Attraverso il suo distinguersi dal mondo circostante mediante la cornice (qualunque forma essa assuma) e, conseguentemente, consentendo di osservare il mondo esterno e fare affermazioni su di esso come se ne fosse completamente separata (pur nella consapevolezza che anche l’opera d’arte è sempre e comunque anche un prodotto di questo mondo e delle sue ideologie), l’opera d’arte può mostrarci le discrepanze, le linee di faglia che incrinano l’omogeneità obnubilante delle immagini che saturano la nostra percezione.

Se quanto abbiamo sin qui sostenuto è corretto, è evidente che non abbiamo comunque saputo dire nulla su che cosa l’opera d’arte è (e almeno in questo siamo in nutrita compagnia). Avere compreso alcuni dei meccanismi e dei processi che caratterizzano l’opera d’arte come merce e come dispositivo non ci dice che cosa renda il ritratto di Bernardo de’ Rossi di Lotto o L.H.O.O.Q. di Duchamp dei capolavori e non ci aiuta a comprendere perché pensiamo o sentiamo che lo sono. È come se, di fronte al capolavoro, non ci restasse che parafrasare la celebre sentenza di Agostino sul tempo: «se nessuno me lo chiede, lo so;  se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so più»[21]. Ciò che in questa sede possiamo affermare è che, forse, il problema che merita di essere ulteriormente approfondito non è quello del conflitto tra arte e mercato, come se la vera natura dell’arte dipendesse solamente dalla sua emancipazione dal mercato, ma è quello del rapporto tra l’arte e il mondo che abitiamo perché è attraverso l’opera d’arte che tutto ciò che diamo per scontato può mostrare le proprie sconnessioni. In altri termini, pena l’anestesia e l’atarassia ideologiche, se l’arte fa il proprio lavoro deve sempre essere «un conto che non torna».



Note

[1] A.M. Iacono, Teorie del feticismo. Il problema filosofico e storico di un «immenso malinteso», Giuffrè, Milano 1985, p. 192. Si veda anche la traduzione inglese aggiornata: The History and Theory of Fetishism, Palgrave Macmillan, Houndmills-New York 2016 e, inoltre, Id., Studi su Karl Marx. La cooperazione, l’individuo sociale e le merci, ETS, Pisa 2018.

[2] Ivi, p. 218.

[3] A.M. Iacono, Teorie del feticismo, cit., p. 199. Aggiunge Iacono: «È il crinale dell’osservatore che ora può vedere come dall’esterno gli sconvolgimenti, ora li vive dall’interno entro le forme ideologiche. E allora, o si suppone che la scienza garantisca dal filtro ideologico, oppure l’osservatore è sottoposto alle stesse condizioni di osservazione di coloro che osserva. La grande scoperta di Marx di dover guardare al di là delle forme ideologiche non può risolversi entro una contrapposizione rigida tra forme giuste e forme distorte dell’osservazione. È a questo livello che si pongono i problemi moderni dell’auto-osservazione e delle metadescrizioni, del contesto che, delimitando e determinando il campo di osservazione, diviene esso stesso oggetto osservato» (ivi, nota 34, p. 215).

[4] Ivi, pp. 190-191.

[5] In particolare, sul medium e la sua obsolescenza cfr. R. Krauss, Reinventare il medium. Cinque saggi sull’arte di oggi [1997-2004], Bruno Mondadori, Milano 2005; sul concetto di automatismo cfr. S. Cavell, The World Viewed [1972], Harvard University Press, Cambridge-London 1979 (enlarged edition); per una rassegna della riflessione sulla cornice cfr. La cornice. Storie, teorie, testi, a cura di D. Ferrari e A. Pinotti, Johan & Levi, Monza 2018. Per una più approfondita discussione della cornice, e per ulteriori riferimenti bibliografici, ci permettiamo di rimandare a S. Suozzi, L’arte della fuga, cit., pp. 63-78.

[6] A.M. Iacono, Il sogno di una copia. Del doppio, del dubbio, della malinconia, Guerini, Milano 2016, pp. 39-40.

[7] La riflessione di Iacono sulla cornice è funzionale alla sua teoria dei mondi intermedi, che qui non abbiamo lo spazio di approfondire. Su questo, oltre al già citato Il sogno di una copia, cfr. anche L’illusione e il sostituto. Riprodurre, imitare, rappresentare, Bruno Mondadori, Milano 2010; Storie di mondi intermedi, ETS, Pisa 2016; Socrate a cavallo di un bastone. I bambini, il gioco, i mondi intermedi e la messa in scena come pratica della verità, Manifestolibri, Roma 2022; A.M. Iacono e A.G. Gargani, Mondi intermedi e complessità, ETS, Pisa 2005. Cfr. inoltre i saggi compresi nella sezione Mondi intermedi e complessità di G. Paoletti, L. Mori e F. Marchesi (a cura di), L’esercizio della meraviglia. Studi in onore di Alfonso M. Iacono, ETS, Pisa 2019, pp. 341-432.

[8] Cfr. G. Simmel, La cornice del quadro. Un saggio estetico [1902], in La cornice, cit., p. 71: «l’opera d’arte è una cosa per sé [...]: appesa nella nostra stanza, non ci disturba, dato che ha una cornice, cioè dato che è nel mondo come un’isola che attende che vi si giunga, e che si può anche trascurare e non vedere».

[9] A.M. Iacono, Teorie del feticismo, cit., pp. 184-185.

[10] Cfr. A.M. Iacono, Il sogno di una copia, cit., pp. 39-40.

[11] Ricordiamo che il riferimento è al De pictura di Leon Battista Alberti, il quale espone matematicamente la prospettiva pittorica quattrocentesca inventata da Filippo Brunelleschi adottando la finestra come dispositivo ottico paradigmatico; cfr. A.M. Iacono, Il sogno di una copia, cit., pp. 41-42. Sull’importanza della finestra nella storia della pittura cfr. V. Stoichita, L’invenzione del quadro [1993], Il Saggiatore, Milano 2013, pp. 45-54.

[12] A.M. Iacono, Il sogno di una copia, cit., p. 45.

[13] F. Vaccari, La discarica di rifiuti: un modello dell’attuale situazione dell’informazione, in Id., Fotografia e inconscio tecnologico, cit., p. 87.

[14] Qualunque essa sia: cornice tradizionale, supporti materiali (media), regole, convenzioni, automatismi, il cubo bianco della galleria o del museo e il cubo nero che lo sta sostituendolo. Ed è una cornice anche la scansione del verso nella poesia, che ci costringe a un modo e un tempo della lettura che si distinguono nettamente dalla rutilante percezione delle immagini del mondo contemporaneo; su questo rimandiamo a S. Suozzi, L’arte della fuga, cit.

[15] A.M. Iacono, Teorie del feticismo, cit., p. 206.

[16] Ivi, p. 207.

[17] P. Pullega, Sull’arte che non è, cit., p. 41.

[18] F. Scarabicchi, Necessità, in Id., con ogni mio saper e diligentia, cit., p. 86.

[19] M. Raffaeli, Nota, in F. Scarabicchi, con ogni mio saper e diligentia, cit., p. 13.

[20] Per una nuova lettura dei fondamenti scientifici del socialismo cfr. B. Karsenti e C. Lemieux, Il socialismo e il futuro dell'Europa [2017], Meltemi, Milano 2021.

[21] Cfr. Agostino, Confessioni, XI, 14.17, Garzanti, Milano 1991, p. 224.


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Stefano Suozzi è collaboratore dei Centri Culturali e tutor della Scuola di Alti Studi della Fondazione Collegio San Carlo di Modena. All’intersezione tra filosofia, arte e letteratura, ha pubblicato: Voce: «assolta simmetria», in R. Deidier (a cura di), L’avventura di restare. Le scritture di Elio Pecora (Genova 2009); La volontà di fare la cosa giusta. Il futuro distopico di Philip K. Dick, in C. Altini (a cura di), Utopia. Storia e teoria di un’esperienza filosofica e politica (Bologna 2013); Un'invincibile solitudine. Mondo proprio e mondo comune in Philip K. Dick, in «Intersezioni» (2/2015); Ritratto di un paradosso. Sulla pittura di Gabriele Grones, in G. Grones, Paintings (2018) e L’arte della fuga. Attualità e inattualità dell’immagine e della scrittura, (Pisa 2021).

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