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Dal diritto come arma al diritto come scudo

Ancora sulla violenza contro le donne


Violenza contro le donne
Immagine: Ana Mendieta, Untitled (Body Tracks), 1974 © The Estate Of Ana Mendieta Collection, Llc Courtesy Galerie Lelong & Co

L’articolo di Serena Vantin si sofferma sul rapporto tra violenza contro le donne, società e diritto, ripercorrendo le elaborazioni di Catharine MacKinnon, criticandone specifici aspetti e distanziandosi dalle premesse dell’autrice.


***

 

La legge! Questa entità morale,

di cui Antonia aveva un’idea misteriosa e confusa,

era senza dubbio una forza terribile, ma protettrice.

E. Pardo Bazan, Il pizzo strappato.

Racconti sulla violenza contro le donne


1. Sulla violenza contro le donne, ancora

Parlare di violenza contro le donne oggi è molto difficile. Da un lato, infatti, si ha l’impressione che tutto sia già stato detto e che dunque non ci sia niente di nuovo da aggiungere, come se quello in esame fosse un fenomeno già sin troppo noto. Dall’altro lato, si ha la sensazione che nulla si possa dire davvero, non soltanto perché la violenza è sempre indicibile[1] ma anche perché sembra impossibile analizzare un problema così complesso, il quale risulta sfuggente perché, come nella Lettera rubata di Edgar Allan Poe, troppo presente e ormai incistato addirittura nelle pieghe del linguaggio.

Di fronte a una sfida di queste proporzioni, per non perdere l’orientamento, nelle prossime pagine si utilizzerà come guida l’elaborazione di una studiosa che è considerata un punto di riferimento per la comprensione del legame tra violenza contro le donne, società e diritto: Catharine MacKinnon. Più nel dettaglio, si ripercorreranno molto schematicamente alcuni motivi che caratterizzano la produzione dell’autrice, anche se, criticandone specifici aspetti, si giungerà a un distanziamento sostanziale dalle sue premesse.

Si precisa che il tema oggetto di questo breve scritto è la violenza maschile contro le donne, una violenza sistemica, endemica e transculturale, che si manifesta in molte forme, in atti e comportamenti talvolta normalizzati dalle donne stesse[2], anche nell’ambito delle relazioni affettive più intime e profonde: dalla violenza fisica a quella sessuale, dalla violenza psicologica ed emotiva a quella economica, dagli atti persecutori e di controllo alla violenza verbale, dai matrimoni forzati alle mutilazioni genitali, dalla sterilizzazione forzata alla prostituzione forzata, sino al femminicidio[3]. Una violenza anche simbolica[4], diffusa persino nei miti fondativi delle nostre società, tra i nostri modelli culturali e i testi di riferimento[5]: basti pensare alla leggenda della fondazione mitologica di Roma, che prende avvio e si conclude con una serie di stupri[6]. Com’è noto, infatti, è dalla violenza che il dio Marte muove contro Rea Silvia che nascono i gemelli Romolo e Remo. Condannati a morte alla nascita, ma in realtà affidati alla corrente del Tevere in una cesta, i due neonati vengono allattati da una lupa e poi accuditi da una coppia di pastori. Una volta cresciuti, decidono di fondare la città ma tra i due scoppia una lite che si risolve con il fratricidio. Dopo aver eretto Roma sul Palatino, Romolo riunisce una moltitudine di pastori in assemblea e constata la penuria di donne. È solo dopo il rapimento e lo stupro etnico delle Sabine che la città risulterà infine adeguatamente popolata. 

Anche se ci si occuperà di questa violenza specifica, è bene ricordare che essa non esaurisce il novero delle forme della violenza privata e sociale, e pure che talvolta le sue manifestazioni sono intrecciate ad altre forme di oppressione, come ad esempio quella razzista[7].

 

2. Violenza e potere

Secondo MacKinnon alla radice della violenza sistemica sta una gerarchia consolidata; e, a sua volta, la gerarchia trae scaturigine dalla possibilità di esercitare violenza impunita[8]. Più nel dettaglio, la violenza nasce da un’inclinazione presociale alla sopraffazione del più debole[9], connessa forse all’istinto di sopravvivenza[10]. Ricorrendo a una sorta di esperimento mentale, potremmo affermare che per MacKinnon lo stato di natura è una condizione hobbesiana di guerra di tutti contro tutti, dove gli esseri umani vivono nel terrore e sotto la minaccia costante dell’aggressione che altri possono infliggere loro. Eppure, diversamente da Hobbes, si tratta di un’aggressione praticata per mezzo di, e finalizzata al, predominio sessuale[11].

In questo scenario, alcuni esseri umani scoprono di poter aggredire sessualmente altri, impunemente[12] e senza doverne sopportare le conseguenze (le eventuali gravidanze e il successivo accudimento dei figli). Altri esseri umani scoprono di essere sempre-potenzialmente-esposti a tale minaccia[13].

Questa situazione ricorda il mito platonico dell’anello di Gige, nel Libro II della Repubblica: secondo Glaucone, che interviene dopo Trasimaco, chi ha il potere di compiere il male impunemente, lo farà. A suo dire, «tutti per natura» cercherebbero di soverchiare gli altri, comportandosi come «un dio tra gli uomini», e se se ne astengono è soltanto perché temono una punizione[14]. Anche nel terribile dialogo tra gli Ateniesi e i Melii riportato da Tucidide, i primi non esitano ad affermare che «non solo tra gli uomini» «ma, per quanto se ne sa, anche tra gli dei, un necessario impulso spinge a dominare colui che puoi sopraffare»[15].

In questi termini, nell’ambito dei rapporti impari nei quali sussiste un riconoscibile squilibrio di forze[16], a valere sarebbe di primo acchito la legge del più forte[17]. Solo successivamente, «nel secondo giorno» dell’umanità[18], la distinzione di sesso verrebbe ad assumere rilevanza culturale, al fine di marcare la separazione tra i potenti e i deprivati-del-potere[19]. Solo in un secondo momento, quindi, i primi denominano se stessi come «uomini» e definiscono i secondi come «donne», costruendo poi istituzioni sociali che risultano funzionali a rafforzare la compattezza dei due gruppi e a conservare la differenziazione (e la gerarchia che essa cela). Il potere che gli uomini esercitano diventa politico, ma rimane sempre anche, come era originariamente, potere sessuale[20] – al punto che sono gli uomini a stabilire che cosa l’atto sessuale esattamente sia[21].

La violenza originaria, fondativa, viene allora rimossa[22]. L’ordine politico e giuridico cela, anzi, un ulteriore doppio atto di violenza, sia teorica sia pratica. Teorica: perché sono gli uomini che si appropriano dell’universale, creando l’ordine del logos razionale e politico dal quale le donne sono espulse (da qui in avanti le donne potranno pensarsi o come eguali o come diverse rispetto agli uomini, ma la mascolinità resterà il criterio di riferimento[23]). Pratica: perché la violenza continua a essere esercitata nei confronti delle donne, senza assumere però alcuna rilevanza per l’ordine della città; è una violenza che per lungo tempo resta non tematizzata, non vista[24], relegata al di fuori dell’ordinamento, ovvero nello spazio privato (il luogo dell’oikos[25]) e nello spazio esterno alla polis (nel polemos, la guerra combattuta contro il nemico): in questi due ambiti, la violenza contro le donne resta diffusa e, al contempo, normalizzata e rimossa. Sono sufficienti a questo riguardo soltanto alcuni esempi: per lunghissimo tempo[26], almeno fino agli anni ’50 del Novecento, è considerato normale (è la norma) che il marito eserciti una «moderata violenza correttiva» nei confronti della moglie[27]. Analogamente, nell’ambito delle guerre (tutte le guerre), la violenza sistematica contro le donne del nemico da sempre fa parte delle consuetudini dei belligeranti[28] e soltanto nel 2008, nel diritto internazionale, si è giunti a condannare esplicitamente lo stupro come arma di guerra[29].

In sintesi, dunque, secondo MacKinnon, alla radice della violenza sistemica sta una gerarchia di lungo corso, ovvero un rapporto sbilanciato di potere. Non si tratta di una gerarchia basata su una presunta essenza necessaria[30], è anzi una gerarchia imposta; più propriamente: si tratta di una gerarchizzazione.

Vale la pena sottolineare che l’antropologia che MacKinnon delinea a sostegno di queste considerazioni, che a lei paiono di natura descrittiva, è estremamente pessimistica, cupa, conflittuale. Su questo aspetto si tornerà più avanti.

 

3. Violenza e diritto

Fortunatamente, la riflessione di MacKinnon non si ferma a questa altezza. Se è vero che le istituzioni sociali, e all’interno di queste il diritto, sono «gli strumenti del padrone» (per parafrasare la poetessa afroamericana Audre Lorde), per MacKinnon questi strumenti possono essere utilizzati anche in favore degli oppressi. A suo dire, in particolare, il diritto è un’arma, e le donne devono imparare a brandirlo[31].

In altre parole, vi è un rapporto biunivoco tra cambiamenti giuridici e cambiamenti sociali. È vero che più frequentemente sono i cambiamenti nella società a generare modifiche normative, ma può accadere anche il contrario: cambiando il diritto, si può trasformare la società[32]. Ciò accade perché sussiste un rapporto stretto tra la giustificazione della norma, la sua interpretazione e la sua applicazione. Buone leggi possono produrre una buona cultura (non solo giuridica) e una buona prassi (non solo giudiziaria).

Il diritto è allora il luogo che rende visibile l’invisibile, e che dà ragioni per contrastare l’inclinazione alla sopraffazione dei deboli. Certo, com’è ben noto, il diritto, e in particolare il diritto moderno[33], vieta la violenza individuale appropriandosi del monopolio della forza legittima[34]. La coercizione è pharmakon, veleno che promette di annientare il veleno purché somministrato in dosi giuste e moderate[35]. Alla «dis-misura» della vendetta, il diritto oppone la misura e la proporzionalità della pena. Ma il diritto non è soltanto sanzione e punizione del colpevole; è anche ciò che pretende di dichiarare quali comportamenti, all’interno di un certo ordinamento, sono considerati giusti o ingiusti[36]. In altri termini, il diritto rivendica una funzione simbolica, performativa: affermando che un certo comportamento è punibile, intende insegnarci che quel comportamento è, almeno all’interno di quell’ordinamento, sbagliato, riprovevole[37]. Ci dà ragioni per non compierlo (la paura della sanzione, il conformismo, il timore della riprovazione sociale, l’autentica condivisione del principio che ne sta alla base, e così via).

Ciò non significa che il diritto sia sufficiente a influenzare le nostre azioni, qualificandosi soltanto come uno dei fattori che concorrono nel determinare il nostro agire. Eppure, come scrive MacKinnon, se è vero che il diritto «non è tutto», esso «non è nemmeno niente»[38]. Più ampiamente, secondo la giurista, per produrre trasformazioni reali attraverso la «leva» del diritto, occorre uno sforzo collettivo, istituzionale[39]. Ci vorrà tempo. Ma «la montagna» va smossa: capiremo più tardi dove e come raccoglieremo i benefici delle frane[40].

Dunque, il piano individuale non è sufficiente; per modificare una realtà intrisa di violenza occorre uno sforzo plurale, condiviso. È quello che l’autrice ha definito di recente, con qualche dose di retorica, «l’effetto farfalla»[41], alludendo al fatto che le farfalle sono insetti fragilissimi, e vivono solo poche ore; eppure, sono invincibili se considerate come specie. In tal senso, per riequilibrare una situazione gerarchizzata, occorre far leva sulla forza del numero. Così come la violenza sistemica non è riducibile a un comportamento meramente individuale, risultando sempre anche l’espressione di una rete di relazioni di potere, analogamente il suo contrasto chiama in causa la società tutta, gli ordinamenti e le loro istituzioni.

 

4. Oltre la logica dello scontro

Torniamo ora all’antropologia pessimistica e conflittualista di MacKinnon, l’aspetto forse meno convincente della sua elaborazione. Se, infatti, le donne, come lei auspica, attraverso la forza del numero, non riusciranno mai a utilizzare il diritto per riequilibrare il divario di potere che a lungo le ha rese «cittadine di seconda classe»[42], o se almeno vi riusciranno, come è più probabile, alcune donne,  allora – seguendo il ragionamento di MacKinnon nella sua interezza – esse diventeranno «potenti» e potranno esercitare impunemente la sopraffazione su altri. In altre parole, il meccanismo sembra destinato a riprodursi specularmente, come avviene nel romanzo The Power di Naomi Alderman[43], dove è descritta una distopia nella quale le ragazze, per ragioni evolutive e in particolare proprio per proteggersi dalle aggressioni maschili, sviluppano la capacità di dare la scossa con la mano. Questa inversione dei rapporti fisici di forza determina, con il passare di alcune generazioni, un capovolgimento degli assetti sociali che replica la gerarchia originaria, anche se a parti invertite. Le donne sono ora potenti e abusano degli uomini, oppressi.

Per uscire da questa circolarità, sembra necessario, almeno nel passaggio dal piano descrittivo a quello normativo, rifiutare la logica dello scontro, che è la logica della vendetta, del dominio, della guerra[44].

Diversamente da quanto afferma MacKinnon, il diritto non è un’arma per offendere; è e deve essere, semmai, uno scudo, il più possibile ampio, per proteggere. La stessa riflessione sulla violenza risulta sterile se si limita a configurarsi come scambio di accuse o recriminazioni, invece di diventare uno strumento utile a trovare soluzioni concrete sulle quali convergere. In altre parole, non dobbiamo pensare che il diritto debba armare le donne nella battaglia contro gli uomini, bensì che esso debba tutelare la società contro una piaga che sistematicamente opprime alcuni suoi membri, la quale per lungo tempo ha trovato un fertile terreno di coltura nell’abitudine e in un generalizzato atteggiamento di minimizzazione, indifferenza e complicità.

 

5.  Elaborare la violenza

Quest’ultima considerazione non vuole essere una pia preghiera né l’auto-inganno di un «cuore di tarantola» (come diceva Nietzsche, quando invitava a diffidare del buonismo di coloro che parlano di giustizia).

Per poter funzionare come scudo, il diritto deve conoscere con chiarezza i suoi confini, enunciando, in particolare, con precisione l’oggetto che regola. Perché il diritto possa efficacemente proteggere, occorre dire con precisione la violenza che esso è chiamato a prevenire e credere nella testimonianza di chi parla. Secondo MacKinnon, quando si parla di violenza non esiste una prospettiva distaccata, oggettiva, neutrale[45]. Occorre, anzi, ascoltare e prendere sul serio il punto di vista delle persone coinvolte per descrivere in modo accurato la violenza subita e praticata[46], riconoscerne le insorgenze, elaborare definizioni sufficientemente precise, predisporre misure di tutela calibrate sull’esperienza autentica e sui bisogni effettivi delle persone coinvolte, allargare lo sguardo e il perimetro della difesa anche ad altri soggetti potenzialmente interessati (come, tipicamente, i figli e le figlie minorenni). Si pensi ancora a qualche esempio: per molte donne che hanno subito violenza è più importante poter disporre di servizi e sussidi di sostegno per la ricerca di un’alternativa alla convivenza coniugale piuttosto che l’inasprimento delle pene[47]. Anche il lavoro di autoanalisi e supporto psicologico agli uomini con tendenze violente può essere una prospettiva promettente, soprattutto là dove si leggano determinati comportamenti maschili violenti come reazione all’insubordinazione delle donne rispetto ai modelli patriarcali consolidati, e dunque alla luce dell’esigenza sempre più impellente di un più ampio lavoro di storicizzazione dell’identità maschile dominante finalizzato a riposizionarla nei limiti della propria parzialità[48]. In ogni caso, la letteratura sembra concorde[49] nel ritenere maggiormente strategico un investimento nella prevenzione e nell’educazione affettiva delle nuove generazioni, a partire dalla diseducazione al pensiero patriarcale e duale, figlio della antica violenza teorica, di cui sono imbevuti gli stereotipi e i pregiudizi, ma anche le concezioni distorte sulle relazioni sentimentali, ai quali, sin da bambini, abituiamo le nostre menti[50]

 

6. Una tensione e uno spazio di manovra

In conclusione, dalle rapide considerazioni sopra esposte emerge una tensione che appare a questo punto come un tratto profondamente radicato e che dunque rivela la necessità di un grande sforzo che è, in parte, ancora da compiere. Da un lato, per lunghissimo tempo l’ordinamento politico e giuridico è stato pensato, fondato e costruito sulla violenza, e persino sulla rimozione della violenza contro le donne, la quale di fatto ha potuto continuare ad essere esercitata impunemente, silenziosamente, non vista; dall’altro lato, oggi all’interno degli ordinamenti ci sono degli strumenti – a cominciare dal diritto – che offrono alla collettività uno spazio di manovra, delle possibilità (teoriche e pratiche) di intervento, capaci di mostrare delle strade alternative: si tratta di strade che sicuramente è giunto il momento di percorrere senza alcuna esitazione.

 


[1] La violenza, bia, non solo è indicibile ma è anche muta, priva di argomentazioni e incapace di dialettica: cfr. in part. l’incipit del Prometeo incatenato di Eschilo. Per un commento, F. D’Agostino, Bia. Violenza e giustizia nella filosofia e nella letteratura della Grecia antica, Giuffrè, Milano 1983, p. 64.

[2] Il rapporto di Save the Children, Le ragazze stanno bene? Indagine sulla violenza di genere onlife in adolescenza, divulgato nel febbraio 2024, evidenzia che nelle giovani generazioni pratiche di possesso e controllo nell’ambito delle relazioni affettive sono diffuse in modo abbastanza omogeneo tra ragazzi e ragazze. Ad esempio, il 30% degli intervistati (maschi e femmine, tra i 14 e i 18 anni) si ritiene molto o abbastanza d’accordo con l’opinione che in una relazione intima la gelosia sia un segno d’amore, il 26% ritiene che in una relazione intima possa capitare di chiedere di rinunciare a certe amicizie, il 21% pensa che la condivisione di password di account social con la persona con la quale si ha una relazione sia una prova d’amore, il 20% ritiene normale richiedere al partner di geolocalizzarne gli spostamenti e il 17% afferma che in una relazione intima può accadere che «scappi uno schiaffo ogni tanto». Quanto alla violenza sessuale, sorprendono alcuni dati allarmanti: il 43% degli e delle adolescenti si dichiara molto o abbastanza d’accordo con l’opinione che «se davvero una ragazza non vuole avere un rapporto sessuale, il modo di sottrarsi lo trova», il 29% ritiene che le ragazze possano contribuire a provocare la violenza sessuale con il loro modo di vestire o di comportarsi e il 21% sostiene che una ragazza sotto l’effetto di sostanze stupefacenti o alcol sia in grado di acconsentire o meno ad avere un rapporto sessuale.

[3] Cfr. le definizioni riportate nella Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (c.d. Convenzione di Istanbul, 2013). Il termine femminicidio, che non compare nella Convenzione, fu coniato da Diana Russell agli inizi degli anni ʼ90 (cfr. D. Russell, Femicide: The Politics of Woman Killing, Twayne, New York 1992) con l’obiettivo di analizzare il fenomeno delle centinaia di donne fatte sparire e uccise a Ciudad Juárez, al confine tra Stati Uniti e Messico. Per una definizione di violenza contro le donne offerta da MacKinnon, cfr. C.A. MacKinnon, Le donne sono umane? a cura di A. Besussi, A. Facchi, Laterza, Roma-Bari 2012, pp. 3-5, dove l’autrice denuncia le «omissioni» «non semplicemente semantiche» della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948.

[4] Cfr. P. Bourdieu, La domination masculine (1998); trad. it. Il dominio maschile, Feltrinelli, Milano 2019.

[5] Marina Calloni ha approfondito il tema della violenza nell’ambito dei miti fondativi di Tebe, Atene e Roma, e ha riletto episodi centrali nella letteratura occidentale, come il delitto d’onore commesso da Gianciotto contro Francesca e Paolo (raccontato da Dante nel Canto V dell’Inferno) e i femminicidi di Desdemona per mano di Otello e di Carmen da parte di Don Josè. Cfr. M. Calloni, La verità di miti e racconti. Sulle radici familiari della violenza politica, in S. Vaccaro (a cura di), Violenza di genere, Saperi contro, Mimesis, Milano-Udine 2016, pp. 11-33.

[6] Un altro esempio fondamentale è quello evocato nell’incipit dell’Iliade, ovvero il doppio rapimento di Criseide da parte di Agamennone e di Briseide da parte di Achille: entrambe le donne sono considerate bottino di guerra. Com’è ben noto, quando, dopo un aspro diverbio con Achille, Agamennone è costretto a restituire la donna rapita, riconsegnandola al padre Crise, l’Atride, con un atto di subitanea ritorsione, si appropria con la forza della donna catturata da Achille. Questa vicenda determina la menis con la quale si apre il poema: come nota Remo Bodei, è questa la prima parola scritta della letteratura occidentale (R. Bodei, Ira. La passione funesta, Il Mulino, Bologna 2010, p. 27). 

[7] Come spiega Iris Marion Young, la violenza sistemica è uno dei cinque «volti dell’oppressione», insieme a marginalizzazione, sfruttamento, deprivazione del potere e imperialismo culturale. Cfr. I.M. Young, Justice and the Politics of Difference, Princeton, Princeton University Press 1990.

[8] Cfr. in part. C.A. MacKinnon, Feminism Unmodified. Discourses on Life and Law, Harvard University Press, Cambridge, MA 1987 e Ead., Towards a Feminist Theory of the State, Harvard University Press, Cambridge, MA 1989.

[9] Etimologicamente, il termine latino violentia deriva da vis, traduzione diretta del greco bia, che possiede la medesima radice di vita (bios in greco) ed è utilizzato anche per indicare la forza fisica. L’etimo di «violenza» è dunque strettamente correlato a quello di «vita». Cfr. G. Semerano, Le origini della cultura europea, vol. II: Dizionari etimologici. Dizionario della lingua latina e di voci moderne, L. Olschki, Firenze 1964, p. 615. Nel Leviatano, Hobbes parla di «un’inclinazione generale di tutta l’umanità, un desiderio perpetuo e ininterrotto di acquistare un potere dopo l’altro che cessa soltanto con la morte» (Leviathan [1651]; trad. it. Leviatano, Laterza, Roma-Bari, 2001, XI, p. 78). La pulsione acquisitiva del singolo coincide, dunque, con la sua stessa vitalità, con la sua stessa fisiologia di animale aggressivo ma calcolante, la quale sempre cela, minacciosa e incombente, la potenzialità della violenza. Cfr. O. Guaraldo, Comunità e vulnerabilità. Per una critica politica della violenza, ETS, Pisa 2012, p. 106. Cfr. anche Leviatano, XIII, p. 101, dove Hobbes distingue le tre cause principali di contesa (rivalità, diffidenza, orgoglio) e afferma che «nel primo caso [gli uomini] ricorrono alla violenza per rendersi padroni della persona di altri uomini, delle loro donne, dei loro figli e del loro bestiame; nel secondo caso per difenderli. Nel terzo caso per delle inezie, ad esempio per una parola, un sorriso, una divergenza di opinioni, e qualsiasi altro segno di disistima». In un tale stato di natura, com’è noto, «appartiene a ogni uomo tutto ciò che riesce a prendersi e per tutto il tempo che riesce a tenerselo» (ivi, p. 103).

[10] Cfr. classicamente S. Freud, Das Unbehagen in der Kultur (1930); trad. it. Il disagio della civiltà, in Id., Il disagio della civiltà e altri saggi, Bollati Boringhieri, Torino 2012, pp. 197-280, in part. pp. 246-247 dove l’autore parla della «bestia selvaggia» nell’uomo, di «tendenza all’aggressione» e di «ostilità primaria» e K. Lorenz, Das sogenannte Böse. Zur Naturgeschichte der Aggression (1963); trad. it. L’aggressività. Il cosiddetto male, Il Saggiatore, Milano 2021. In questa scia, tra gli altri, W. Sofsky, Traktat über die Gewalt (1996); trad. it. Saggio sulla violenza, Einaudi, Torino 1998. In The Anatomy of Human Destructiveness (1973), Erich Fromm critica l’istintivismo di Freud e Lorenz, anche se include la necessità di lottare per «l’accesso alle femmine», inteso come un «interesse vitale», tra le ragioni che giustificano un’«aggressione auto-affermatrice»: cfr. Anatomia della distruttività umana, Mondadori, Milano 1975, pp. 241-248.

[11] Cfr. S. Brownmiller, Against Our Will (1975); trad. it. Contro la nostra volontà. Uomini, donne e violenza sessuale, Bompiani 1976, pp. 12-13, 15. Brownmiller si colloca nell’ambito del femminismo «radicale» della seconda ondata. Rappresentata anche da autrici come Kate Millet (Sexual Politics [1969]; trad. it. La politica del sesso, Rizzoli, Milano 1971) e Shulamith Firestone (The Dialectc of Sex. The Case of Feminist Revolution [1970]; trad. it. La dialettica dei sessi, Guaraldi, Firenze 1971), l’ala radicale del femminismo della seconda ondata ha sostenuto che l’oppressione storica delle donne debba essere ricondotta a una causa specificamente sessuale e che, tuttavia, la cultura, la scienza o la tecnologia possano superare il sistema gerarchico consolidato. Per un’introduzione sulla seconda ondata del femminismo (1968-1980), cfr. A. Cavarero, F. Restaino, Le filosofie femministe. Due secoli di battaglie teoriche e pratiche, Mondadori, Milano 2002, in part. pp. 143-172.

[12] Alla questione dell’impunità è associata quella della spettacolarizzazione della violenza e del cameratismo, componente fondamentale della violenza di gruppo: cfr. W. Sofsky, Saggio sulla violenza, cit., pp. 85-100, 145-164. Per l’autore, l’esercizio di violenza contro gli inermi è una pratica che rafforza il senso di totalità e la potenza degli autori. Sulla violenza nei confronti dei deboli: cfr. A. Cavarero, Orrorismo, ovvero della violenza sull’inerme, Feltrinelli, Milano 2007.

[13] Com’è noto, per Hobbes alla madre spetta per natura il dominio sui figli: non perché lei, partorendo, ha dato loro la vita ma perché la sopravvivenza dei neonati dipende da lei. Quest’ultima ha, dunque, il «potere di salvarl[i] o di distruggerl[i]»: cfr. T. Hobbes, Elements of Law, Natural and Politic (1650); trad. it. Elementi di legge naturale e politica, 2, IV, 3, La nuova Italia, Firenze 1972, p. 194.

[14] Platone, Repubblica, II.III 359c-360c.

[15] Tucidide, La Guerra del Peloponneso, V, 105, enfasi aggiunta.

[16] Commentando il passo di Tucidide, Nietzsche sottolinea che, nell’ambito di rapporti di potenza pressocché pari, conviene invece accordarsi: in questi termini la giustizia nasce come patteggiamento e scambio. Cfr. F. Nietzsche, Menschliches, Allzumenschliches. Ein Buch für freie Geister (1878); trad. it. Umano, troppo umano, Newton, Roma 1993, I, fr. 92, pp. 554-555.

[17] Vi sarebbe, dunque, un collegamento tra potere inteso come dominio (la possibilità di dominare altri) e potere inteso come capacità (il possesso del potere di esercitare dominio, l’esserne capace). Spiega MacKinnon: «una donna “è” quello che voi avete fatto “essere” le donne. Questo “è” la donna, come la pensano gli uomini. Hanno il potere di farlo; lo fanno – altrimenti il potere non avrebbe nessun significato» (C.A. MacKinnon, Le donne sono umane? cit., p. 22). Cfr. anche ivi, p. 108: «gli uomini stuprano […] perché, e quando, possono, così che qualunque cosa accresca opportunità, accesso e impunità, accresce la violenza». Al contrario, Erich Fromm afferma che le due accezioni tendenzialmente si escludono a vicenda, salvo nel caso della personalità autoritaria per la quale la semplice «vista di una persona impotente» fa scattare il desiderio di «attaccarla, dominarla, umiliarla». Cfr. E. Fromm, Escape from Freedom (1941); trad. it. Fuga dalla libertà, Edizioni Comunità, Milano 1979, pp. 144, 149.

[18] C.A. MacKinnon, Le donne sono umane? cit., p. 36.

[19] Per un paragone con il femminismo italiano, si veda a questo proposito Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel, in Ead., Sputiamo su Hegel e altri scritti, Scritti di Rivolta femminile, Milano 1974, pp. 19-61, in part. p. 23.

[20] Cfr. C.A. MacKinnon, Le donne sono umane? cit., p. 11, dove l’autrice specifica che il proprio femminismo «è una teoria di come l’erotizzazione del dominio e della sottomissione crea il genere, la donna e l’uomo nelle forme sociali in cui li conosciamo. Per questo, la differenza sessuale e la dinamica dominio-sottomissione si definiscono reciprocamente». Per un confronto, C. Pateman, The Sexual Contract (1988); trad. it. Il contratto sessuale, Editori Riuniti, Roma 1997, pp. 3-25 e T. Pitch, Un diritto per due, Il Saggiatore, Milano 1998, p. 149, dove si definisce la violenza sessuale come «un fatto sociale totale».

[21] Parafrasando Adrienne Rich, alcune femministe sostengono che il linguaggio che definisce l’atto sessuale «è il linguaggio dell’oppressore» (cfr. A. Rich, The Burning of Paper Instead of Children [1968-1970]). Per fare soltanto un esempio, si pensi all’utilizzo del termine «penetrazione» in luogo di espressioni come «cingimento». Per una riflessione sull’incommensurabilità nel rapporto sessuale, cfr. J-L. Nancy, L’«il y a» du rapport sexuel (2001); trad. it. Il «c’è» del rapporto sessuale, SE, Milano 2002.

[22] Cfr. A. Cavarero, Il femminile negato. La radice greca della violenza occidentale, Pazzini, Rimini 2007.

[23] C.A. MacKinnon, Feminism Unmodified, cit., pp. 32-45; C.A. MacKinnon, Le donne sono umane? cit., pp. 26-32.

[24] In Precarious Life: The Powers of Mourning and Violence (2004), Judith Butler riflette sulle vite non degne di lutto pubblico, definendole come «irreali», «negate in partenza»: cfr. J. Butler, trad. it., Vite precarie. I poteri del lutto e della violenza, postmedia, Milano 2013, p. 56.

[25] Come nota Brownmiller, per lungo tempo l’unica violenza che assume rilevanza sociale è lo stupro nei confronti di una vergine. In questo caso, però, è il padre a subire un torto: l’aggressore lo priva del valore economico-patrimoniale che la verginità della figlia rappresenta. Cfr. S. Brownmiller, Contro la nostra volontà, cit.

[26] Sottolineano l’importanza di uno studio della violenza contro le donne in una prospettiva storica Simona Feci e Laura Schettini nel volume a loro cura, dal titolo La violenza contro le donne nella storia. Contesti, linguaggi, politiche del diritto (secolo XV-XXI), Viella, Roma 2017. Cfr. in part. l’introduzione intitolata Storia e uso pubblico della violenza contro le donne (ivi, pp. 7-39).

[27] MacKinnon ricorda che soltanto nel 1874 la Corte Suprema del North Carolina condannò per la prima volta negli stati Uniti un uomo per violenze contro la moglie, rigettando l’allora in vigore «vecchia legge», che permetteva ad un uomo di frustare la propria moglie purché usasse uno strumento di larghezza non superiore al proprio pollice. Lo ius corrigendi restò, comunque, diffuso fino alla metà del secolo successivo: cfr. C.A. MacKinnon, Sex Equality, Foundation Press, New York 2001, p. 724. Con riferimento all’ordinamento italiano, gli esempi potrebbero essere molti. In particolare, nel nostro paese la riforma del diritto di famiglia è del 1975, ma molti interventi nel campo del diritto penale sono addirittura successivi: la qualificazione dello stupro come reato contro la persona è del 1996, il reato di stalking e atti persecutori è stato introdotto nel 2009, la legge c.d. contro il femminicidio è del 2013, del 2019 è il pacchetto di disposizioni noto come «Codice Rosso». Sul versante giurisprudenziale, si pensi almeno alla sentenza Cass. Pen. n. 51059 del 2013 che interveniva ad annullare una precedente decisione che riconosceva come «futili» i motivi che avevano indotto un padre ad aggredire la figlia e a tentarne l’omicidio perché «si era sentito disonorato dalla figlia, la quale non solo aveva avuto rapporti sessuali senza essere sposata da minore, ma aveva avuto tali rapporti con un giovane di fede diversa», non reputando la Corte di Cassazione per nulla «lieve né banale la spinta che [aveva] mosso l’imputato ad agire».

[28] Ne sono consapevoli già Andromaca e le altre principesse troiane. Per una lettura dell’Iliade, si vedano in particolare i due saggi paralleli redatti da Rachel Bespaloff e Simone Weil sullo sfondo degli orrori Novecento: R. Bespaloff, De L’Iliade (1943); trad. it. Sull’Iliade, Adelphi, Milano 2018 e S. Weil, L'Iliade ou le poème de la force (1939-40); trad. it. L’Iliade o il poema della forza, Asterios, Trieste 2023. Bespaloff sottolinea in particolare la distanza tra la guerra antica e la guerra moderna, essendo quest’ultima una guerra «totale» nella quale il riconoscimento e la «stima reciproca» diventano impossibili (cfr. Sull’Iliade, cit., p. 61). Per Weil in ogni caso la guerra «pietrifica», «trasforma gli uomini in cose», dal momento che l’esplosione della forza nega la «distanza» e «l’intervallo in cui abita il pensiero» (L’Iliade o il poema della forza, cit., pp. 71, 55). Per un confronto tra Bespaloff e Weil: L. Sanò, Donne e violenza. Filosofia e guerra nel pensiero del Novecento, Mimesis, Milano-Udine 2012, in part. pp. 93-187. Per un commento a più voci sulla condizione di Andromaca e delle altre donne divenute bottino di guerra nell’antichità, cfr. Alberto Camerotto, Katia Barbaresco, Valeria Melis (a cura di), Il grido di Andromaca. Voci di donne contro la guerra, De Bastiani, Vittorio Veneto (TV) 2022.

[29] Risoluzione ONU n. 1820 del 2008. Inoltre, soltanto dal 1993 la violenza contro le donne è considerata una violazione dei diritti umani: cfr. Dichiarazione n. 48/104 del 1993 sull’eliminazione della violenza contro le donne, adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite; a questo riguardo, cfr. in part. C.A. MacKinnon, Are Women Human? And Other International Dialogues, Harvard University Press, Cambridge, MA 2006.

[30] Cfr. C.A. MacKinnon, Le donne sono umane? cit., p. 18.

[31] Cfr. C.A. MacKinnon, Le donne sono umane? cit., pp. 127-140. Questa tesi è stata ritenuta inaccettabile da altre autrici, ad esempio nell’ambito del femminismo italiano della differenza. Si veda, tra tutte, la posizione di Lia Cigarini (La politica del desiderio, Pratiche Edizioni, Parma 1995, in part. pp. 59-61). Per un’introduzione sul femminismo giuridico italiano, cfr. A. Simone, I. Boiano, A. Condello, Femminismo giuridico. Teorie e problemi, Mondadori, Milano 2019.

[32] Cfr. C.A. MacKinnon, Sex Equality, cit., p. 32.

[33] Si veda a questo riguardo, a titolo di esempio, la riflessione proposta da Walter Benjamin (Zur Kritik der Gewalt [1921]; trad. it. Per la critica della violenza, cit., p. 14): «il potere conservatore del diritto è anche potere che minaccia. E la sua minaccia non ha il senso dell’intimidazione, come l’interpretano teorici liberali mal istruiti. All’intimidazione in senso proprio appartiene una determinatezza che contraddice l’essenza della minaccia e che nessuna legge raggiunge, dato che si spera sempre di farla franca. La legge appare tanto più minacciosa quanto più assomiglia al destino, da cui ultimamente dipende se il delinquente incorre nei suoi rigori». In quest’ottica, «In quanto mezzo [del potere] ogni violenza o instaura o conserva il diritto» (ivi, p. 17).

[34] Com’è ben noto, Arendt distingue il potere dalla violenza, spiegando che quest’ultima ha un carattere strumentale (è finalizzata a moltiplicare la forza naturale) e richiede una guida e una giustificazione. Cfr. H. Arendt, On Violence (1970); trad. it. Sulla violenza, Guanda, Parma 1996, pp. 6, 37, 41, 48, 51, 72.

[35] Cfr. E. Resta, La certezza e la speranza. Saggio su diritto e violenza, Laterza, Roma-Bari 2006.

[36] C.A. MacKinnon, Women’s Lives, Men’s Laws, Harvard University Press, Cambridge, MA 2005, pp. 107-108.

[37] Questo ragionamento è al centro di una serie di critiche recenti provenienti dal c.d. movimento «femminista abolizionista» contro lo Stato e la violenza istituzionalizzata. Nel saggio manifesto scritto da A.Y. Davis, G. Dent, E.R. Meiners, B.E. Richie nel 2022 (Abolition. Feminism. Now [2022]; trad. it. Abolizionismo. Femminismo. Adesso, Alegre, Roma 2023), si legge, infatti, che «sostenendo che il sistema penale abbia la capacità e il dovere di «proteggere le vittime di violenza» il femminismo carcerario autorizza lo Stato a usare le leggi e le forze dell’ordine per legittimare l’esercizio del potere: lo Stato giudica e controlla i comportamenti considerati «cattivi», definendo «cattive» le persone che commettono atti criminali. Questa impostazione dà per scontato che l’oppressione di genere sia un’esperienza uguale per tutte, riassumibile nel fatto che singoli uomini cisgender commettono violenza contro singole donne cisgender, e che lo Stato debba intervenire apportando cambiamenti alle leggi, creando nuove politiche di arresto, condannando più persone, estendendo l’incarcerazione e sviluppando altre strategie carcerarie. Il risultato non è una maggiore sicurezza o giustizia bensì una maggiore criminalizzazione ai danni dei gruppi marginalizzati» (ivi, p. 131, enfasi aggiunta).

[38] C.A. MacKinnon, Le donne sono umane? cit., p. 93.

[39] C.A. MacKinnon, Sex Equality, cit., p. 32.

[40] C.A. MacKinnon, Le donne sono umane? cit., p. 93; C.A. MacKinnon, Butterfly Politics, Harvard University Press, Cambridge, MA 2017, pp. 325-331.

[41] C.A. MacKinnon, Butterfly Politics, cit.

[42] C.A. MacKinnon, Sex Equality, cit., p. 2. 

[43] N. Alderman, The Power, Viking, New York 2016.

[44] Su guerra e violenza dal punto di vista femminile si vedano classicamente, tra molte altre, le riflessioni di Virginia Woolf in Three Guineas (1938); trad. it. Le tre ghinee, Feltrinelli, Milano 2014.

[45] C.A. MacKinnon, Feminism Unmodified, cit., p. 8.

[46] Com’è noto, la violenza è spesso descritta e raffigurata attraverso una particolare insistenza sulla vittima: per un commento si veda M. Bettaglio, N. Mandolini, S. Ross (a cura di), Rappresentare la violenza di genere. Sguardi femministi tra critica, attivismo e scrittura, Mimesis, Milano-Udine 2018.

[47] Cfr. inter alia C. Pecorella, Violenza di genere e sistema penale, in «Diritto penale e processo», 9, 2019, pp. 1181-1187, in part. p. 1184.

[48] Già Günther Anders aveva letto la metamorfosi dei rapporti affettivi tra i sessi negli Stati Uniti degli anni Quaranta come la causa di uno stato di anarchia sentimentale (cfr. G. Anders, Lieben gestern. Notizen zur Geschichte des Fühlens [1986];  trad. it. Amare, ieri, Bollati Boringhieri, Torino 2004). Nel 1979, Franco Ferrarotti collegava l’emancipazione delle donne alla recrudescenza della violenza maschile nei loro confronti, al fine di riaffermare un «diritto di proprietà assoluto»: cfr. F. Ferrarotti, Alle radici della violenza, Rizzoli, Milano 1979, in part. pp. 17, 123-131. Il tema è stato successivamente ripreso da Lea Melandri: l’autrice individua forme della violenza che sarebbero il segno del cedimento di un ordine precedente, «di una libertà che si manifesta imprevista là dove l’uomo si era illuso finora di vedere il fondamento sicuro del suo agire»: cfr. L. Melandri, Amore e violenza. Il fattore molesto della civiltà, Bollati Boringhieri, Torino 2011, p. 71.

Per un’analisi dell’identità maschile in chiave storica e critica, cfr. D.D. Gimore, Manhood in the Making. Cultural Concepts of Masculinity (1991); trad. it. La genesi del maschile. Modelli culturali della virilità, La nuova Italia, Firenze 1993; E. Badinter, XY. De l’identité masculine (1992); trad.it. L’identità maschile, Longanesi, Milano 1993; P. Bourdieu, Il dominio maschile, cit.; S. Bellassai, La mascolinità contemporanea, Carocci, Roma 2004; S. Ciccone, Essere maschi. Tra potere e libertà, Rosenberg & Sellier, Torino 2009; N. Mattucci, Nei limiti del particolare. Ripensare il maschile oltre il patriarcato, in N. Mattucci (a cura di), Corpi, linguaggi, violenze. La violenza contro le donne come paradigma, Franco Angeli, Milano 2016, pp. 31-43.

[49] Per una panoramica, con riferimento al diritto penale sostanziale e processuale, cfr. A. Massaro, G. Baffa, A. Laurito, Violenza assistita e maltrattamenti in famiglia: le modifiche introdotte dal c.d. codice rosso, in «Giurisprudenza penale», 3, 2020, pp. 1-9; P. Pittaro, Il c.d. «Codice rosso» sulla tutela delle vittime di violenza domestica e di genere, in «Famiglia e diritto», 7, 2020, pp. 735-741; A. Valsecchi, «Codice rosso» e diritto penale sostanziale: le principali novità, in «Diritto penale e processo», 2, 2020, pp. 165-173.

[50] È nota la tesi di Butler secondo la quale il genere è una norma che siamo tenuti a performare e reiterare continuamente: cfr. Gender Trouble (1990); trad. it. Questione di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità, Laterza, Roma-Bari 2017. Nota MacKinnon che il modello di femminilità diffuso, che finisce per creare la «donna» come gruppo sociale, è «docile, dolce, passivo, materno, vulnerabile, debole, narcisista, infantile, incompetente, masochista, domestico, dedito alla cura dei figli, della casa e del marito». Inoltre, il paradigma femminile è sempre associato alla sessualità: «socialmente, femminile significa femminilità, che significa attrazione per gli uomini, che sta per attrazione sessuale, cioè per disponibilità sessuale in termini maschili». Viceversa, l’immagine paradigmatica del «maschio» resta complementare e opposta: egli è – deve essere – attivo, forte, dirompente, «predatore», dalla sessualità sempre pronta ed esibita: «la virilità», infatti, «è la quintessenza identitaria del genere maschile», è un imperativo cui gli uomini devono conformarsi per essere riconosciuti come tali e per fuggire dalla stigmatizzazione. Cfr. C.A. MacKinnon, Towards a Feminist Theory of the State, cit., p. 110.


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Serena Vantin è ricercatrice a tempo determinato di tipo b in Filosofia del diritto presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Bologna.

Si è occupata prevalentemente di storia della filosofia del diritto; di diritto antidiscriminatorio, teorie critiche del diritto e femminismo giuridico; dei rapporti tra diritto, etica e tecnologie.

Tra le sue pubblicazioni: L’eguaglianza di genere tra mutamenti sociali e nuove tecnologie (Pacini 2018); Il diritto di pensare con la propria testa. Educazione, cittadinanza e istituzioni in Mary Wollstonecraft (Aracne 2018); Gli eguali e i diversi. Diritto, manners e ordine politico in Edmund Burke (Mucchi 2018); Il diritto antidiscriminatorio nell’era digitale (Wolters Kluwer 2021); Mary Wollstonecraft (Altamarea Ediciones 2023).

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