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Di Hamas, di Israele e della guerra in Medio Oriente







Hamas, Israele
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A 5 mesi dagli eventi del 7 ottobre 2023, nell’articolo che pubblichiamo oggi, Alberto Burgio riflette sulla guerra che sta infiammando la Striscia di Gaza.

È un testo di largo respiro che riflette sulle condizioni che dovrebbero verificarsi e i possibili obiettivi da porre per terminare questa contrapposizione che sta producendo morte e distruzione.

Nella seconda parte dell’articolo, invece, l’autore riflette in maniera critica sulle diverse prese di posizione nell'opinione pubblica italiana.

 

 ***

 

Se è vero che prendere posizione sugli avvenimenti più rilevanti del proprio tempo è un gesto di responsabilità e forse un dovere morale, è giusto in questo momento manifestare il proprio pensiero sui tragici sviluppi del conflitto israelo-palestinese determinati dal massacro del 7 ottobre 2023. Vorrei provare a farlo in questo articolo, non prima di avere enunciato quella che a me pare una regola di metodo non eludibile. Credo che due argomenti debbano essere tenuti ben distinti se non ci si vuole avvitare in confusioni fuorvianti.

Da una parte si tratta di riflettere e di prendere posizione su quanto sta accadendo in Medio Oriente, in particolare nella Striscia di Gaza. Dall’altra, si tratta di valutare i contraccolpi che questa guerra – la sua drammatica evoluzione, le sue atroci conseguenze – viene generando negli altri paesi, e in particolare in Europa, area del mondo per molteplici e gravi ragioni coinvolta in tutto ciò che concerne Israele e la componente ebraica della sua popolazione. Di certo tra questi due temi sussistono rilevanti connessioni, ma credo che qualsiasi riflessione debba riposare sulla preliminare e quanto più possibile limpida considerazione di ciascuno di essi.

 

 

La pace, prima di tutto

 Mentre scrivo, a cinque mesi dal massacro del 7 ottobre, la guerra continua, con conseguenze devastanti. Non è eccessivo definirla una catastrofe.

Indipendentemente dalla considerazione delle cause, ovviamente controverse, di questo nuovo capitolo del conflitto israelo-palestinese; indipendentemente dalle ragioni e dai torti che credo chiamino in causa sia la destra israeliana (per la sciagurata politica di colonizzazione) sia Hamas (per la scellerata volontà di distruggere Israele); indipendentemente anche dai giudizi sulla rispettiva condotta della guerra (il cinismo di Hamas nel farsi scudo dei civili da una parte; la pervicace volontà del governo Netanyahu di stravincere sul piano militare provocando il sistematico massacro della popolazione civile, dall’altra): indipendentemente da tutto ciò, credo che una cosa debba essere affermata prima di ogni altra al cospetto delle oltre 30mila vittime (alcune fonti palestinesi parlano di 35mila) di questa carneficina (1139 persone massacrate da Hamas nell’attacco che ha dato il via alla guerra; oltre 400 militari israeliani caduti in combattimento; 156 operatori delle Nazioni Unite; circa 30.000 palestinesi, perlopiù donne e bambini, morti sotto i bombardamenti): la guerra deve cessare immediatamente. Se soltanto prendessimo sul serio il fatto che nelle zone di guerra muore un bambino palestinese ogni dieci minuti; se soltanto considerassimo che oggi (29 febbraio 2024) 570mila abitanti di Gaza (circa un quarto della popolazione totale della Striscia) sono letteralmente alla fame, allora comprenderemmo che nessuna considerazione, di nessun genere, dovrebbe prevalere su questo imperativo.

Questo mi pare dunque il primo obiettivo immediato che, per essere praticabile, impone sacrifici e vincoli a entrambe le parti in guerra, e che credo si colleghi a un secondo obiettivo, soltanto in apparenza separato.

Il cessate il fuoco immediato implica infatti: (1) che il governo Netanyahu cessi immediatamente tutte le operazioni di guerra, ritiri le proprie truppe, consenta l’ingresso immediato degli aiuti umanitari alla popolazione civile della Striscia, ponga fine ai trasferimenti coatti della popolazione civile palestinese e rinunci formalmente al delirante progetto del «grande Israele» propugnato dai partiti religiosi; (2) che Hamas (organizzazione nata con la finalità dichiarata di cancellare Israele dalla carta geografica e per ciò stesso, di fatto, nemica dei palestinesi che vorrebbero convivere in pace con gli ebrei) liberi immediatamente e senza contropartite tutti gli ostaggi ancora in vita catturati il 7 ottobre e accetti l’immediato smantellamento di tutte le infrastrutture militari dislocate nella Striscia di Gaza.

Ma credo che non possa esservi fine delle ostilità (se non effimera e ingannevole) se non ci si prefigge anche un secondo obiettivo: la creazione di un nuovo stato di cose che prevenga nuove ostilità e ponga fine a un conflitto che dura da oltre un secolo. Fare ogni sforzo per conseguire questo secondo obiettivo sarebbe l’unica risposta all’altezza dei tragici eventi di questi mesi, che hanno irreversibilmente cambiato Israele, la Palestina e l’intero Medio Oriente.

In concreto, questo significa: (1) disporre il dispiegamento di una forza sovranazionale di interposizione contestualmente al ritiro delle forze israeliane dalla Striscia; (2) istituire un’autorità amministrativa sovranazionale che (2.1) diriga la ricostruzione in tempi brevi delle zone devastate dal conflitto e (2.2) garantisca il ritorno in sicurezza della popolazione civile costretta ad abbandonare le proprie case e i propri territori; infine, ma non certo da ultimo, (3) convocare una Conferenza di pace in una sede sovranazionale, che esamini tutti gli aspetti del conflitto israelo-palestinese con un’unica finalità: definire non una tregua, ma una «pace perpetua» tra israeliani (ebrei e no) e palestinesi (musulmani e no) – il che credo presupponga l’estromissione, da ambo le parti e di comune accordo, di tutte le fazioni estreme che semplicemente non vogliono la pace, ritenendola di per sé ingiusta e non compatibile con le proprie aspirazioni.

Non credo sia utile alla pace discutere né esprimere giudizi su queste ultime posizioni, pur sapendo che probabilmente qualche buona ragione anima il furore guerresco delle fazioni estreme nell’uno come nell’altro fronte. Semplicemente occorre comprendere che, giunte le cose a questo punto, indispensabile e urgente è porre fine a questa contrapposizione: voltare pagina, decidere che tutte le ragioni e tutti i torti maturati nel corso del tempo dall’una e dall’altra parte siano una volta per tutte messi da parte (e quanto prima, possibilmente, metabolizzati e archiviati), come è necessario fare dopo ogni grande tragedia umana, a meno che non si intenda perpetuarla.

È questa un’utopia? Un’illusione? O si tratta invece di un’ipotesi praticabile, persino realistica? Rispondere in astratto è sempre difficile. Chi dispone di un metro adeguato? Molto spesso in questi casi ci si aggira dentro un circolo vizioso. È vero che un obiettivo ambizioso può apparirci irraggiungibile alla luce di quel che sappiamo. Ma è anche vero che spesso interpretiamo una situazione in modo tale che un determinato obiettivo appare per forza di cose utopistico; dopodiché, sulla base di questo (pre)giudizio, formuliamo previsioni pessimistiche che talvolta, drammaticamente, divengono profezie capaci di auto-avverarsi. Chi nel 1942 o nel ’46 avrebbe immaginato che dopo pochi anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, sullo sfondo di conflitti di lungo periodo, si sarebbero stabiliti e via via rafforzati relazioni di amicizia e sentimenti di solidarietà tra inglesi, francesi e tedeschi o tra giapponesi e statunitensi? Il passato può passare, a meno che non si operi affinché permanga.

 

 

Un popolo, uno Stato

 Sta di fatto che proprio in questo momento buio è tornata a farsi ascoltare con forza un’idea che appare precisamente all’altezza di questa ambiziosa impostazione.

Non si tratta di impegnarsi per la ben nota soluzione dei «due Stati». Questa ipotesi non soltanto ribadisce la concezione etnicistica dello Stato e della politica che durante il secolo scorso ha funzionato ovunque come una potente incubatrice di ferocia; essa rischia anche di provocare nuovi conflitti, considerate sia la configurazione dei territori assegnati a israeliani e palestinesi, sia la loro sproporzione rispetto alle componenti della popolazione. Nel respingerla, Benjamin Netanyahu ha avuto la sfrontatezza di parlarne come di un eventuale «regalo ai palestinesi»: la verità è che il progetto dei «due Stati» riserverebbe ai palestinesi un territorio pari a circa il 22% dell’area che si estende tra il Giordano e il Mediterraneo, mentre (stando ai dati del 2022-23) i palestinesi che vivono tra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania sono oltre un terzo del totale (5.300.000 persone su 15 milioni) – una quota che sale a poco meno del 50% (circa 7.300.000 persone) se si considerano anche i cittadini arabi di Israele.

Ben oltre questo discutibile progetto, si tratta invece di battersi per la nascita di uno Stato bi-nazionale israelo-palestinese, una Repubblica federale con una Costituzione, che sorga sulla base del reciproco riconoscimento di tutte le componenti della popolazione dell’area superando una volta per tutte il carico di estraneità e di avversione reciproca accumulatosi nel tempo. Una follia? Un sogno fuori tempo di menti visionarie? Indubbiamente si tratta di un’idea minoritaria, benché ancora nel 2010 fosse sostenuta da un terzo degli israeliani di ogni fede politica e da oltre un terzo dei palestinesi. Ma nel 1947-48 era questo l’obiettivo di tutti i paesi arabi e musulmani rappresentati nella commissione Onu incaricata di esaminare le proposte alternative all’ipotesi dei due Stati, nonché il progetto sostenuto dagli ebrei socialisti dell’International Jewish Labor Bund. Per venire ad anni più vicini a noi, tra i suoi fautori figurano accademici (storici, politologi, antropologi e giuristi), scrittori e autorevoli opinionisti sia ebrei (Gideon Levy, Caroline Glick, Dan Gavron), sia palestinesi (Edward Said, Rashid Khalidi, Michael Tarazi).

Come ha scritto di recente il filosofo israeliano Omri Boehm, gli ideali che orientano la nostra azione non si dispongono fuori dal tempo e dallo spazio. Al contrario: definiscono la nostra risposta alle sfide della storia. Nel rilanciare la proposta di uno Stato federale bi-nazionale israelo-palestinese e nell’affermare che essa impone sin d’ora di trattare tutti i civili palestinesi come cittadini, al pari dei cittadini israeliani, Boehm ha osservato – credo a ragione – che questa idea «non è soltanto giusta sul piano dei principi universali», è anche l’unica in grado di evitare «che questa guerra tra combattenti degeneri in una guerra tra popoli»: è quindi l’unica proposta in grado di condurre a una pace giusta e duratura.

Quando nelle relazioni politiche si verificano accadimenti che determinano una cesura storica, si impongono scelte altrettanto radicali allo scopo di evitare che la situazione degeneri o si incancrenisca. Credo che chi immediatamente si sbarazzi di questa proposta come di una vana illusione dovrebbe considerare che di contro sussiste una certezza: se non si troverà il modo di spezzare con un atto creativo della volontà la sequenza “naturale” degli eventi, a questa carneficina farà seguito fatalmente una nuova lunghissima scia di sangue che alimenterà se stessa nel tempo, e generazioni educate all’odio seguiranno ad altre generazioni allevate nel rancore e nel desiderio di vendetta.

Si accetti o meno di far propria questa ambiziosa proposta, credo resti comunque un obbligo: quello dell’immediato riconoscimento reciproco tra comunità musulmane e di fede ebraica, tra comunità di cittadini dello Stato di Israele e comunità palestinesi. Tradotto in altri termini: è necessario e urgente che ci si sforzi di pensare non più a due popoli distinti (e, sin qui, fatalmente, l’un contro l’altro armato), ma a un unico popolo, che vive ormai stabilmente in quella regione del mondo, ricco di tradizioni, culture, fedi religiose diverse, ma non certo per questo condannato all’intolleranza e all’odio intestino.

Oltre a lasciar intravedere una luce in fondo a un lungo percorso buio e cruento, una discussione intorno a questa proposta comporterebbe a mio giudizio anche un altro vantaggio, che ci porta alla seconda questione che intendo trattare. Discutere seriamente dei presupposti politici e istituzionali della pace aiuterebbe a riconoscere chi cerca sinceramente una via di uscita dal conflitto e a distinguerlo con chiarezza da chi non vuole invece congedarsi da una storia di rancore e di guerra. Aiuterebbe a propiziare il bando delle fazioni estreme, mosse da pulsioni nazionalistiche, razziste o teocratiche – così in Israele e in Palestina, come negli altri paesi del Medio Oriente e nelle altre regioni del mondo a vario titolo coinvolte in questa guerra infinita.

 

 

Una situazione aberrante

 Quest’ultimo accenno alle posizioni estreme vale anche per una parte non trascurabile degli spettatori della catastrofe di Gaza, a cominciare da molti abitanti del continente – l’Europa cristiana – che per due millenni ha visto continue persecuzioni e discriminazioni degli ebrei, pogrom e ghetti, segregazioni, deportazioni e stermini di ineguagliata ferocia.

Considerando questo tema – il secondo argomento che desidero trattare – assumo che tutti, senza eccezione, assistano sgomenti alla tragedia che si abbatte quotidianamente sulla popolazione civile di Gaza e delle altre città della Striscia. Non credo si possa non provare angoscia, non sentire ogni giorno più grave il peso del dolore e del lutto, così come immagino che nessuna persona responsabile possa non trepidare per le sorti dei palestinesi, per le angosce degli israeliani (primi fra tutti i famigliari degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas) e per il futuro di tutti, poiché questa guerra, sempre a rischio di internazionalizzarsi, minaccia ogni giorno di più quel che resta della pace mondiale. E tuttavia, pur ammettendo che così sia, nondimeno ci si divide nella lettura degli eventi, si contende sulle cause, sulle colpe, sulle possibili e auspicabili soluzioni.

Mi pare ci si divida in particolare tra chi ritiene prioritario (incondizionatamente necessario) che la guerra si fermi subito e pensa che la pace implichi – come si è detto – il riconoscimento reciproco di tutti i soggetti coinvolti; e chi, al contrario, pur auspicando a parole o in linea di principio che le armi tacciano quanto prima, subordina tuttavia questo obiettivo alla vittoria militare di una delle parti, poiché ritiene che una pace «giusta» implichi l’affermazione prevalente o unilaterale delle sue ragioni.

Oggi quest’ultima posizione – la posizione di chi è (o si dichiara) affranto per gli spaventosi costi umani del conflitto; assicura di desiderare la fine della guerra e possibilmente anche una pace duratura; ma è al tempo stesso convinto che quest’ultima passi per la vittoria di una delle parti e per la sconfitta dell’altra – questa posizione è probabilmente maggioritaria. E in Italia produce quella che a me pare una situazione aberrante, che vede una parte della cosiddetta sinistra radicale sistematicamente (pregiudizialmente) avversa a Israele, e una parte della destra (la destra «in doppiopetto», che si guarda bene dal fare seriamente i conti con la propria storia indecente, culminata nel collaborazionismo repubblichino, nei rastrellamenti e nelle deportazioni degli ebrei italiani ad Auschwitz) in prima fila tra i fans di Netanyahu.

Su un punto, ancor prima di entrare nel merito delle diverse posizioni, credo sia necessario fare chiarezza preliminarmente. Che questo modo di porsi sia maggioritario e faccia proseliti non costituisce in alcun modo una prova della sua fondatezza (tanto più che accomuna le opposte tifoserie). Più probabilmente dimostra soltanto che la guerra diseduca, imbarbarisce e corrompe diffondendo l’impulso a schierarsi, a indossare una divisa e a impugnare (almeno idealmente) le armi.

Ciò premesso, per capire perché si verifichi questo stato di cose, si tratta di passare in rassegna le motivazioni dell’una e dell’altra tifoseria, motivazioni solo in parte esplicite (più spesso invece implicite, nascoste o inconfessabili, persino inconsapevoli) e che naturalmente non sono in blocco condivise da chiunque si riconosca nell’uno o nell’altro schieramento. Questo esame non è utile perché le opinioni della massa degli spettatori del conflitto in corso in Medio Oriente influiscano di per sé in un qualunque modo sulle sorti della guerra. Solo chi sia pieno di sé può immaginare che le sue convinzioni contino qualcosa sulla scena della storia. È invece utile, questo esercizio, perché le motivazioni sottese alle diverse posizioni parlano di noi: di chi siamo e di come stiamo cambiando. E mi pare che purtroppo il più delle volte formulino messaggi poco edificanti.

 

 

Riscrivere la propria storia

 La prima motivazione esplicitamente addotta dalla destra di governo nel sostenere Israele è in linea di principio inappuntabile: si tratta del diritto all’autodifesa di uno Stato sovrano attaccato da un’organizzazione terroristica. Ce n’è poi una seconda connessa alla geopolitica. Israele è uno snodo strategico del sistema di alleanze del quale l’Italia è parte, e rappresenta un fattore di stabilità nella regione e un fondamentale baluardo contro la componente oltranzista del mondo islamico, capeggiata dall’Iran. Da questo punto di vista, ribadire il sostegno a Israele è per la destra al governo (come per le maggiori forze oggi all’opposizione) un obbligo a priori.

Credo però che queste ragioni dichiarate spieghino solo in parte le remore della destra italiana nel criticare la gestione brutale del conflitto da parte del governo di Tel Aviv. Riconoscere le ragioni di Israele non dispensa dall’aggiungere che la risposta delle forze armate israeliane guidate dal governo Netanyahu è del tutto fuori misura e non esime dall’agire di conseguenza in tutte le sedi politiche internazionali. Così come non impedisce di dire che il sacrosanto diritto di Israele di reagire a un massacro come quello del 7 ottobre – un massacro attentamente pianificato e prodotto da una dichiarata volontà di sterminio – non giustifica in alcun modo l’uccisione indiscriminata di decine di migliaia di civili inermi e incolpevoli, nemmeno se di quei civili gli autori del massacro si fanno criminalmente scudo. Penso che questa reticenza e questa inerzia disvelino altre motivazioni, meno limpide e in parte indicibili.

Le prime – sottaciute perché imbarazzanti – hanno a che fare con calcoli di politica interna e con la questione dell’immigrazione. La destra italiana trova utile ammiccare alla destra israeliana e farsela amica anche perché Netanyahu è motore di un progetto di controriforma del sistema politico israeliano (in particolare per ciò che attiene agli equilibri di potere tra Governo, Parlamento e Corte suprema) che, ove approvato, trasformerebbe lo Stato in un regime monocratico e il capo del Governo in un plenipotenziario: qualcosa di molto simile a quello che Meloni e i suoi degni alleati sperano di infliggere al nostro paese. Sul governo israeliano attualmente in carica Amos Gitai ha pronunciato parole che credo meritino attenzione: «Viviamo in uno tsunami ideologico alimentato da Netanyahu e dalla sua coalizione fatta di estremisti di destra ultraortodossi e razzisti». Oltre a ciò, prendere posizione contro Hamas può aiutare nella campagna islamofobica della componente identitaria del governo italiano capeggiata da Salvini. Il massacro del 7 ottobre si presta, per la sua sconvolgente barbarie, a nutrire l’immaginario razzista di chi teme le orde musulmane e l’«invasione dei clandestini». Così il sostegno a Israele è anche un messaggio obliquo rivolto all’elettorato destrorso per rafforzare stereotipi ed educare all’odio.

Ma c’è ancora – e questa è invece del tutto inconfessabile – una ragione più profonda all’origine delle stucchevoli prese di posizione filo-israeliane di tanti «patrioti» post-fascisti italiani. Questa ragione consiste nell’intento di riscrivere la propria storia al fine di far dimenticare le complicità dei propri progenitori – mai rinnegati – nelle deportazioni e nello sterminio nazifascista degli italiani di religione ebraica. Fa quindi specie ma non deve sorprendere questa smania filo-israeliana («mai in disaccordo con Tel Aviv») di chi al tempo stesso nega l’ispirazione antifascista della Costituzione repubblicana e celebra la memoria delle foibe in compagnia dei naziskin; di chi intitola strade e piazze e dedica convegni al «fucilatore» Giorgio Almirante, già segretario di redazione della «Difesa della Razza»; di chi rivendica il diritto di esprimere le proprie opinioni levando il saluto fascista; di chi si riempie quotidianamente la bocca di Patria, Nazione e Identità cristiana e in Europa si allea con Orbán – per non dire, naturalmente, di chi blatera di «amicizia sacra con Israele» mentre si accoppia con i neonazisti di Alternative für Deutschland.

 

 

Stato, governo, popolazione

 E che dire della sinistra pro-palestinese? A me pare che, speculare (qui in molti casi si tratta dell’avversione pregiudiziale nei confronti di Israele), il paesaggio sia analogo e altrettanto inquietante.

Alla denuncia esplicita e del tutto condivisibile delle violazioni dei diritti dei palestinesi a Gaza e in Cisgiordania; della illegittimità degli insediamenti coloniali nei territori occupati; delle violenze compiute dai coloni israeliani organizzati in bande paramilitari – si affianca non di rado una motivazione latente che di volta in volta si avvale di ragioni contingenti, ma che in molti casi costituisce il tema ispiratore e il denominatore comune delle critiche: la convinzione della illegittimità storica di Israele, l’avversione radicale nei confronti di quello che suole essere variamente definito uno Stato «coloniale» o «razzista» e viene su questa base frequentemente assimilato al Sudafrica dell’apartheid.

Ecco allora che, per quanto riguarda la guerra in corso, molti critici di sinistra hanno subito sostanzialmente dimenticato il massacro del 7 ottobre, disinteressandosi della sua fonte immediata (la dichiarata volontà di Hamas di distruggere Israele e di cancellare la presenza ebraica nella regione), ignorandone l’enormità (centinaia di persone inermi macellate in poche ore, decapitate, violentate, torturate in base a un piano di attacco volto a fornire una inequivocabile dimostrazione di ferocia) e la valenza epocale (per tanti in Israele si è trattato né più né meno che di rivivere l’atroce esperienza dello sterminio nazista), e finalmente derubricandolo a «normale risposta» ai torti di Israele, secondo i ripetuti proclami di Hamas. Ed ecco anche un trattamento – cementato da stereotipi e pregiudizi più o meno inconsapevoli – che non ha luogo nei riguardi di nessun altro paese.

Quando a sinistra si parla di Israele si tende spesso a non distinguere tra lo Stato (l’entità politico-storica) e il governo di volta in volta in carica: la parte politica (nel caso del gabinetto Netanyahu, il governo più a destra della storia d’Israele, erede diretto del fondamentalismo che armò la mano dell’assassino di Itzhak Rabin), con la quale viene immediatamente identificato l’intero della popolazione. E non rileva allora né la molteplicità delle posizioni (in un paese tradizionalmente attraversato da profonde contrapposizioni); né la presenza operosa di un imponente movimento pacifista; né la lotta politica che scuote il paese spesso drammaticamente e che investe anche la grande questione del rapporto con la popolazione palestinese e con la componente araba della cittadinanza israeliana; né, infine, il fatto che, data la censura governativa sui principali media, poco o nulla la gente in Israele sa di quanto sta accadendo da mesi nella Striscia di Gaza.

Qui finalmente emerge quello che, a mio giudizio, è in definitiva il punto chiave dell’intera questione – e che riguarda non soltanto la sottocultura di una parte della sedicente sinistra radicale ma più in generale sentimenti, passioni e pregiudizi diffusi nel paese senza distinzioni di classi, età e orientamento politico.

 

 

Il ritorno di un rimosso

 Per prevenire equivoci, prima di affrontare questo tema scottante ripeto quanto già puntualizzato: non penso affatto che chiunque critichi la conduzione della guerra da parte del governo Netanyahu – ciò che io stesso sto facendo senza mezzi termini – incorra in questi errori; allo stesso modo non ho la pretesa di sapere né intendo affermare che quanto sto per dire a proposito di ulteriori motivazioni non dichiarate e forse in parte inconsapevoli coinvolga la totalità dei critici pro-palestinesi. Penso però che la confusione dei piani e la condivisione più o meno inconsapevole di pregiudizi inconfessabili abbiano luogo di frequente, poiché gli slittamenti di cui stiamo trattando hanno luogo in forza di associazioni abitudinarie, di luoghi comuni e di stereotipi ben radicati, e chiamano in causa un tratto profondo – vorrei dire strutturante – della cultura e dell’identità europea.

Credo che, ove si trattasse soltanto di contrapposizioni politiche (compresa la guerra, che della politica è un’espressione estrema), gli animi non si accenderebbero come puntualmente avviene quando si discute di Israele e delle sue vicende, né le passioni più violente avrebbero il sopravvento. Viene qui fuori il tasto più dolente, non per caso rimosso: un tasto osceno, che accomuna parti di entrambi gli opposti schieramenti, ma che ovviamente suscita sconcerto e dolore soprattutto quando coinvolge settori o organizzazioni della sinistra. Questo tasto si chiama antisemitismo (o, più precisamente, antiebraismo o antigiudaismo), un tema che sistematicamente banalizziamo, al di là delle parole di circostanza, e tabuizziamo, data la sua enormità etica e politica e la sua pervasività storica e culturale.

Non è questo naturalmente il luogo per affrontarlo anche solo per titoli. Suggerisco di riprendere in mano quanto scrisse Sartre all’indomani della Seconda guerra mondiale: i cristiani – ne siano o meno consapevoli – percepiscono gli ebrei come loro antitesi, negazione determinata della loro identità. Nella misura in cui si definiscono in base a tratti peculiari – le tradizioni e i valori della propria comunità; la sua cultura, la sua fede, le sue liturgie – percepiscono come irrimediabilmente estraneo chi, per destino e vocazione, perché costretto da millenni a «vivere altrove», nomade e apolide, ha storicamente incarnato la negazione del particolarismo, la delegittimazione dei confini, e ha per di più osato dubitare della sacralità delle istituzioni religiose dominanti. Di qui, al di là del contingente, un’avversione pervicace, profonda, costitutiva e pervasiva, tanto più cieca perché commista al risentimento nei confronti di chi, per la sua storia, ha particolare consuetudine con il libro e con l’arte. Ed ecco allora che – con qualche imbarazzo, a mezza bocca e sorridendo, quasi si trattasse di battute scherzose – sempre di nuovo il discorso ricade su complotti e lobbies internazionali; sui rapporti privilegiati con la finanza e la speculazione(o l’usura); sul controllo degli organi di stampa; sull’occupazione del mondo della cultura e delle professioni.

Non è sempre una scelta e raramente si tratta di pregiudizi consapevoli. È piuttosto un clima, un’atmosfera, che orienta valutazioni e pensieri con tanta maggior forza quanto più gravi sono i propri inconsci sensi di colpa. Di certo si deve dire che una grande tragedia della modernità europea e italiana resiste a una presa di coscienza all’altezza della sua potenza devastante. Con essa si è scelto di convivere, al di là delle commemorazioni di rito. Ma la rimozione non impedisce alle pulsioni di erompere, anzi lo impone ogni qualvolta se ne dia l’occasione, e una guerra non è che l’occasione più propizia. Di fatto la cifra antisemita (antiebraica) di molte critiche emerge inconfutabile: sia che si insulti Liliana Segre con l’attribuirle frasi mai pronunciate; sia che si neghi la volontà sterminatrice di Hamas contraddicendo i suoi stessi proclami; sia che si svolga il bizzarro ragionamento secondo cui la ferocia della guerra – tragica sempre – sarebbe particolarmente odiosa quando a imbracciare le armi sono i figli o i nipoti dei sopravvissuti alla Shoah, ai quali evidentemente si ritiene competa per diritto ereditario il ruolo della vittima; sia, infine, che dalle accuse al governo israeliano per le colonie e la guerra si trascorra rapidamente a teorizzare l’illegittimità storica di Israele per poi coinvolgere nelle invettive o nelle aggressioni gli ebrei in quanto tali. Penso che a questo riguardo valga la pena di fermarsi a riflettere su qualche dato.

In Italia i «crimini antisemiti» commessi in quattro mesi (tra l’ottobre 2023 e il gennaio 2024) hanno eguagliato il totale di quelli registrati durante tutto il 2022. Gli episodi di antisemitismo (insulti e messaggi di odio, minacce verbali e aggressioni fisiche) sono in rapido aumento: tra il 2022 e il 2023 sono pressoché raddoppiati, passando da 241 a 454. Ovviamente non si tratta di una tendenza soltanto italiana; il fenomeno riguarda indistintamente tutta l’Europa, a cominciare dalla Francia, dalla Germania e dal Belgio, ove risiedono le comunità ebraiche più numerose. Ma altrettanto ovviamente non è questo un motivo di consolazione.

 

 

Nessuno di questi veleni

 Come dicevo, questo stato di cose riguarda noi – italiani ed europei – ed è sostanzialmente irrilevante rispetto al teatro bellico (il che dovrebbe favorire un confronto sereno delle opinioni). Di certo non saranno i nostri convincimenti né gli slogan scanditi in questo o quel corteo a decidere se i bombardamenti e i trasferimenti forzosi dei civili nella Striscia di Gaza continueranno o meno – fermo restando che è inaccettabile (un indice preoccupante della regressione politica in atto nel nostro paese) il ricorso alla violenza da parte della polizia per impedire a ragazzi delle scuole di manifestare pacificamente il proprio pensiero, com’è accaduto ancora in questi giorni a Firenze e a Pisa.

I giudizi che ho cercato di discutere parlano soltanto di noi. Nella misura in cui producono effetti concreti è perché cambiano, il più delle volte in peggio, quanti li formulano. La guerra induce al furore, alimenta passioni, spinge al radicalismo anche gli spettatori, che potrebbero invece osservare i dettami della prudenza. Così, da una parte, nella misura in cui la propaganda anti-islamica della destra ha successo, altra benzina è gettata sul fuoco del razzismo, dell’intolleranza e della xenofobia contro le popolazioni del Sud. Per contro, nella misura in cui fa proseliti la propaganda anti-israeliana, si alimenta l’avversione contro gli ebrei, anche contro gli ebrei italiani o tedeschi o francesi, assurdamente identificati con l’attuale governo autoritario di Israele.

È evidente: nessuno di questi veleni ci libererà dalla guerra, nessuna invettiva aiuterà a costruire la pace in Medio Oriente e tanto meno a far sì che per tutti i loro abitanti Israele e la Palestina diventino – per ricordare le parole del grande Cesare Cases – una «vera Terra Promessa in cui sia possibile l’essere miti senza essere vittime, la felicità senza sopraffazione, la religiosità senza Dio, l’attività senza maledizione del lavoro, l’attaccamento alle cose senza il denaro, la cultura senza il suo ruolo repressivo». Quello che anche questa guerra ha scatenato sono i nostri fantasmi che, riconquistata la scena, ci rendono peggiori di quel che vorremmo.


***


Alberto Burgio storico della filosofia e condirettore della collana «Labirinti» di DeriveApprodi, ha dedicato diversi studi al pensiero politico, con particolare riferimento al marxismo. È autore di volumi su Marx (Modernità del conflitto. Saggio sulla critica marxiana del socialismo, 1999; Il sogno di una cosa. Per Marx, 2018), Gramsci (Gramsci storico. una lettura dei «Quaderni del carcere», 2003;  Per Gramsci. Crisi e potenza del moderno, 2008; Gramsci. Il sistema in movimento, 2014), Labriola (Un marxismo «alquanto aristocratico», 2023. Membro del Comitato scientifico dell’Edizione Nazionale delle Opere di Antonio Labriola, ha curato l’edizione critica del saggio In memoria del Manifesto dei Comunisti (2021) e (in collaborazione) quella di Discorrendo di socialismo e di filosofia (in corso di pubblicazione). Per Machina cura, con Marina Lalatta Costerbosa, la sezione «spigoli».

 

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