Arnaldo Bagnasco è tra i più importanti sociologi italiani e non ha certo bisogno di presentazioni. I suoi lavori sul ceto medio e lo sviluppo economico sono analisi indispensabili sia per chi ha la necessità di governare la società che per chi vuole trasformarla radicalmente. Questo perché la capacità analitica della sua sociologia non nasconde – non mistifica potremmo dire – il conflitto tra interessi contrapposti che caratterizza le società capitalistiche. In altre parole ha il pregio di essere intrisa di realismo, ingrediente fondamentale sia della buona scienza che della buona politica militante. L’approccio «regolazionista» usato da Bagnasco ci consente di vedere bene come il mercato, lo Stato e altri dispositivi istituzionali siano regolati, appunto, non solo in funzione dell’accumulazione e dello sviluppo economico ma anche e anzi soprattutto in funzione del governo del conflitto di classe. In maniera un po’ grossolana potremmo dire che a seconda dei profili (che sono storicamente determinati e che dipendono da una serie di variabili sociali, storiche, culturali, economiche, politiche) che assume la «regolazione», essa produce forme specifiche di ceto medio la cui funzione è la mediazione del conflitto di classe. Gli ultimi preziosi elementi di questa intervista che in via introduttiva meritano di essere sottolineati sono i concetti di «ceto» e di «classe» che richiamano quelli di «composizione tecnica» e «composizione politica» di classe del metodo operaista e che, come questi ultimi, ibridando Marx e Weber, permettono un materialismo non determinista attento all’annoso problema della soggettività.
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Per iniziare e per offrire ai lettori una profondità teorica al tema del ceto medio le chiederei di illustrarci, nei limiti di quanto le è possibile nello spazio di un'intervista, i concetti di «classe» e «ceto» che, nel suo lavoro, sono fondamentali per definire questo corpo sociale che si trova nel mezzo della stratificazione sociale.
I sociologi non sono bene attrezzati a ragionare di ciò che si trova nel mezzo della scala sociale, c’è sempre un certo imbarazzo. Per alcuni si tratta di un terzo incomodo, che non merita tanta attenzione, perché è uno spazio destinato a scomparire; per altri la classe media è niente meno che il tessuto connettivo della società, pensava così già Aristotele; imprenditori e commercianti che hanno innovato il mondo e sviluppato l’economia, scalzando vecchie classi nobiliari, erano considerati classe media; negli Stati Uniti middle class ha significato il vero americano che si dà da fare raggiungendo una sua posizione sicura, nell’interesse generale. Le cose cambiano nel tempo: Wright Mills, che le ha studiate in America dopo la guerra, distingue vecchie e nuove middle class, concludendo che si tratta di una insalata mista di occupazioni. Nel mezzo della stratificazione si distingue una nebulosa di elementi eterogenei. La nebulosa esiste, in qualche modo bisogna pensarla nel suo insieme, anche perché corrisponde a un modo di vedere corrente.
Le teorie della stratificazione hanno seguito diverse strade capaci di generare ricerche empiriche per spiegare fenomeni del funzionamento e del cambiamento della società. Sono d’accordo con chi ha concluso che è finita l’epoca dei gradi paradigmi interpretativi e che ci si orienta a ibridare elementi che provengono da approcci diversi. Detto questo, i riferimenti classici più significativi rimangono Marx e Max Weber. Il primo riferisce le classi alla divisione sociale del lavoro, che però non si semplifica come pensava, ma si sviluppa in professioni più differenziate; Max Weber, che pensa una classe come specifica posizione di mercato, attrezza uno schema capace di tenere in conto la varietà di posizioni, contestando il determinismo economico di Marx e introducendo la categoria di «ceto».
«Ceto» si riferisce alla distribuzione del prestigio sociale, a differenze di stile di vita, di valori condivisi, un ordine che deriva da elementi culturali e anche garantito da norme giuridiche e disposizioni politiche; in una società di classi, la posizione di ceto dipende anche da quella di classe, e i due principi vanno visti nel loro innesto in una situazione concreta. In sostanza, quella di Weber appare a molti come un’attrezzatura più analitica, che risponde anche alla percezione della complicazione che il capitalismo andava assumendo, con la differenziazione strutturale che investiva la sua organizzazione.
In queste condizioni, anche osservando quanto avviene nella pratica di ricerca, prendiamo atto: del fatto che non esiste «una» classe media e che non è mai esistita (l’insalata mista di professioni); del fatto che il termine può e viene usato al plurale per distinguere le professioni dell’insalata; che un modo di tentare di superare l’ostacolo concettuale di differenze di classe è ridurle a differenze di reddito o patrimonio (interessante, ma anche limitativo); che quanto a ceto l’uso al plurale è diffuso per indicare insiemi unificati su base diversa, permettendo di cogliere aspetti importanti della stratificazione; e si pone la domanda: può la nebulosa centrale essere identificata come «ceto medio» al singolare? Penso di sì, ma va tenuto conto di quanto ha suggerito Anthony Giddens: i ceti e le classi, secondo le circostanze, sono più o meno strutturati e dunque visibili, ciò che significa che le persone si orientano nei loro comportamenti più o meno a condizioni che con i nostri strumenti analitici possiamo distinguere come di ceto o di classe; tenuto conto di ciò, possiamo usare ceto medio riferito a una costruzione culturale e politica, intrecciata a determinazioni di classe, di un insieme relativamente omogeneo, che può strutturarsi in certe circostanze e momenti; la teoria della stratificazione evolve non in un contesto isolato, per continue riflessioni su se stessa, ma rispondendo allo sviluppo del capitalismo e più in generale dell’evoluzione della società moderna.
Altri due concetti strettamente legati ai primi e altrettanto fondamentali per la comprensione di che cos'è il ceto medio sono quelli di «base sociale della regolazione» e di «forma della regolazione». Può illustrarci brevemente cosa intende con queste categorie e quali sono state le loro declinazioni concrete nello sviluppo capitalistico italiano? Uso intenzionalmente il plurale perché, come lei ha scritto, l'Italia presenta una pluralità di «basi sociali» e di «forme della regolazione».
Il termine «regolazione» rimanda a uno specifico approccio che, in più versioni, chiamiamo political economy; questo riguarda le condizioni istituzionali (di regole sufficientemente condivise) all’interno delle quali si svolge il gioco economico di mercato. La spiegazione degli andamenti dei diversi sistemi nazionali in termini di crescita economica, integrazione sociale e qualità democratica (obiettivi da rendere compatibili e far crescere insieme in una società avanzata) è cercata con riferimento agli assetti e alle azioni di stato, mercato, società. Una forma di regolazione è dunque uno specifico assetto istituzionale che stabilizza il funzionamento e individua le tensioni di cambiamento di tali diverse combinazioni nazionali. Le «basi sociali» sono le strutture della società da regolare, in particolare classi e ceti, che in forme istituzionalizzate secondo un modello assestato, trovano il modo di esprimersi confermando o cercando di cambiare assetti regolativi. Il tutto visto nel quadro di cambiamenti in corso nel contesto sociale internazionale. Non posso rispondere rapidamente ai due interrogativi, che richiedono lo spazio per indicazioni su situazioni complesse e complicate dalla storia, stratificate e intrecciate in un sistema nazionale relativamente giovane come il nostro. Posso però, come esempio, riferirmi alla scala regionale, certamente molto importante e della quale mi sono occupato. Anni fa ho proposto un modello della società italiana come articolazione di tre formazioni regionali: il nord-ovest della grande industria, il meridione del sottosviluppo, l’emergente allora centro-nordest della piccola e media imprese. Erano tre modelli teorici da usare nella ricerca, ognuno dei quali con sue specifiche basi sociali di partenza e in trasformazione, e con specifici assetti istituzionali di regolazione. Per esempio, il Mezzogiorno vedeva il ruolo importante dello stato, nel nord-ovest pesavano imprenditori e operai delle grandi fabbriche, il centro-nordest era la zona del paese con maggiore regolazione di mercato, che però funzionava perché sostenuto e bilanciato da specifici assetti sociali, per esempio della famiglia, e da sistemi politici congruenti. Oggi le cose si sono modificate, ma si vedono ancora le tracce di quei modelli e vale l’esempio che ho fatto come modo per interpretare le situazioni attuali.
Ormai da tempo si parla di una questione del ceto medio per segnalare l'esaurimento delle condizioni che ne hanno permesso la formazione. Per ragioni molteplici è terminato il compromesso fordista-keynesiano, che dava una forma politica al capitalismo organizzato, ma si è esaurita anche la promessa della globalizzazione con il risultato che il ceto medio ha subito un impoverimento relativo ma anche abbastanza rapido. Quali sono stati i processi che hanno portato a questo declassamento del ceto medio? Secondo lei è possibile leggere il populismo come l'epifenomeno sul piano politico di questi processi?
Per rispondere, come prima cosa dobbiamo precisare il significato che ceto medio ha assunto ai tempi del compromesso fordista-keynesiano. In quegli anni, per effetto dello sviluppo economico e della redistribuzione dei sistemi di welfare, indipendentemente dall’essere autonomo o dipendente, nel settore pubblico o in quello privato, in posizioni professionali diverse – differenze che pure sono importanti, perché individuano modi diversi e anche conflittuali di stare nel ceto medio, livelli e combinazioni diverse delle risorse – essere ceto medio significava posizioni medie e cresciute nella scala dei redditi e dei consumi, oltre ad aumentato grado di istruzione, relativa sicurezza nelle prospettive di lavoro, protezione dai rischi della vita. E si può dire che questa era percepita come una condizione di acquisita piena cittadinanza sociale. Le cose sono cambiate negli anni della reazione neoliberista, con i suoi fenomeni di crisi, e verso la fine del secolo si è manifestata sul piano sociale anche una crisi del ceto medio, più o meno marcata nei paesi (forte per esempio negli Stati Uniti, in Italia, in Francia). Se la fase precedente era marcata da un tropismo verso il centro della piramide di stratificazione, in quello successivo la tendenza è diventata quella della polarizzazione sociale con un centro ridimensionato. Osservare le vicende del ceto medio faceva capire dunque molto del cambiamento sociale nella prima fase; nella seconda, è diventato importante considerare la polarizzazione sociale. Bisogna però, a mio parere, fare attenzione. Certamente un po’ ovunque il ceto medio è stato «strizzato», ma credo si possa dire che il centro non si è per questo svuotato: è diventato meno omogeneo, le posizioni sono più sgranate e sono tornate differenze professionali di classe nell’orientare gli individui, è meno strutturato (nel senso, già spiegato, di Giddens). La globalizzazione disordinata e priva d’istituzioni di regolazione efficaci, non ha rispettato le sue promesse e nelle fibrillazioni politiche che sono seguite dobbiamo anche comprendere i fenomeni di populismo, sovranismo, di sistemi democratici ammaccati. All’origine di questi fenomeni, c’entra anche il declassamento di parti almeno del ceto medio, ma non direi che siano solo un epifenomeno della crisi del ceto medio.
Per chiudere due domande rivolte al futuro. Dopo una pandemia, sull'onda lunga della crisi capitalistica del 2008 (anche se la fine del compromesso fordista-keynesiano è ancora precedente), a ridosso di una guerra nel cuore dell'Europa che sta ridefinendo l'architettura della globalizzazione, in una fase segnata da alcuni importanti processi (la digitalizzazione del lavoro, il «Green New Deal», il ritorno dello Stato segnalato da alcuni analisti, una relativa revisione dell'austerity con il Pnrr) in che modo si sta ridisegnando il profilo della base sociale? Possiamo intravedere il tentativo da parte delle élite di governo nazionali ed europee di ricostruire una nuova forma di regolazione?
Tutti i fatti indicati che stimolano le successive domande avranno certamente conseguenze sulla futura base sociale di una possibile futura regolazione, che torni ad avere capacità di controllo. Credo però che sia troppo presto per capirne la composizione e la natura. Anzitutto perché non sappiamo come quei fatti evolveranno e in che combinazione. Inoltre, perché dipenderà da scelte politiche fatte o non fatte o fatte in certo modo piuttosto che in altro. La digitalizzazione del lavoro al momento sembra poter avere conseguenze polarizzanti, il «Green New Deal» forse può giocare a favore di uno sviluppo culturale omogenizzante, componente importante di base sociale, ma stimola anche differenze di interessi che si mescolano. Il ritorno dello stato è certamente importante e l’Unione Europea, fra molte difficoltà, si è mossa bene, lasciando anche intravedere possibili sviluppi di consolidamento, ma le resistenze da vincere sono forti. La strada intrapresa dall’Unione è proprio in direzione di una nuova forma di regolazione, un assetto istituzionale in grado di regolare un sistema di stati nazionali ognuno con assetti compatibili. Non è facile, ma le élites economiche, culturali, politiche che le nostre democrazie sapranno esprimere saranno responsabili delle scelte decisive che dicevo. Siamo portati a pensare la forza e invadenza di quelle economiche; ma in realtà non dobbiamo per niente sottovalutare la capacità d’impatto autonomo di politica e cultura.
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Arnaldo Bagnasco, tra i più importanti sociologi italiani. Tra le pubblicazioni più note si ricordano: Tre Italie – La problematica territoriale dello sviluppo italiano (Il Mulino, 1977), L’Italia in tempi di cambiamento politico (Il Mulino, 1996), Taccuino sociologico (Laterza, 2012) e La questione del ceto medio. Un racconto del cambiamento sociale (Il Mulino, 2016)
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