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Javier Milei, un nuovo uso politico della libertà

Tra la battaglia culturale e la battaglia morale, alle origini dell'affermazione de La Libertad Avanza

 



Javier Milei

Andrea Fagioli ci porta alle origini del fenomeno Milei, spiegando i motivi che hanno portato all'affermazione del nuovo presidente, tra specificità argentine e riflessioni che invece riguardano il panorama politico più complessivo di questa fase. Quali le ragioni che hanno portato alla vittoria di Milei? Secondo l'autore ci sono due ordini di motivi forti. Uno ha a che fare con l'idea di libertà: La Libertad Avanza è riuscita a mettere elettoralmente a valore la voglia di essere più liberi di argentine e argentini, soprattutto tra i più giovani. Una seconda motivazione riguarda la casta, ovvero la rabbia contro la forza politica considerata responsabile del deterioramento delle condizioni di vita di buona parte della popolazione, che ha spinto una parte dell’elettorato a votare l’outsider.


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«Prove tecniche di dittatura o monarchia (neoliberale)». Si potrebbero usare queste parole per descrivere le prime settimane di Javier Milei alla Casa Rosada. Il DNU (Decreto di necessità e urgenza) del 20 dicembre e la Ley Omnibus — un pacchetto di 600 misure che il Parlamento dovrà approvare — eliminano diritti conquistati in decenni di lotte, permettono la vendita di 41 imprese pubbliche, dalla compagnia petrolifera YPF a Aerolíneas Argentinas, e risorse naturali, in primo luogo quel litio di cui l’Argentina è ricca e che fa gola a molti, a partire da Elon Musk. Inoltre, bypassano il Congresso e danno poteri speciali per due anni (prorogabili) al presidente. Mi pare che quella che l’ex precandidato a presidente Juan Grabois ha definito «una riforma costituzionale de facto» riveli soprattutto il sogno eterno delle classi dominanti argentine: rifondare la società. 

La capacità di portare avanti questo disegno è tutta da vedere e dipenderà dagli accordi parlamentari che il nuovo governo saprà tessere — il partito di Milei, La Libertad Avanza (LLA), è ben lontano dalla maggioranza nelle due camere, anche includendo i non pochi alleati saltati sul carro finora — ma, soprattutto, dalla resistenza che incontrerà a tutti i livelli, a partire dalla piazza.

Sicuro che la congiuntura mi obbligherà a tornare a parlare ben presto di Argentina, voglio qui soffermarmi sull’origine «democratica» — nel senso di legittima secondo le regole della democrazia rappresentativa — di questa svolta conservatrice e autoritaria. Qualcosa che non ha precedenti nel paese sudamericano.

 Se si escludono i giorni a ridosso del ballottaggio — giorni in cui Milei ha abbassato molto i toni — il nuovo presidente non ha mai occultato un programma fatto di tagli alla spesa pubblica, compresi tutti i sussidi, come energia e trasporti, che hanno un forte impatto nella vita di argentine e argentini, privatizzazioni e distruzione del «pubblico». Un programma che definisce la giustizia sociale un’aberrazione, dove brilla per la sua assenza ogni misura tesa a sostenere il mercato interno, e quindi l’impiego, e in cui l’interesse del settore privato (di un pugno di attori) è il principio ordinatore delle politiche pubbliche. Nonostante questo, Milei ha stravinto il ballottaggio contro il peronista di centro Sergio Massa, sfiorando il 56% dei voti e il 10 dicembre, giorno dell’insediamento, la celebre Plaza de Mayo di Buenos Aires era piena di manifestanti che celebravano euforici el ajuste (le politiche di austerità) a venire. «No hay plata» (Non c’è un soldo) dicevano le maglie indossate da molti simpatizzanti. Non è la prima volta che in Argentina una svolta conservatrice viene festeggiata in piazza: nel settembre del 1955, quando un colpo di Stato autodenominato Revolución Libertadora (Liberatrice) aveva messo fine al governo di Juan Domingo Perón, l’instaurazione della dittatura era stata salutata da manifestazioni di appoggio. In quel caso, però, a scendere in piazza era stata soprattutto la piccola e media borghesia urbana. Con Milei, è invece la prima volta che una parte niente affatto marginale dei settori popolari appoggia un governo che dice a chiare lettere che attaccherà radicalmente le sue condizioni di vita.

Se la nuova destra è arrivata nello scenario politico argentino per restarci e, come sostiene Ernesto Calvo sulla versione argentina de Le Monde Diplomatique[1], può segnare un momento fondativo, un’epica originaria, è a mio parere fondamentale cercare di capire la caratteristiche di un fenomeno che ha elementi in comune con esperienze come quella statunitense e brasiliana, ma che per altri versi se ne distanzia abbastanza radicalmente; evidente in questo senso è l’assenza di qualsiasi riferimento nazionalista, come dimostra il fatto che Milei rivendichi apertamente la grande nemica dell’Argentina Margareth Thatcher come uno dei suoi modelli politici[2].

Mi concentrerò qui su due elementi per cercare di spiegare o, meglio, per proporre un’ipotesi sulle ragioni che hanno portato Milei alla presidenza: l’idea di libertà e quella di casta, al centro rispettivamente di quelle che possiamo definire una battaglia culturale e una battaglia morale.

 

Libertà

Il modo in cui è circolata l’idea di «libertà» nel dibattito argentino degli ultimi anni è un elemento chiave per analizzare il successo dell’ultradestra liberale. «¡Viva la libertad. Carajo!» — più o meno: «Viva la libertà. Cazzo!» — è lo slogan che ha reso celebre Milei. Lo ha scritto nel libro ufficiale della Casa Rosada appena preso possesso del bastone presidenziale, ma soprattutto lo ripete in maniera ossessiva fin da prima della sua discesa in politica, quando questo economista dalla produzione scientifica mediocre — stando per lo meno alle metriche che tanto piacciono ai sostenitori dell’accademia globale[3] — e dalla violenta incontinenza verbale, era gradito ospite nei talk show televisivi che gli hanno dato fama. Lo ripete ancora oggi quando arringa i passeggeri di un aereo a cui tocca in sorte di viaggiare con lui o quando sale a sorpresa sul palco per salutare il pubblico dopo uno spettacolo della fidanzata imitatrice Fátima Flórez.

La «libertà» si è collocata al centro di una battaglia culturale molto aggressiva. La Libertad Avanza ha sequestrato la parola e, grazie a una campagna spregiudicata, portata avanti soprattutto sui social network più frequentati dai giovanissimi, è riuscita a mettere elettoralmente a valore la voglia di essere più liberi di argentine e argentini.

Basata sulla concezione della scuola economica austriaca, la libertà dei libertari è una libertà sempre individuale e negativa. Anche se si tratta di una libertà economica — in ultima istanza è libertà del capitale — rimanda alla protezione dell’individuo dalle limitazioni degli altri, dalla «tirannia» dello Stato.

Lo zoccolo duro dei sostenitori di Milei è costituito da un gruppo di giovani, in particolare maschi tra i 16 e i 30 anni, che si sono politicizzati nell’ultimo biennio. Nati dopo gli anni dell’egemonia del Consenso di Washington o troppo piccoli per ricordarne in prima persona gli effetti, per questi giovani l’aggettivo «liberale» non è una parolaccia. Si rivendicano orgogliosamente di destra, sono furiosamente anti-femministi, spesso antiaborto; molti di loro consumano testi della Hoover Institution, del blog dell’Istituto Mises, ma anche degli epigoni locali che divulgano idee libertarie sui social network, in particolare Tik Tok. Indipendentemente dalle condizioni economiche personali, appoggiano un programma che ha nella «motosega» il suo cavallo di battaglia: taglio di molti ministeri, della pressione fiscale, della base monetaria, la cui riduzione è vista come l’unico rimedio per uscire dalla spirale inflazionistica endemica nel paese, etc. Come ha sottolineato la ricercatrice Melina Vázquez, si tratta di giovani estremamente critici dell’esperienza kirchnerista, ma che dal kirchnerismo riprendono forme di organizzazione e di militanza giovanile. Questa è senza dubbio uno dei tratti peculiari della nuova destra argentina: a differenza del governo di Mauricio Macri (2015-2019), quello di Milei ha un supporto tra i giovani che contendono alla sinistra e al peronismo la storica egemonia nelle piazze. Per adesso — nel momento in cui scrivo non è ancora passato un mese dall’insediamento — questo nucleo sembra disposto a difendere le politiche economiche del nuovo presidente anche a costo di vedere deteriorate le proprie condizioni materiali di vita.

A ogni modo, se il liberalismo di Milei ha vinto la battaglia dell’immaginazione politica, come ha affermato il politologo Pablo Méndez[4], questo non si deve solo al nucleo di giovani che si stanno formando politicamente come liberali, ma anche al fatto che la «libertà» a cui fa appello non ha un significato univoco e riesce a interpellare soggetti che la pensano in modo diverso.

 Il 29 novembre — Milei era da poco più di una settimana il presidente eletto —  un articolo firmato da Federico D’Addario sul quotidiano Pagina12, narrava uno scambio di battute andato in scena nel sottopassaggio di una delle stazioni della linea del treno Mitre, i cui vari rami collegano il centro della città con lo sterminato hinterland occidentale della capitale argentina. Protagonisti: un ambulante e due poliziotti che, senza troppa convinzione, lo vogliono far sloggiare. Quando la temperatura del battibecco sale, il venditore di pomodorini e ciliegie reclama ai poliziotti che gli stanno «togliendo la libertà di lavorare dove voglio», prima di proseguire con: «è finita l’epoca in cui non ci lasciate lavorare». Uno dei poliziotti, che nel frattempo sono aumentati in numero, risponde a quel punto infastidito: «No, non è finito niente. Per voi è finita la festa»[5].

Nel caso dell’ambulante la libertà sembra essere pensata in relazione a quello Stato che fa la vita impossibile a chi cerca di sbarcare il lunario. Chi s’arrangia con lavoretti, a volte anche al limite tra la legalità e l’illegalità, è stanco di uno Stato che esige permessi e licenze e che spesso identifica con il suo più diretto interlocutore: la polizia. Per l’altro protagonista della scena, l’elezione di Milei è «la fine della festa» per chi vive di espedienti, come l’ambulante, ma soprattutto è la fine delle politiche dei diritti umani, che gli legano le mani. Il nuovo protocollo per il mantenimento dell’ordine pubblico annunciato dalla ministra Patricia Bullrich il 14 dicembre, che punta a rendere illegale la protesta sociale, e le nuove norme sulla legittima difesa contenute nella Ley Omnibus, danno la sensazione che uomini e donne in divisa non dovranno rendere troppo conto di eventuali «eccessi», al contrario, conteranno sull’appoggio totale del potere esecutivo.

Una spinta fondamentale a una determinata maniera di pensare la libertà è arrivata inoltre dall’orizzonte No-Vax. L’esplosione di Milei in termini elettorali è riconducibile al periodo successivo alla lunghissima quarantena. Nel momento in cui venivano organizzati falò di quelle mascherine diventate da un momento all’altro parte della nostra quotidianità. Nel caotico panorama di quei mesi convivevano in piazza la domanda di vaccini «occidentali» — si reclamavano Pfizer e Moderna, nel momento in cui venivano somministrati Sinopharm e Sputnik —, le accuse di un avvelenamento di massa e le denunce degli affari delle multinazionali farmaceutiche. La critica al governo per alcuni scivoloni tanto incomprensibili e innocui, quanto ingiustificabili e potenti sotto il profilo simbolico, ha fatto montare la rabbia soprattutto nei segmenti non garantiti, lavoratori informali o autonomi per cui restare a casa significava nel migliore dei casi non guadagnare niente e nel peggiore accumulare perdite notevoli. Ma in generale, si è cominciata a generalizzare in quel contesto un’idea di libertà come assenza di condizionamenti, assenza di interferenze.

La libertà negativa dei liberali ha fatto breccia tra chi vuole essere libero da chi difende i diritti umani o sociali, da chi impedisce di lavorare dove si vuole, da chi non permette di uscire di casa senza motivi comprovabili, da chi obbliga a vaccinarsi, da chi esige un permesso su una App per prendere l’autobus o la metro, etc. È su questo terreno che certi aneli di libertà hanno incontrato — ovviamente non in maniera casuale — la frangia più ideologizzata del voto libertario.

La domanda è quanti tra quanti sono stati sedotti da quest’idea di libertà continueranno a sostenere il progetto liberale nel momento in cui cominceranno a essere più visibili gli effetti della stagflazione, il mix tra inflazione e contrazione dell’attività economica che il governo stesso si aspetta nei prossimi mesi e che già si profilano all’orizzonte dopo poche settimane di governo. Su questo si dovrà tornare in futuro.

 

La casta

Milei ha guadagnato quasi 26 punti percentuali tra il primo e il secondo turno. È importante cercare di capire come un programma incendiario come il suo sia riuscito ad attrarre tante preferenze tra quanti non lo avevano votato al primo turno. Il primo elemento da tenere in considerazione è l’antiperonismo. Dagli anni Quaranta del Novecento, il peronismo divide le acque in Argentina, molto più della classica divisione sinistra-destra, da cui è attraversato. L’antiperonismo, diventato negli ultimi 15 anni antikirchnerismo, come risposta alla versione egemonica del peronismo, garantisce una base di voti a qualsiasi candidato che si presenti come opposizione. Nonostante il candidato «moderato» Massa[6], e nonostante l’appoggio tiepido di buona parte dello storico antagonista del peronismo, l’Unión Cívica Radical (UCR), è evidente che il sentimento antiperonista prevale in una parte dell’elettorato.

Ma questo sentimento non spiega del tutto il successo di Milei. In un momento di crisi, come quella dell’Argentina degli ultimi anni, la battaglia culturale di cui si è parlato sopra è stata accompagnata dalla battaglia morale contro la «casta», che ha avuto la strada spianata anche dalla crisi di un paese che al momento delle elezioni faceva registrare un’inflazione interannuale del 140% e una svalutazione della moneta che spingeva verso il basso i salari reali nonostante la scala mobile[7]. La rabbia contro la forza politica considerata responsabile del deterioramento delle condizioni di vita di buona parte della popolazione ha spinto una parte dell’elettorato a votare la novità, l’outsider.

 «Tiene miedo, la casta tiene miedo» (La casta ha paura). I cori da stadio, intonati dai più giovani sostenitori di Milei hanno accompagnato tutta la campagna elettorale. Un dejà-vu che rimanda ad almeno due momenti chiave del recente passato argentino, ma che ha con questi differenze profonde.

Il più vicino in ordine di tempo è il 2008. In quell’occasione, la modifica dello schema impositivo sulle esportazioni della soia aveva portato al conflitto tra il cosiddetto «campo», i produttori agropecuari, e il governo dell’allora presidenta Cristina Fernandez de Kirchner. Il governo aveva fatto leva su una polarizzazione in chiave populista: popolo versus élite. La cosiddetta «grieta» (crepa o spaccatura) nata in quel momento aveva ricodificato la classica divisione peronismo/antiperonismo: da una parte la patria (kirchnerista), una patria che il kirchnerismo immaginava progressista e inclusiva, neokeynesiana/postneoliberale ma non anticapitalista — vale la pena ricordare che sulle rive del Rio de la Plata non c’è stato nessun riferimento al socialismo del nuovo secolo, come in Venezuela o in Bolivia, e anche in politica estera c’è stata una timidezza maggiore — e dall’altra parte una élite costituita dagli attori più rilevanti del settore agroesportatore, con interessi opposti a quelli del popolo. Questa spaccatura era stata però rilanciata, da destra, da tutto il fronte antikirchnerista, che a sua volta ha diviso le acque tra l’Argentina produttiva, in primo luogo le province di Córdoba, Mendoza, Santa Fe e parte della provincia di Buenos Aires, e l’Argentina sussidiata, principalmente l’hinterland di Buenos Aires, che secondo questa narrativa vivrebbe delle tasse ai produttori. Emblematiche, in questo senso, le manifestazioni moltitudinarie con la consegna «El campo somos todos» (Il settore agro siamo tutti), in una regione, come l’America Latina, dove la concentrazione della terra continua a essere uno dei problemi fondamentali. A ogni modo, complice la fine del ciclo economico espansivo e il ripiegamento del kircherismo sull’agenda dei diritti (matrimonio egualitario, identità di genere, etc.), quella opposizione è riuscita ad agglutinare intorno alla figura di Mauricio Macri, allora governatore della città di Buenos Aires ed espressione dell’élite economica, tutte le forze contrarie al kirchnerismo, ad eccezione del trotskismo ma inclusi «pezzi» di peronismo, e dare vita a una coalizione che si è affermata nelle elezioni del 2015.

 Ma più ancora il sentimento anti-casta era emerso nelle giornate di dicembre 2001, quando la consegna era «¡Que se vayan todos!» (Che se ne vadano tutti). Il periodo della convertibilità — la parità peso/dollaro — che aveva assicurato al paese un’inedita stabilità monetaria durante gli anni 90, ma costata molto a livello sociale in termini di crollo dell’occupazione e dell’aumento delle diseguaglianze, era esploso in faccia agli argentini nel tristemente celebre «corralito»: l’impossibilità di ritirare i soldi dai propri conti. Come ha affermato lo storico Pablo Stefanoni, in quel caso si erano trovati fianco a fianco quelli che erano sempre stati contro il neoliberalismo e quelli che lo avevano celebrato, ma ne erano stati traditi[8]. L’incapacità di rappresentare i movimenti sociali da parte del peronismo, che veniva associato alle riforme neoliberali — e non è un caso che Milei consideri l’allora presidente, Carlos Menem, il miglior presidente argentino della storia —, aveva favorito l’emergere di un movimento trasversale contro chi aveva amministrato il modello — il peronismo e la Alianza di de la Rúa—, ma anche contro i grandi attori economici.

Anche se la parola «casta» non era stata usata, il «campo» nel 2008 e l’establishment politico-economico nel 2001 occupavano quello spazio. Milei, invece, l’ha introdotta nel dibattito politico argentino spiegandola in questi termini nel corso di un’intervista al canale del quotidiano conservatore La Nación nel 2021: «quelli che sono in politica sono immorali» e che non esitano a mettere in pratica politiche «che causano danno alla gente e che per proteggere i privilegi della casta, dicono: no, non si puó fare altro». Un Milei fresco di elezione a deputato indicava nella stessa intervista che avrebbe «messo in evidenza chi è la casta». A questa definizione totalmente vuota, e perfettamente applicabile alla macelleria delle prime settimane del suo There is no alternative à la Thatcher, aggiungerà contenuto nella stessa intervista, affermando: «a differenza del disastro del 2001, 2002, 2003 che ha avuto una soluzione a sinistra, oggi c’è una soluzione veramente liberale, la soluzione di Alberdi che ha fatto sì che l’Argentina fosse il paese più ricco del mondo»[9].

Due elementi saltano all’occhio. Non solo dalla definizione di casta di Milei rimane fuori il capitale concentrato, al contrario del 2001 e del 2008, ma si rimanda all’Argentina dell’Ottocento come paradiso perduto (Alberdi fu uno dei padri del liberalismo latinoamericano e della Costituzione argentina del 1853). Inoltre Milei dà un passo avanti in direzione autoritaria rispetto a tutte le destre che hanno avuto un certo peso dal ritorno alla democrazia in poi (1983): se durante il governo macrista si faceva riferimento ai «settanta anni di peronismo» per alludere alla decadenza argentina — lasciamo da parte che in questo calcolo venissero inclusi 18 anni di proscrizione del peronismo e quasi 17 di dittature — Milei parla di 100 anni, includendo così nel «populismo» anche l’altro grande partito argentino, l’Unión Civica Radical (UCR) alleata del macrismo, e sovrapponendo quasi integralmente decadenza e suffragio universale maschile[10]. Il liberalismo del periodo della cosiddetta Repubblica Conservatrice o Repubblica Oligarchica, un’epoca marcata dall’impossibilità dei settori subalterni di godere materialmente dei pochi diritti formali che avevano, è il passato mitico a cui si aspira a tornare. Quel liberalismo che per Milei non è per tutti, ma per «le persone buone e gli argentini perbene», ha cominciato a escludere fin dall’11 dicembre, quando i volti dei suoi simpatizzanti erano ancora bruciati per le molte ore passate sotto il sole ad acclamare l’inizio di una nuova epoca.



Note

[1] E. Calvo, Un nuevo actor político, Le Monde Diplomatique, dicembre 2023. https://www.eldiplo.org/294-que-nos-espera/un-nuevo-actor-politico/

[2] Margareth Thatcher era la Premier inglese all’epoca della guerra delle Malvinas, che è ancora un tema abbastanza presente nella politica estera argentina. 

[3] Dal database di Scopus emerge che dal 1998 a oggi Milei ha pubblicato 2 articoli (uno come co-autore) e non ha ricevuto alcuna citazione.

[4] P. Méndez, Milei y la batalla por las ideas, Revista Bordes, 15 agosto 2023. http://revistabordes.unpaz.edu.ar/milei-y-la-batalla-por-las-ideas/

[5] F. D’Addario, A ustedes se les acaba la joda, Pagina12, 29 novembre 2023. https://www.pagina12.com.ar/690118-a-ustedes-se-les-acaba-la-joda

[6] Nelle elezioni presidenziali del 2015 Massa si era candidato contro il candidato kirchnerista Daniel Scioli, ottenendo il 20% dei voti al primo turno e «dirottandoli» su Macri al ballottaggio ed è considerato molto vicino a certi ambienti dell’ambasciata (quando si parla di «ambasciata» in Argentina, non c’è bisogno di specificare «statunitense»).

[7] L’inflazione che ci si aspetta per i primi mesi di governo Milei è intorno al 30% mensile.

[8] P. Stefanoni, Peinar el 2001 a contrapelo: del «argentinazo» a la nueva derecha, Nueva Sociedad, 308, 2023, 74-87.

[9] Programma «Hora21», La Nación+, 11 dicembre 2021.

[10] La legge Saenz Peña con cui si sancì il suffragio universale maschile è del 1912, ma solo nel 1916 tutti i cittadini argentini maschi hanno potuto esercitare il diritto al voto.


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Andrea Fagioli è ricercatore presso il Consejo Nacional de Investigaciones Científicas y Técnicas (CONICET, Argentina) e insegna «Introduzione alla conoscenza della società e dello Stato» all’Università di Buenos Aires. Si occupa principalmente del problema della soggettività nel capitalismo contemporaneo, vive da quattordici anni in America Latina e ha recentemente pubblicato Ottobre cileno (Manifestolibri, 2023).

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