Pedro Sánchez a L'Aia: la NATO e il doppio gioco del PSOE
- Pablo Oliveros
- 9 lug
- Tempo di lettura: 15 min

Al vertice NATO di qualche settimana fa, un dettaglio nella foto di gruppo dei leader ha attirato l’attenzione: Pedro Sánchez, premier spagnolo, appariva isolato rispetto agli altri. Questo posizionamento nello scatto implica forse una posizione politica critica nei confronti del riarmo e della scelta di aumentare la spesa militare al 5% del PIL? Pablo Oliveros prova a spiegarci la scelta di Pedrito, restituendo la prospettiva del PSOE nel contesto storico-politico spagnolo. Più che una presa di posizione netta, osserva l’autore, si tratta del riflesso di due fattori: condizioni macroeconomiche relativamente più favorevoli rispetto all’Italia, che offrono a Sánchez un margine maggiore per attuare politiche meno austeritarie, e la volontà di non scontentare una base elettorale poco sensibile al discorso militarista.
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La scorsa settimana, un tweet di Donald Trump ha rivelato il contenuto di un messaggio inviato dall'attuale segretario della NATO all'attuale presidente degli Stati Uniti. Con un gesto che potrebbe essere definito un vero e proprio «kiss-my-ass», Mark Rutte si è congratulato con Trump per il bombardamento degli impianti nucleari iraniani. Tuttavia, è la seconda parte del messaggio ad essere davvero rilevante per il nostro contesto europeo. Con un incredibile colpo di scena – punto che nessun presidente americano avrebbe mai potuto mettere a segno, neanche nei momenti più tesi della Guerra Fredda – Rutte si è congratulato con Donald per essere finalmente riuscito a piegare i partner del vecchio continente: «L'Europa pagherà caro, come deve, e questa sarà la tua vittoria [Donald]».
Le decisioni del vertice hanno un impatto importante sulla fragile economia politica europea: la paura della guerra – stimolata da gesti come il recente «kit di sopravvivenza» – e la spesa militare al 5%, minacciano di ricreare una nuova versione della crescita guidata dal debito, nello stile dei fondi Next Generation durante la pandemia. Ma questa volta l'equazione è più perversa, poiché si scontra con il ritorno dell'austerità che già incombe alle porte. Lo scenario implica un cambiamento radicale nelle politiche di spesa dei Paesi NATO: i pagamenti delle pensioni in società che invecchiano sempre più, gli oneri del debito – soprattutto nell'Europa meridionale – e le esigenze di difesa, potrebbero finire per strangolare le ultime vestigia dello Stato sociale.
Tutto questo accade mentre svaniscono consensi e dividendi dalla Chimerica – che hanno reso possibile la globalizzazione felice degli anni Ottanta – lasciando l'Europa sempre meno in grado di nascondere il proprio ritardo tecno-economico rispetto ai concorrenti cinesi e americani [1].
Ma attenzione: la NATO, che comprende 32 Paesi che rappresentano il 50% della spesa militare globale e un PIL venti volte più grande di quello russo, chiede ora di spendere il 5% per la difesa, per una cifra quasi equivalente al PIL della Russia. Ma questa spesa è davvero giustificata dal timore per la guerra con la Russia? [2] Quest'ultima è impantanata in Ucraina, incapace di controllare il Donbass (il suo quartiere), dieci volte più povera dell'URSS e con una flotta aerea decimata da droni da mille dollari.
Il fatto preoccupante è che le élite europee sembrano più che disposte ad avviare il loro particolare percorso verso il Rapporto Draghi subordinandosi all'egemone statunitense, anche se ciò significa entrare in zona di turbolenza.
I presidenti degli Stati membri della NATO hanno proceduto a scattare la foto di protocollo dei buoni alleati a L'Aia. Ogni buon osservatore ha subito notato la posizione di Pedro Snchez, sulla destra, leggermente separato dai leader – ma non di molto, in un gesto puramente sociata [3] – dopo aver sostenuto durante il vertice che la Spagna non avrebbe firmato un aumento della spesa militare fino al 5% del PIL, come hanno fatto gli altri Stati membri.
Tuttavia, per facilitare la lettura delle mosse di Pedrito a chi si trova dall’altra parte del Mediterraneo, offriamo un rapido quadro utile a comprendere il manufatto politico rappresentato dal PSOE nella politica spagnola e ciò che è realmente accaduto dal 2012 a oggi. Un periodo che si apre con le piazze e le manifestazioni di massa e arriva fino ai giorni nostri, in cui – nonostante gli scandali giudiziari che hanno investito la dirigenza del partito, compreso l’arresto del numero tre del PSOE per un caso di concussione – il partito socialista sembra destinato a restare sulla scena ancora a lungo. Crediamo che questo lungo ciclo contenga molte chiavi di lettura per comprendere la mossa di Pedro Sánchez di rifiutare la spesa militare del 5% – notate l'ironia, per favore.
Psoe, di sinistra ma non troppo
Il PSOE tenne il suo congresso di fondazione come partito moderno a Suresnes (1974), al crepuscolo del regime franchista, con Franco costretto a letto e la Spagna sconvolta dagli scioperi operai e dall'impatto dell'assassinio di Carrero Blanco da parte dell'ETA-M. Lì emerse il «clan della tortilla» – Felipe Gonzalez, Guerra, Chaves – giovani studenti della classe media antifranchista che avrebbero seppellito il marxismo del fondatore del partito, Pablo Iglesias (tipografo e proveniente dalla Prima Internazionale, da non confondere con l'attuale leader di Podemos) per costruire una sinistra «presentabile» per l'inevitabile processo di transizione in corso. Con i finanziamenti della SPD tedesca e la tacita approvazione di settori riformisti – persino Fraga, sanguinario repressore e capo intellettuale del franchismo, capì la necessità di una socialdemocrazia «europea» in Spagna – questo rinnovato PSOE si posizionò come alternativa «ragionevole» allo stigmatizzato PCE, troppo radicale per i vincitori della «Crociata del '36».
L'operazione fu un successo: il partito passò da appena 2.000 militanti, sparsi nelle aree industriali del nord del Paese, ad attore chiave della Transizione e pilastro del Regime del '78.
Il resto in Spagna è ben noto. Vincitori delle elezioni del 1982 con Felipe Gonzalez e consolidatori della seconda parte della transizione – quella economica – sotto l'egida del felipismo: prosecuzione della «democrazia dei proprietari» iniziata con Arrese nel regime di Franco; deindustrializzazione e chiusura delle imprese statali prima dei processi di privatizzazione nei settori che riuscirono a riprendersi; trasformazione in un'economia di servizi con una forte presenza del settore turistico e finanziario, integrando capillarmente le famiglie nel binomio immobiliare-bancario; incorporazione dello Stato spagnolo nella divisione del lavoro europea; ingresso della Spagna nella NATO, tradendo così la propria base.
In poche parole: benvenuti a tutti gli spagnoli nella CEE dopo 50 anni di «carca» [4] e grigio franchismo!
Nel corso del processo di costruzione di egemonia nella sinistra spagnola, il PSOE ha messo a segno un doppio colpo: mentre difendeva a spada tratta il consenso neoliberale (privatizzazioni, deregolamentazione finanziaria, moderazione salariale e democrazia padronale) dal suo fianco social-liberale, contemporaneamente ha coltivato la narrativa del partito «aperto» e «dialogante» all'interno della democrazia europea. Questo contrasto ha definito la figura del «modernizzatore» nella politica spagnola [5], un prodotto culturale che si basa sull'idea del consolidamento della Spagna nella comunità europea, in contrasto con il regime di Franco. Qui entrano in gioco molti elementi: il consolidamento del particolare «stato sociale» spagnolo – dalla creazione del sistema sanitario e dell'istruzione pubblica alla modernizzazione delle infrastrutture e della rete stradale –; naturalmente i macroeventi che hanno posto la Spagna sul proscenio internazionale, come la celebrazione delle Olimpiadi di Barcellona e dell'Expo per il 500° anniversario della conquista dell'America – che gli spagnoli definoscono «faust (festeggiamenti) del '92».
Questa logica ha guidato molte delle decisioni del PSOE fino ad oggi. Un esempio particolarmente rilevante, data la centralità del ciclo immobiliare e delle costruzioni nell'economia spagnola, è il decreto Boyer. Questo decreto, che prende il nome dal carismatico ministro dell'Economia e delle Finanze del primo governo di Felipe González, ha gettato le basi per la finanziarizzazione dell'edilizia residenziale, aprendo la strada al successivo scoppio della bolla immobiliare nel 2008. È stata la nostra versione della Grande Recessione, quando la brusca perdita di posti di lavoro nel settore edilizio – che, nell'epoca d'oro del capitalismo spagnolo, occupava circa il 20% della popolazione – si è rapidamente trasformata in una crisi di insolvenze ipotecarie e sfratti di massa.
A quegli anni risale la riforma costituzionale promossa da Zapatero nel 2011 – sì, il presidente del famoso gesto del sopracciglio, lo ricordate dall'Italia? – in cui i due partiti di svolta dello Stato spagnolo si accordarono sull'inserimento del principio della «stabilità di bilancio». In parole povere, questo significava che il pagamento del debito pubblico imposto dalla Troika diventava la priorità assoluta dello Stato rispetto a qualsiasi altra spesa. Questa riforma ha dimostrato non solo la sottomissione dello Stato nazionale ai dettami del capitale finanziario internazionale, ma anche il ruolo subordinato della Spagna, trasformata in poco più di un parco tematico turistico all'interno dell'architettura dell'UE e della BCE, senza alcuna capacità di influenzare le decisioni centrali, imposte con il pugno di ferro dalla Germania esportatrice e onnipotente della Merkel.
Il governo più progressista del mondo e il miracolo economico spagnolo
Analizzando questi elementi, la forza del PSOE non risiede solo nella sua macchina elettorale, ma anche nelle sue radici istituzionali e culturali: un'ampia base sociale che va dai dipendenti pubblici alle classi medie urbane, una rete clientelare diffusa sul territorio e un soft power incarnato dal suo braccio mediatico (con El País come portabandiera). Questa combinazione di elementi – social-liberalismo, penetrazione nelle strutture statali ed egemonia culturale sulla classe media – si è dimostrata in tutti i cicli politici sufficientemente flessibile per governare la crisi.
In questo senso, dobbiamo capire che il PSOE di Sánchez è il prodotto del processo di restaurazione, che ha iniziato a essere rielaborato nel 2011 dopo la crisi del regime, basato su tre elementi chiave sui quali torneremo più dettagliatamente in un altro pezzo che pubblicheremo più avanti: la crisi politica, espressa nella crisi del sistema bipartitico; la crisi economica, soprattutto per quanto riguarda il crollo del ciclo immobiliare su cui si è sostenuta la crescita dagli anni Ottanta fino al 1992 e dai primi anni Duemila fino al 2008; e la crisi territoriale e della governance autonomista, che possiamo identificare con il problema del Proces catalan aperto dal 2012.
Quella che la destra spagnola – che rappresenta probabilmente il caso meno significativo per interpretare lo scenario politico europeo – definisce «coalizione Frankestein» non è altro che l'ultimo esempio del trasformismo voltagabbana del PSOE che abbiamo già segnalato. È utile ricordare che la mozione di censura che nel 2018 ha destituito Rajoy e portato Pedro Sánchez alla presidenza è stata resa possibile da una combinazione elettorale che ha unito le forze nazionaliste – sia di destra che di sinistra – della Catalogna e dei Paesi Baschi, insieme al sostegno di Unidas Podemos prima, e di Sumar poi: formazioni ormai pienamente istituzionalizzate all'interno del gioco elettorale. Così, la situazione di ingovernabilità politica derivante dalla rottura del consenso bipartisan e dalla questione territoriale è stata risolta – almeno in parte, se non si tiene conto del ruolo politico del sistema giudiziario nello Stato spagnolo.
Per quanto riguarda il problema economico, due sono le questioni che vale la pena spiegare. Il vero peso della crisi è ricaduto sui governi di Rajoy, che hanno attuato, con una mano tecnocratica, la medicina neoliberista prescritta da Bruxelles: tagli brutali all'assistenza sanitaria, congelamento dei salari nel settore pubblico e creazione della SAREB – il salvataggio bancario occulto che ha socializzato le perdite immobiliari delle banche. La macroeconomia si è stabilizzata, ma al costo di trasformare la recessione in una devastante crisi immobiliare che ha colpito selettivamente due gruppi: quel segmento della classe media che ha perso la propria posizione sociale con lo sfratto – e con essa il suo principale asset finanziario – e la popolazione migrante. Il risultato finale è stato quello di trasformare la crisi immobiliare da un problema di pignoramenti a una bolla degli affitti. La stabilità dei macroindicatori e la ripresa degli attivi bancari, insomma, è stata costruita sull'impoverimento e sull'espulsione dalla democrazia dei proprietari appartenenti ai segmenti perdenti dell'economia del mattone, questione che rimane irrisolta e la cui spiegazione profonda va di là degli scopi di questo articolo [6].
Tuttavia, lo scenario che Sánchez si è trovato ad affrontare è stato ben diverso. La prima grande sfida economica è arrivata con il rinnovo in extremis della «Ley de reestructuración y resolución de entidades de crédito» e con il rischio che la SAREB entrasse in una procedura concorsuale, il che avrebbe comportato l’attivazione di 4,4 miliardi di euro di garanzie pubbliche. Una prospettiva che – inutile dirlo – era e rimane del tutto insostenibile per i bilanci nazionali.
Allo stesso tempo, i fondi Next Generation, venduti, nel corso del 2020, come la grande occasione storica per ricostruire l'Europa dopo il COVID, sono serviti in Spagna essenzialmente a iniettare un fiume di denaro pubblico in megaprogetti e salvataggi aziendali in settori chiave come l'industria automobilistica e aeronautica, proteggendo al contempo le grandi aziende che sono l'emblema di ogni Stato – in questo caso, vecchie conoscenze della politica spagnola come Iberdrola, le compagnie ferroviarie e Indra. Approfittando del permesso europeo di far schizzare in alto il debito senza grossi problemi, questo fiume di liquidità ha anche fatto saltare i tetti di spesa, permettendo al governo Sánchez di riattivare fugacemente le assunzioni nel pubblico impiego – dopo un decennio di forbici dell'austerità – mascherando come processo di «modernizzazione» quello che altro non era che un tentativo di riconvertire – in una versione «cañi» [7] – il capitalismo iberico per la nuova fase di accumulazione globale.
Nella farsa della firma dei bilanci generali che hanno consentito allo Stato spagnolo di accedere ai fondi europei, l’allora ministra Montero dichiarò trionfante che
«la Spagna aveva vinto la lotteria». Ma la vera lotteria l’ha vinta José Luis Ábalos: quell’uomo spensierato che, dal suo trono di Segretario dell’Organizzazione, gestiva i panni sporchi del PSOE come un idraulico interno, premiando i sottomessi e giustiziando i litigiosi. Per una tradizione non scritta della politica ispanica, quando il partito è salito al potere, Ábalos è arrivato a un ministero: quello delle Infrastrutture e dei Trasporti. Naturalmente, dato il potere baricentrale concesso da Madrid, Ábalos ha iniziato a distribuire favori e vantaggi a istituzioni regionali e imprese.
Oggi, quei panni sporchi si stanno ritorcendo contro Pedro Sánchez, portando il suo numero tre – Santos Cerdán, diretto successore di Ábalos come gestore della macchina interna – dritto in prigione.
In ogni caso, la creazione di nuovi posti di lavoro nella pubblica amministrazione – alimentando l'integrazione di parte della popolazione nella classe media –, la procrastinazione degli impatti della crisi – ottenuto con l'iniezione di fondi pubblici per le joint venture e per i residui industriali non più competitivi rispetto alle controparti cinesi e americane –, l'aumento generalizzato del turismo dopo la crisi di Covid 19 a livello globale – con l'ovvio impatto positivo su un'economia specializzata in questo settore –, con un settore bancario relativamente sano già sotto il Partito Popolare, hanno fatto sì che lo Stato spagnolo abbia mantenuto alcune delle cifre di crescita più alte dell'Eurozona negli ultimi anni.
In definitiva, possiamo concludere che si è trattato di un ciclo economico debole e ciclico che potrebbe crollare come un castello di carte se lo scenario dovesse andare male. Il tutto accompagnato da un chiaro messaggio: «o noi o l'ultradestra» – mentre Sumar e Podemos hanno ingaggiato una guerra cainita che, al di fuori dei propri circoli formali e informali, è poco meno che incomprensibile. Si sa: arrivare ultimi è da scemi.
I dati macroeconomici che il governo rivendica come un successo nascondono una realtà sanguinante: la nuova legge sugli alloggi, strombazzata come una soluzione alla crisi abitativa, si è rivelata poco più di un brindisi al sole. Mentre gli affitti continuano a strangolare gran parte della popolazione – in particolare il milione di famiglie che sono state vittime di sfratti negli ultimi dieci anni –, la riforma si è limitata a porre un tetto ai prezzi senza osare abbassarli.
La ragione di questa tiepidezza è strutturale e rivela la schizofrenia del PSOE: quattro decenni di erosione dei salari hanno trasformato il settore immobiliare nell'ultima ancora di salvezza di una classe media messa all'angolo, costringendo il partito a mantenere questo fragile equilibrio in cui la casa funziona contemporaneamente come diritto sociale e come merce. Lo stesso Ábalos, prima di essere defenestrato come capro espiatorio per i panni sporchi del partito, ha riassunto il tutto con perfetto cinismo: «La casa è un diritto, ma anche un bene di mercato». Questa scomoda doppia verità spiega perché qualsiasi riforma profonda si scontra con gli interessi dell'elettorato dei proprietari di case che il PSOE deve preservare, mentre le generazioni più giovani e il proletariato dei servizi con un passato migratorio vedono sempre più lontana la possibilità di un alloggio decente diventi un miraggio. Il risultato è un equilibrio perverso in cui il governo si limita a gestire la miseria invece di combatterla, stretto tra il suo discorso progressista e la sua dipendenza da un modello economico che poggia sulla centralità dei rentier e su un modello di bassi salari che trasforma la precarietà in un male endemico.
Sánchez a L'Aia
Ed eccoci arrivati alla riunione dei leader e dei presidenti della NATO. Ecco un Pedro Sánchez costretto ad assistere all’assedio crescente di casi di corruzione che stringono il suo partito, mentre continua a giocare tutti gli assi nella manica su cui ancora può contare. Non va dimenticato che, prima dell’attuale movimento per la casa, l’ultima grande lotta sociale ad avere avuto un impatto profondo in Spagna è stata quella contro il servizio militare obbligatorio, negli anni Ottanta e Novanta. Un movimento che ha lasciato un’impronta culturale duratura fino alla sua abolizione nel 2001, e che avrebbe trovato una sua eco, qualche anno più tardi, nel movimento «No alla guerra in Iraq».
Secondo i dati del CIS, la professione militare è tra le meno apprezzate dagli spagnoli. E sebbene ci sia una certa simpatia astratta per l'esercito, la realtà è cruda: nessuno è disposto ad alzare un dito per la «patria». Il nocciolo della questione sta nel fatto che già nel 2017 la maggioranza considerava le spese militari eccessive. Come è ovvio – senza bisogno di essere lincei – questo rifiuto si concentra soprattutto tra gli elettori della sinistra istituzionale che sostengono il governo: l'elettorato del PSOE, del Sumar, dell'EH Bildu e dell'ERC.
Mentre in Paesi come la Polonia, le Repubbliche Baltiche o la Finlandia l'ombra di Putin è vissuta come un pericolo immediato, in Spagna – geograficamente e mentalmente lontana dalla linea del fronte – la narrazione dello «zar tirannico che minaccia la nostra sicurezza» suona poco credibile. Lo scetticismo è particolarmente acuto in regioni come Euskal Herria, dove sopravvive un viscerale rifiuto storico – erede del conflitto basco – dell'esercito e della Polizia Nazionale. Qui i carri armati russi non suscitano incubi, ma scetticismo: dovremmo davvero spendere il 5% del PIL per difenderci da un nemico bloccato in Ucraina?
In questo senso, la paura della catastrofe atomica è ancora presente nella memoria di coloro che hanno vissuto la Guerra Fredda, un'utile ultimo appiglio per le élite che promuovono il riarmo. Ma né questa paura diffusa né la propaganda del «pericolo russo» riescono a convincere la gente della necessità di un'economia di guerra. In Spagna, la gente non sarà certo disposta a stringere la cinghia e a fare tagli – e sospetto nemmeno in Italia.
Tuttavia, e lo sappiamo fin dai tempi di Paul Mattick o dei testi operaisti sul New Deal, la spesa militare può attivare forme di keynesianismo che servono a mantenere la domanda aggregata – in questo caso per un buon cliente, lo Stato – e l'occupazione permanente.
Ad ogni modo, dopo decenni di liberalizzazione e la fine del fordismo e del regime di fabbrica, appare difficile immaginare un nuovo ciclo di accumulazione fondato sulla spesa militare. Tuttavia, il sussidio statale al settore industriale — che assorbe circa il 5% del PIL sotto forma di spesa militare — consente di attivare imprese come Navantia (attualmente coinvolta in scioperi operai a Cartagena e Cadice) e Indra, che in Spagna sembra essere stata designata come capofila dell’industria bellica. Questo potrebbe bastare ad attivare segmenti dell’industria con salari relativamente elevati.
Si prenda il caso del PNV, un partito che non manca mai di mostrarsi riconoscente verso il potere centrale di Madrid, a patto che quest’ultimo si dimostri abbastanza generoso nei confronti degli interessi delle élite basche. Non sorprende quindi che Mikel Jauregi, ministro dell’Industria, della Transizione Energetica e della Sostenibilità del governo basco, si sia mostrato così disponibile ad assumere responsabilità nel settore bellico, arrivando a chiedere che i Paesi Baschi diventino la punta di diamante del riarmo europeo. Se non si vendono più automobili e la Germania ha smesso di essere la locomotiva del settore basco delle macchine utensili, ci si può sempre riconvertire nella produzione di componenti militari.
In fin dei conti, è un po' il caso dell' «ognuno per sé». Giorgia Meloni – che sa di avere conti pubblici peggiori dello Stato spagnolo – cercherà di fare l'alleata di Trump in Europa sperando in un trattamento più favorevole. Sánchez potrebbe tentare di calarsi nei panni di un Clement Attlee redivivo, erigendosi a ultimo campione del welfare state contro la follia trumpiana. Ma a trarre davvero vantaggio da questo scenario sarebbe ancora una volta il vero motore economico dell’eurozona: la Germania, per la quale la spesa militare potrebbe rappresentare un’occasione per rilanciare la sua onnipotente industria manifatturiera — per quanto oggi appaia un po’ meno solida di fronte alla potenza produttiva di Shenzhen.
Per Sánchez, continuare a compiacere le élite catalane e basche da cui dipende per restare al governo è una scommessa rischiosa: rischia infatti di alienarsi una parte della propria base elettorale. Ma c'è anche una lettura più cinica, e forse più realistica: se il PSOE dovesse perdere le prossime elezioni, saranno PP e VOX a ereditare la «merda» dell’applicazione dei tagli imposti da Bruxelles — tagli alla sanità, all’istruzione, e ai servizi pubblici, giustificati con la solita retorica della «razionalizzazione della spesa improduttiva». Così facendo, il PSOE eviterebbe l’usura politica dell’austerità e potrebbe rilanciare la propria narrazione progressista con ancora più forza: «venite con noi, perché sapete bene cosa succede quando governa la destra».
Note
[1] Lopez, I. (2024), El coche del pueblo, el Informe Draghi y la implosión de Alemania, Zona de Estrategia, 8 de Noviembre de 2024.
[2] Rodriguez, E. (2025), El 5% en gasto militar o Europa ante su estupidez, Zona de Estrategía, 26 de Junio de 2025.
[3] In Spagna, i termini «sociata» (abbreviazione spregiativa di socialista) e «progre» (da progresista) vengono usati per descrivere, spesso con tono critico o ironico, chi si identifica come simpatizzante o militante del PSOE (Partito Socialista Operaio Spagnolo), ma può estendersi a chi difende politiche socialdemocratiche. Nell'uso popolare, il «sociata» è sinonimo di ipocrita: parla di uguaglianza ma frequenta le élite politiche, critica la politica di destra ma non rinuncia a posizioni favorevoli alla terza via social-liberale. È associato anche al clientelismo e a un certo conservatorismo travestito da progressismo.
[4] Il termine spagnolo «carca» (derivato da «carcamal», persona anziana e rigida) designa un conservatore retrogrado di stampo franchista, non necessariamente nostalgico ma portatore di valori autoritari, gerarchici e anti-progressisti ereditati dal regime: ostilità verso i diritti (aborto, matrimonio gay, femminismo), rifiuto della modernità culturale e opposizione a una memoria storica critica del franchismo.
[5] Per ulteriori informazioni su questo tema, si veda la sezione «La figura del modernizzato» sviluppata da Emmanuel Rodriguez nella sua opera El efecto clase media, crítica y crisis de la paz social, Traficantes de Sueños, Madrid. pp. 211-230.
[6] Per una lettura più approfondita del concetto di democrazia dei proprietari di casa e della centralità dell'immobiliare nell'economia politica spagnola dal punto di vista dei dibattiti che si sono svolti nel movimento per la casa, si veda: Carmona, P. (2022), La democracia de propietarios, Traficantes de Sueños, Madrid.
[7] Il termine «cañi» proviene dal linguaggio popolare. Rappresenta l'immagine folcloristica delle opere francesi del XIX secolo, che vedevano la Spagna come paese di gitani e contrabbandieri, con una chiara inclinazione orientalista. Nel suo uso attuale viene utilizzato per definire fenomeni associati alla Spagna folcloristica e tradizionale. Una traduzione italiana potrebbe essere «spagnolata» o «tamarro».
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Pablo Oliveros (1996) è membro del collettivo Txarraska Gaztetxea dell’area metropolitana di Bilbao e del sindacato degli inquilini Batu. Collabora con la rivista Zona de Estrategia. Si occupa di ricerche sulla relazione tra il territorio e i processi produttivi e finanziari.
To what extent is Pedro Sánchez's apparent resistance to increased military spending a genuine political build now gg stance rooted in PSOE’s ideological identity, and how much is it a calculated strategy to maintain domestic political stability while quietly aligning with broader NATO objectives in practice?
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