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Su militanza e soggettività



Fin dal 1968 ampi settori della sinistra radicale si erano concentrati sulla critica alle forme tradizionali di militanza intesa come sacrificio della propria soggettività in nome del collettivo; riproposizione dei ruoli e della divisione del lavoro.

La questione era già esplosa nel contesto drammatico della guerra civile spagnola: Entique Lister, comandante comunista del V Reggimento, accusava gli anarchici di indisciplina, addirittura di abbandonare di notte la linea del fronte per andare a trovare mogli e amanti. In gioco c’è il rapporto fra guerra e rivoluzione, fra guerra e liberazione, ovvero se alla guerra deve essere sacrificato ogni altro contenuto oppure se la guerra, e l’attività rivoluzionaria in generale, devono configurarsi immediatamente come anticipazione del fine cui tendono.

Do tutto questo come scontato, anche se va tenuto costantemente fermo, perché non può esistere un reale processo di trasformazione che non sia immediatamente messa in libertà, o per lo meno prefigurazione delle forme di organizzazione e di relazioni sociali per le quali si lotta. Ma voglio affrontare un altro aspetto della questione.

A partire dagli anni Settanta l’aggettivo «militante» trascende il significato di «agit-prop» per esplicitarne un altro, per così dire, operativo. Classica diviene la definizione di «antifascismo militante» contrapposto all’antifascismo «democratico». Si affaccia qui la definizione della militanza come soggettività che pensa e agisce in termini di «forza».

Va detto che la «questione della forza» in realtà era stata posta praticamente dal ciclo di lotte operaie del biennio ’68-69 per poi raggiungere il suo apice nel ciclo di lotte culminato nel 1973 con l’occupazione a Torino di Fiat Mirafiori e l’esperienza di autorganizzazione militante degli «incappucciati» e dei «fazzoletti rossi». A partire dal 1968 la lotta operaia acquista due importanti caratteristiche: la soggettività operaia assume caratteri militanti. Si comincia innanzitutto a modificare il carattere del picchetto, fino a lì testimonianza poco più che formale, opera di sparuti nuclei di Commissione interna sindacali e di militanti esterni, tenuti a buona distanza dalla forza pubblica. Ora, invece, i picchetti iniziano ad assumere le sembianze della lotta dura capace concretamente di impedire il crumiraggio e contendere alla polizia lo spazio fisico davanti ai cancelli. La seconda grande novità è il corteo interno che spazza officine e palazzine di impiegati e dirigenti.

Ora, chi è stato in fabbrica in quegli anni sa benissimo quale fosse l’articolazione interna della classe operaia: al di là della canonica distinzione fra operaio di mestiere e operaio massa esisteva la distinzione fra sinistra e destra operaia, con in mezzo la grande e oscillante zona grigia. La sinistra operaia, anche quando era minoranza «agiva da maggioranza», facendosi direzione politica, ma anche con il ricorso a pratiche coattive. Il carattere plebiscitario degli scioperi era assicurato esattamente dalla forza applicata nei picchetti e nei cortei interni, il che spiega anche perché, almeno fino al 1974, la posizione dei sindacati era sì di rituale condanna nei confronti delle violenze ma non di scontro frontale con la sinistra operaia, dal momento che erano queste forme coattive a determinare il totale blocco dell’attività produttiva e quindi lo stesso potere contrattuale delle centrali sindacali. Ed è esattamente attraverso l’uso della forza che la soggettività opera creando contropotere. Non bisogna pensare al contropotere come fase culminante dello scontro di classe: il contropotere non è solo quello dei soviet nel 1917 in Russia ma la forma che deve assumere il conflitto in ogni suo punto e luogo di espressione, come il solo modo attraverso il quale la lotta rivendicativa si fa politica. Nello stesso tempo va detto che il contropotere non è rappresentato nel simulacro di qualche tribunale del popolo clandestino, ma dai reali rapporti di forza imposti dalla forza organizzata dell’azione di massa. Ragionare sulla militanza, oggi, è ragionare sulla soggettività, su cosa significa pensare e agire la questione della forza e del contropotere. Io non credo che noi oggi abbiamo un problema di «teoria» ma un problema di pratica. Se si fa pratica poi arriva anche la teoria, e non viceversa. In ogni caso su questo versante, della articolazione dei titoli qui posti, la parola dovrebbero averla coloro che stanno dentro le lotte.

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