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Viaggio nella Liberazione




In vista dell’ottantesimo anniversario della Liberazione, DeriveApprodi ha pubblicato tre libri che parlano della Resistenza, ieri e oggi.

Combiniamo in un articolo tre estratti da La stessa cosa del sangue. Racconti con la resistenza a cura di Sergio Sichenze, Come l’acciaio resiste la città. Viaggio nella liberazione con gli Stormy Six di Alberto Gagliardo e I fascisti tradirono l’Italia di Anello Poma, a cura di Italo Poma e Alberto Zola.

 

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Estratto da La stessa cosa del sangue a cura di Sergio Sichenze

Seconda lettera aperta alla Resistenza di Giorgio Mascitelli


Gentile lettrice, cortese lettore,

a me tocca il compito di fornire un viatico per il viaggio di questo libro ed è tanto piacevole il compito quanto impegnativo il percorso che aspetta quest’opera. Pubblicare un libro di racconti sulla Resistenza significa chiedersi in maniera implicita, e talvolta anche esplicita come fanno alcuni degli autori qui presenti, che cosa la parola letteraria abbia da aggiungere al significato di quell’esperienza; si tratta di un quesito che non può avere una risposta univoca e infatti ciascuno degli autori ne ha elaborata una sua personale. Sebbene sia stata presente fin dai primi testi della letteratura resistenziale, di solito scritti da autori che avevano partecipato in prima persona agli eventi di quella stagione, tale domanda ha assunto un carattere più radicale ai nostri giorni. Non alludo soltanto al contesto politico in cui viviamo oggi, ma anche a quello culturale e segnatamente letterario. Sul piano politico, certo, sarebbe semplice citare le imbarazzanti uscite in cui si sono prodotti esponenti della maggioranza di governo e in particolare di Fratelli d’Italia sulla questione, in fondo, però, tutto questo non è specifico di questo periodo, ma degli ultimi trent’anni, anzi quaranta, visto che si potrebbe indicare come momento di nascita di questo clima revisionistico la mostra sugli anni Trenta, inaugurata a Milano nel 1982. La novità semmai degli ultimi anni è che il clima politico italiano è in perfetta sintonia con quello europeo e direi occidentale. La mozione del parlamento europeo del 19 settembre 2019 «Sull’importanza della memoria storica per il futuro d’Europa», in cui si equiparavano nazismo e comunismo e si indicava come unica causa della seconda guerra mondiale il patto Ribbentrop-Molotov, preparato qualche anno prima dall’istituzione di una giornata europea di commemorazione delle vittime di tutti i regimi totalitari in aperta concorrenza con la giornata della memoria del 27 gennaio, chiaramente frutto di una convergenza tra il revisionismo dei conservatori tedeschi e la destra polacca, rappresenta esaustivamente questa situazione. Ancora più eloquente pochi anni prima il documento della banca d’affari J.P. Morgan che indicava nelle costituzioni nate dall’antifascismo dei paesi del Sud Europa una minaccia per l’unità europea, intesa ovviamente come unità dei capitali e non dei popoli. Insomma in questo clima i valori della Resistenza, soprattutto quelli legati alla partecipazione popolare e alla politicizzazione delle masse, sono ormai valori di opposizione. È, però, sul versante squisitamente letterario e culturale che la congiuntura storica alza gli ostacoli più complessi. Non alludo con questo al rischio della retorica, del quadretto idilliaco del coraggioso partigiano senza macchia che mette in fuga il feroce nazifascista; che con i buoni sentimenti si faccia cattiva letteratura è una consapevolezza diffusa tra i nostri autori: non a caso in alcuni racconti, che narrano di caduti nella Resistenza, la trattazione della morte del protagonista è affidata a materiale documentario emotivamente anonimo, in altri prevalgono forme non narrative ma di analisi o addirittura di intervista, in certi testi vengono affrontati momenti ed episodi eccentrici per ragioni geografiche e storiche ma non per questo marginali della Resistenza, in molti emerge il tema delle aspettative per il dopo e della loro delusione, e ancora c’è chi non edulcora il rapporto talvolta difficile dei partigiani con la popolazione, infine abbiamo anche un metaracconto sulla difficoltà di fare un racconto sulla Resistenza. Queste e altre strategie dimostrano la consapevolezza del rischio della retorica, che peraltro non è tipico esclusivamente di questo momento storico. Piuttosto il rischio è connesso con il fatto che veniamo da una lunga fase culturale, quella postmoderna, in cui la dimensione storica è stata considerata un’interessante galleria di immagini e casi strani da ripescare e riproporre in chiave pop. Si tratta di un approccio tipico della cultura di massa in cui il passato è rappresentato come sottoinsieme del presente nei modi della nostalgia vintage o del revival. Insomma il passato viene negato nella sua alterità e quindi non può essere mai recuperato come eredità storica reale in quanto è sempre disponibile come immagine ornamentale. Molti scrittori hanno reagito a questo stato di cose recuperando una rigorosa e accurata ambientazione storica, spesso anche con uno sforzo documentario, nelle loro opere, rifiutando qualsiasi indulgenza ai giochi del postmoderno, ma nella letteratura, che non è storiografia, il rapporto con la storicità non è tanto garantito dalla fedeltà testimoniale, quanto da come si interroga il passato in nome di un’idea di presente o di futuro diversi. In altri termini il problema della cultura della nostra epoca non è che si sia trascurata la memoria storica della Resistenza, ma che la percezione della lotta al fascismo è mediata, specie nel pubblico giovanile, piuttosto dai modi spettacolari e antistorici di Bastardi senza gloria anziché da un dialogo con i classici della letteratura resistenziale. Questo a sua volta è indice del fatto che non abbiamo un’idea di cambiamento della realtà a partire dalla quale dialogare con la Resistenza.

[…]


*


Estratto da Come l'acciaio resiste la città di Alberto Gagliardo

Il trentennale della Liberazione


Certo non sempre le morti (queste come altre) erano riconducibili a riconoscibili motivi politici, ma tali diventavano in quegli anni di contrapposizioni arroventate, durante i quali anche solo indossare un eskimo e avere barba e capelli un po’ lunghi (come fu il caso di Brasili) mentre passeggi con la tua ragazza nei pressi di Piazza San Babila a Milano può costarti la vita se incroci per caso neofascisti che escono da un bar con la voglia di menare le mani. È comunque in questo clima che cade il trentesimo anniversario della Liberazione, e anche nella sua commemorazione si scontrano due sensibilità che si fronteggiavano nello schieramento democratico antifascista: uno istituzionale che metteva l’accento sul ruolo dei partiti e della loro unità a difesa delle istituzioni repubblicane; e uno alternativo che esaltava lo spontaneismo della Resistenza e la sua carica di trasformazione sociale (che spesso, nelle analisi iperideologizzate del tempo, era inesorabilmente rappresentata come «tradita»). Insomma, per usare le categorie interpretative proposte da Claudio Pavone, se da una parte si guardava a quell’anniversario privilegiandovi gli aspetti di guerra patriottica e di guerra civile, dall’altra se ne accentuava quello di guerra di classe (Pavone 1991).

[…]

La lettura integrale dell’articolo («Lotta continua», a. IV, n. 91, venerdì 25 aprile 1975), offre un puntuale catalogo delle posizioni dell’area politico-culturale alla quale facevano riferimento gli Stormy Six: il rifiuto delle «celebrazioni di circostanza», la rivendicazione della Resistenza come «continua e profonda contrapposizione di classe», la continuità e contiguità del neofascismo con gli strumenti repressivi dei governi democristiani, l’inconsistenza dell’opposizione parlamentare. Si profilavano, insomma, dietro le vicende del presente, le ombre degli stessi attori di trent’anni prima: un partito della reazione al governo (meglio ancora: un regime), asservito alle logiche dell’imperialismo (neocoloniale?), che invia i suoi squadristi alla repressione delle masse proletarie, perseguendo politiche liberticide. E di questo sillogismo risulta rivelatore l’espediente (anche se meglio sarebbe dire fallacia logico-argomentativa), teorizzato nel 1953 dal filosofo Leo Strauss, della «reductio ad Hitlerum», secondo cui non c’era differenza tra le politiche degli statunitensi e quelle della Germania nazista. Sono parole (e idee) spesso identiche a quelle che compaiono nel testo di Compagno Franceschi, uscita nel terzo disco pubblicato dal Ms (1973), che, sebbene accrediti come autore del testo il Movimento studentesco, fu in realtà composta da Franco Fabbri – il quale, sia detto a onore della sua onestà intellettuale, riconosce che il ritornello, che pure (o forse proprio per questo) diventerà citatissimo nei cortei degli anni caldi, era decisamente «truculento»:

 

Era un compagno, era un combattente

per il Socialismo e per la Libertà:

per questo il governo un plotone mandò

e un sicario alle spalle sparò.

Ma mentre ancora la Celere aggrediva

l’abbiam giurato giustizia sarà

dal popolo intero senza pietà

ed un canto si leva già:

Compagno Franceschi sarai vendicato

dalla giustizia del proletariato

nel cuore nel canto di chi lotterà

il Compagno Franceschi vivrà.

 

Più di vent’anni di dittatura

sotto il governo della Dc

e ancora dobbiamo vivere

senza lavoro né libertà

la nostra lotta avanza sicura

il Fronte Unito trionferà

 

il Governo degli assassini sa già

che nessuno ci può fermar.

Compagno Franceschi sarai vendicato

dalla giustizia del proletariato

nel cuore nel canto di chi lotterà

il Compagno Franceschi vivrà.



*


Estratto da I fascisti tradirono l’Italia di Anello Poma, a cura di Italo Poma e Alberto Zola


[…] Com’era la vita nella formazione partigiana? Ora, a parte l’impegno militare sul quale non mi trattengo avendone già parlato altri miei amici e compagni, col suo carico di pericoli, di rischi ecc., vi erano anche dei momenti di pausa sui quali vorrei richiamare la vostra attenzione. Momenti di pausa che generalmente non erano oziosi, cioè non vivevamo quei momenti di pausa tra un combattimento e l’altro, tra uno spostamento e l’altro, in ozio; cercavamo in qualche modo di impiegare il tempo. Ad esempio, le formazioni in pianura […] andavano ad aiutare i contadini a fare il raccolto. Oppure, […] noi facemmo uno sforzo per riuscire a sviluppare, sia pure in modo rudimentale, un'attività di tipo culturale. Ci incontravamo (un’ora, due ore, dipende l’importanza dell’argomento), avevamo sentito la radio o letto i giornali, commentavamo i fatti che erano accaduti nel mondo, soprattutto ciò che accadeva sui fronti di guerra, aggiornandoci sull’andamento della guerra. E poi […] ci furono anche tentativi, alcuni anche di una certa importanza, per sviluppare la nostra attitudine a scrivere, a raccontare, a esprimere le proprie opinioni. Qualcuno si cimentò anche, naturalmente in modo elementare, avendo magari un po’ di vena poetica, con la poesia e scrisse delle poesiole. Altri che avevano più senso d’umorismo, magari scrivevano sfottendo […] non so […] altri compagni. Ad esempio, la brigata del Folgore la chiamavamo «la Brigata Scappa» (non è vero, comunque mi viene bene a dirlo). Cioè […] si facevano articoli di commento attraverso i giornali murali, dove venivano affissi questi articoli. E questi ragazzi avevano poi diciotto, diciannove, vent’anni, magari non avevano mai scritto una lettera, se non quelli che avevano fatto il servizio militare che scrivevano a casa e dopo i compiti che facevano a scuola fino alla quinta elementare non si erano più cimentati nello scrivere. Qualcuno magari la lettera alla morosa, ma non più di tanto, non più di tanto; ebbene, lì si cimentarono nello scrivere con argomenti più impegnativi che riguardavano l’andamento della guerra, l’andamento della politica, […] la poesia ecc. E per la prima volta nella loro vita si cimentarono con un impegno del genere. […] Ad esempio, nella Valle Sessera venne stampato un giornale vero e proprio, uno dei pochi giornali partigiani che prese il nome di «Baita». C’era un comandante che aveva molta attitudine nello scrivere, capacità anche organizzative, Francesco Moranino, che fondò questo giornale, nel quale giornale scrissero i partigiani, scrissero i membri del Cln (cioè i membri dei partiti antifascisti). Ebbe una larga diffusione. Noi riuscimmo poi anche (ne avranno già parlato altri) a costituire una radio partigiana […] che fu Radio Libertà e che ebbe […] un ascolto vastissimo. Vi racconto un fatto che è emblematico. Quando nel marzo del 1945 vennero presi prigionieri [i componenti di] un distaccamento che era delle formazioni della Valsessera e li fucilarono parte a Salussola (ventuno o ventidue), parte alla frazione Garella di Buronzo, il Comitato di Liberazione Nazionale tramite Radio Libertà […] fece un duro attacco di denuncia contro questo atto sanguinoso e proclamò una giornata di serrata, di sciopero e di serrata in tutto il Biellese in segno di lutto. Ebbene, fu Radio Libertà che diede questo annuncio. Il giorno dopo tutto il Biellese si fermò nelle fabbriche, nei negozi e i tedeschi occupanti furono impotenti: cosa potevano fare? […]. Per dire quale fu l’importanza di questa emittente radiofonica. Ecco, questi furono alcuni aspetti della Resistenza.

 

Vorrei ancora richiamare la vostra attenzione sul ruolo che ebbero le donne nella Resistenza, che non fu[rono] un elemento ausiliario soltanto; furono una componente importante nella Resistenza. Ecco, noi non potevamo, se eravamo soggetti ad attacchi, affrontare combattimenti aperti, scontri frontali; eravamo inevitabilmente battuti. Perché? Perché c’era una enorme inferiorità e nell’armamento e, soprattutto, nel volume di fuoco. Noi avevamo una dotazione di munizioni che ci permetteva di poter sparare per qualche minuto, poi eravamo senza munizioni. E allora noi evitavamo di affrontare scontri frontali. La guerriglia, del resto, è azione militare di colpi di mano. C’è un grande teorico della guerriglia che dice che il partigiano combatte dieci minuti e cammina dieci ore, cioè fa il colpo di mano poi sparisce per essere fuori dalla portata della reazione del nemico7. Ebbene, quando eravamo soggetti a rastrellamenti, noi cercavamo di spostarci da una zona all’altra, raggiungendo zone anche non conosciute. Ad esempio, noi operavamo nel Biellese, nell’inverno del ’45 raggiungemmo il Canavesano, il basso Canavesano. E come potevamo assicurarci che i nostri movimenti […] potevano svolgersi senza incappare in qualche pericoloso incontro di reparti armati tedeschi e fascisti? Mandavamo avanti le staffette; erano loro che andavano ad accertarsi se quella determinata località non era occupata, era libera e potevamo quindi accedervi. E poi tornavano indietro e venivano con noi […], cioè le staffette furono una componente importante della Resistenza, furono un po’ gli occhi e i punti di osservazione, fonte di informazione anche delle formazioni partigiane.

 

***


Giorgio Mascitelli ha pubblicato due romanzi Nel silenzio delle merci (1996) e L’arte della capriola (1999), e le raccolte di racconti Catastrofi d’assestamento (2011) e Notturno buffo (2017) oltre a numerosi articoli e racconti su varie riviste letterarie e culturali. Un racconto è apparso su volume autonomo con il titolo Piove sempre sul bagnato (2008). È stato redattore di «alfapiù», supplemento in rete di «alfabeta2», e attualmente del sito letterario «Nazione Indiana».


Alberto Gagliardo (Lanciano, 1962), laureato in Letteratura Italiana all’Università degli Studi di Firenze, ha insegnato lettere nei licei scientifici. Dal 1998 vive a Cesena e dal 2016 è distaccato presso gli Istituti di Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Forlì-Cesena e di Rimini. Le sue due ultime monografie sono: A cercare un posto nel mondo. Vite di sopravvissuti ebrei in transito. Tradate 1945-1948 (Mimesis 2021, con prefazione di S. Luzzatto) e Anatomia di una strage. Cesena, 8 maggio 1945 (Clueb 2024, con M. Brighi e prefazione di F. Filippi).


Anello Poma nato a Biella il 27 luglio 1914, morto a Nervi (Genova) il 18 dicembre 2001, operaio tessile e dirigente comunista. Ha combattuto sotto il nome di «Italo» nelle file delle Brigate Internazionali durante la guerra civile spagnola. Con la sconfitta dei repubblicani spagnoli, deve riparare in Francia. Internato, prima nel campo di Argeles sur Mer e poi in quelli di Gurs e di Vernet, nel 1941 è consegnato alla polizia italiana e confinato a Ventotene.Partecipa alla guerra di liberazione come commissario politico. Sino alla fine, Anello Poma si è dedicato alla valorizzazione della lotta di Liberazione, operando nell'ANPI e nell'ANPPIA.





 


1 Comment


Bukari Manches
Bukari Manches
2 giorni fa

Put your worries aside and focus on using your exceptional talents to shoot arrows at the fabric man.

ragdoll archers

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