Strangers in the night, but no happy ending
- Romeo Orlandi
- 4 giorni fa
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Torna la sezione «oriente, estremo» con un articolo del curatore, Romeo Orlandi che ci parla della politica internazionale di Trump e degli attuali rapporti con la Cina. Uno scontro strategico per gli Stati Uniti per poter sostenere il proprio debito e quindi l'American way of life, che si trova però di fronte un avversario tutt'altro che remissivo e debole come l'Europa. Cosa succederà, dunque? Trattativa infinita o l’estrema tentazione del grilletto?
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Correre dietro ai numeri di Trump è un esercizio sterile, misurare l’incoerenza dei dazi è fuorviante, usare il sarcasmo per le sue espressioni è imbelle. Non che le esternazioni del Presidente non si prestino a critiche o che i suoi pensieri non si presentino incoerenti o improvvisati. L’errore ha invece radici nel volere trovare un filo che colleghi le decisioni, arrovellarsi per cercare una continuità nascosta, una strategia inafferrabile, un progetto impalpabile di lungo respiro. Insomma: scandagliare i segugi analitici per capire «cosa ha in mente Trump».
Certo: lui intende Make America Great Again; uno slogan chiaro e tuttavia di difficile declinazione. Per farlo bisogna mostrare i muscoli, costringere gli altri (non importa se nemici o ex amici, le differenze si annullano) alla trattativa da posizioni di forza. Imporre le proprie regole per strappare il miglior accordo, negoziare mettendo l’interlocutore nell’angolo. E se fosse proprio questa la strategia, coniugare cioè tattica e obiettivo, senza intermediazioni? Allora, l’importante non è misurare il valore del dazio, metterlo in relazione con improbabili tabelle al flusso di merci. Se fosse così, l’incoerenza delle misure sarebbe eclatante e centrale. Invece è stato riproposto lo schema del comando. I dazi vengono messi, tolti, rimandati, reintrodotti da un unico decisore. Gli altri devono adeguarsi e trattare sotto minaccia. Non hanno scelta, perché gli Stati Uniti sono la più grande potenza politica, economica e militare. Trump sa bene che la loro supremazia, pur se bisognosa di tornare ad essere grande, è ancora indiscutibile e inattaccabile. È una leva negoziale, che può essere spietata o benevolente, perché tutto può far parte del pacchetto, del deal: le terre rare, i rimpatri, lo jus soli, i jeans del Lesotho, i ghiacciai della Groenlandia. L’elenco potrebbe continuare perché non esiste nulla che non possa essere guadagnato quando si ritiene di essere in credito con il mondo.
Un primo risultato è stato ottenuto; si misura dalla fila di governanti che chiedono di incontrare la Casa Bianca con intenti prosaici. Non potrebbe essere altrimenti; tutti hanno bisogno degli Stati Uniti. Meno giustificata - con sconfinamenti nel patetico - appare la posizione Europea. Pur se ancora la più grande potenza commerciale al mondo, L’UE rimane un junior partner rispetto alla Casa Bianca. Non capitalizza sulla sua forza, è prigioniera delle tensioni interne. Rimane vittima di una politica subalterna; la sua capacità negoziale è pari all’inefficacia dei suoi rappresentanti.
Solo i paesi più grandi e non allineati – si sarebbe detto una volta - non si piegano alle decisioni unilaterali di Washington. Tra loro emerge la Cina. Pechino ha più volte richiamato la necessità del dialogo, di soluzioni condivise, ha messo l’accento sulla forma degli incontri. Afferma in sostanza: non si possono fissare i dazi e poi trattare. L’imposizione può essere una conclusione, non l’avvio delle trattative. Se si è bersaglio di punizioni tariffarie, la risposta immediata e doverosa è restituirli, con la stessa intensità e percentuale. Solo allora ci si potrà sedere al tavolo. Questa condotta è possibile se si è una potenza mondiale, un grande paese con un governo forte, unito e intriso di nazionalismo; appunto come la Cina. Qualsiasi mediazione, indipendentemente dal suo esito, per Washington e Pechino sarà lunga, difficile e probabilmente dolorosa.
Eppure, le clamorose decisioni dell’Amministrazione Trump hanno avuto il merito di svelare una situazione mondiale oggettivamente eccentrica e disequilibrata: gli Stati Uniti continuano a vivere al di là delle proprie possibilità. Ne sono testimonianza il deficit di bilancio e quello commerciale. Il debito pubblico ha raggiunto livelli stratosferici, quello commerciale ha superato i 1.000 miliardi di dollari. Si tratta oggettivamente di una posizione insostenibile. La spiegazione economica è nota: i deficit si finanziano stampando moneta e titoli, fino a quando esiste qualcuno disposto a comprarli, per motivazioni ovviamente politiche che trovano origine nella potenza statunitense. Quando questa disponibilità è messa in discussione – come sembrano voler fare i paesi Brics o addirittura l’intero Global South – l’intero impianto americano-centrico viene messo in discussione.
Gli Stati Uniti vivono dunque con una credit card mentality, alla quale ovviamente è difficile e scomodo rinunciare. Per alimentare le proprie spese devono indebitarsi e una frazione ancora bassa ma crescente dei titoli di stato è in mani straniere. Fino a quando questi asset sono presso governi amici, occidentali, alleati docili, il problema può essere gestito. Ma la Cina non risponde a nessuna di queste caratteristiche. Inoltre, finanzia gli acquisti di bond americani con i proventi del suo enorme attivo commerciale (che ogni anno varia tra 300 e 500 miliardi dollari). Per dirla senza orpelli e con eccesso di sintesi: la Cina interviene nel twin deficit di Washington. Provoca quello commerciale e con gli introiti finanzia quello Federale, acquistando così pezzi di Stati Uniti.
Non è una situazione nuova. Le economie di trasformazione, cioè a forte impianto manifatturiero,
traggono vantaggio dall’elevato consumo statunitense, un approdo redditizio e sicuro per le loro merci. Nessun Esecutivo a Berlino, Roma, Tokyo, Seul e Pechino si è mai lamentato del deficit commerciale di Washington. Però quello cinese è contemporaneamente astronomico e dovuto ad un paese ostile. Senza dubbio, sta diventando - o è già diventato - un’emergenza strategica, al punto da allarmare la Casa Bianca.
La Cina diventa così, forse controvoglia da entrambe le parti, il vero obiettivo di Trump, quello verso il quale inevitabilmente si indirizzeranno le tensioni. Ma è per Washington un terreno minato. Il decoupling – il disallineamento delle economie – sembra impraticabile. Non si costruisce in poco tempo un’altra titanica factory of the world. I dazi non riattiveranno le ciminiere in Michigan o i telai in South Carolina. Potranno invece dar fiato all’inflazione e forse punire la Cina. Sarà difficile immaginare una riduzione dei consumi interni perché i risultati potrebbero essere esiziali alle prossime elezioni.
Rimangono quindi aperte due soluzioni: la trattativa infinita o l’estrema tentazione del grilletto. Al momento – dato il pragmatismo di Trump e di Xi – la possibilità di raggiungere un accordo ha maggiori possibilità di successo. In ogni caso Trump dovrà essere ben consigliato: la Cina remissiva, intenta a sconfiggere il sottosviluppo è ormai al tramonto. Il paese timido in politica internazionale, interessato ad attrarre le multinazionali è consegnato alla storia. I risultati a cui ambiva sono stati raggiunti, paradossalmente proprio con l’aiuto degli Stati Uniti che ora cercano di limitarne i danni.
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Romeo Orlandi è presidente del think tank Osservatorio Asia, Vice Presidente dell’Associazione Italia-ASEAN, economista e sinologo. Ha insegnato Globalizzazione ed Estremo Oriente all’Università di Bologna e ha incarichi di docenza sull’economia dell’Asia Orientale in diversi Master post universitari. Per l’Istituto Nazionale per il Commercio Estero ha lavorato a Los Angeles, Singapore, Shanghai e Pechino. Relatore a conferenze internazionali, è autore di numerosi libri e pubblicazioni sull’Asia. È stato Special Ambassador per la candidatura di Roma per l’Expo 2030.
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