L'India è la protagonista del secondo appuntamento della rubrica «Oriente, estremo».
Michele Fano ci parla dei problemi politici interni del paese, dei processi sociali e degli eventi che hanno portato all'ascesa di Narendra Modi a primo ministro.
Nella seconda parte, invece, l'autore descrive la sua esperienza al Jaipur Literature Festival e propone delle riflessioni su alcuni libri significativi che raccontano la situazione del paese: Light at the End of the World di Siddharta Deb, History’s Angel di Anjum Hasan, Quarterlife di Devika Rege, Fire on the Ganges di Radhika Iyengar.
Infine, nell'ultima parte delle riflessioni di carattere storico-politico a partire dal pensiero di Bhimrao Ramji Ambedkar.
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I have no religion. I’m unlimited
Michael Jamaica Laawaris
Nei dodici anni in cui sono mancato dal subcontinente, ho prestato distrattamente orecchio alle notizie che parlavano di un ruggente sviluppo economico accompagnato da ambiziosi progetti infrastrutturali e coronato di recente addirittura da un allunaggio, sotto la guida di un leader autoritario che aveva deciso di fare ciò che si considerava proibito in un paese che è una polveriera di identità, un caleidoscopio di nervi scoperti, un labirinto di ineffabili tensioni sociali.
Il primo ministro Narendra Modi, vincitore indiscusso delle elezioni del 2014, 2019 (e, senza bisogno di particolari capacità profetiche, anche di quelle imminenti del 2024) ha infatti deciso di fondare il suo successo politico sulla carta religiosa, presentandosi come il campione dell’induismo in un paese che, essendolo in maniera indiscussa (almeno all’80%), aveva sempre ritenuto inopportuno portare la religione nell’arena politica, rispettando i principi del secolarismo inscritti dai padri della nazione nella costituzione adottata il 26 gennaio 1950.
È stato quindi significativo scoprire che, in occasione delle grandi celebrazioni tenutesi come ogni anno nella capitale Delhi in occasione della suddetta ricorrenza, era difficile trovare una bandiera indiana (quella con la ruota nella fascia bianca al centro, per intenderci) nella marea di bandiere e bandierine arancione che dal 1925 sono il simbolo dell’organizzazione militante induista RSS (sui cui legami storici con il fascismo italiano esiste un ottimo studio di Marzia Casolari) e il cui colore è divenuto ora anche il simbolo del BJP, il partito al potere che si sta facendo partito-stato. Nella pletora di vessilli arancioni che esprimono questo inquietante connubio tra politica e religione, la versione forse più distopica e inquietante è quella che include nella bandiera anche il volto stilizzato di una scimmia dallo sguardo vagamente minaccioso. Si tratta di Hanuman, una divinità del pantheon induista che negli ultimi anni è stato trasformato in una sorta di mascotte protettrice dell’induismo politico.
Accade così che nell’India del 2024 le scimmie non siano più solo esotici e imprevedibili abitanti delle strade e i templi non siano più solo affollati e barocchi luoghi di culto. Proprio il 22 gennaio, pochi giorni prima delle celebrazioni per la costituzione, ha infatti avuto luogo un evento cruciale per la storia politica dell’India: nella cittadina di Ayodhya, nel cuore di quell’India del Nord che è il serbatoio di voti del partito di Narendra Modi, in occasione di una grandiosa cerimonia cui hanno preso parte tutte le autorità del paese, il primo ministro è giunto a consacrare un nuovo tempio dedicato alla figura del dio Ram. Per comprendere la crucialità dell’evento bisogna sapere che il tempio è stato eretto dopo lunghe battaglie legali sulle macerie di una moschea costruita nel 16° secolo dopo che il fondatore dell’impero Moghul in India, il comandante Babri, aveva a sua volta fatto distruggere un tempio che sorgeva lì da secoli per celebrare il luogo dove secondo il mito sarebbe nato il dio Ram.
La moschea fu distrutta nel 1992 da una folla di estremisti induisti in seguito a una mobilitazione che rappresentò un chiaro segnale della ormai avvenuta radicalizzazione in chiave politica di movimenti organizzati di natura religiosa diffusi da tempo nella società indiana. All’evento fecero seguito settimane di scontri, pogrom e distruzioni di templi e moschee, aprendo definitivamente un vaso di Pandora che rese evidente la fragilità degli equilibri su cui si basava il moderno stato indiano sorto con la liberazione dal giogo coloniale britannico.
Nel 2002 un incendio (la cui dinamica non è mai stata accertata) causò la morte di oltre cinquanta pellegrini indù su un treno in arrivo proprio da Ayodhya: la tragedia fu all’origine di una nuova esplosione di violenza tra induisti e musulmani nello stato occidentale del Gujarat, causando la morte di oltre 2.000 persone, principalmente musulmani, e la distruzione di oltre 200 moschee. A governare lo stato in quel momento era proprio l’attuale primo ministro Narendra Modi, che fu accusato (ma infine assolto, anche se per anni gli Stati Uniti e altri paesi gli vietarono l’ingresso nel paese) di non avere fatto abbastanza per impedire la conflagrazione di violenza.
In ogni caso le accuse e i processi invece di ostacolare la carriera politica di Modi ebbero l’effetto opposto, permettendogli di assurgere al ruolo di martire perseguitato e di sfruttare il palcoscenico offertogli per condannare lo storico partito dell’establishment secolare (il partito del Congresso dominato da decenni dalle stesse famiglie, e retto quasi ininterrottamente dal 1998 al 2023 dalla vicentina Sonia Maino Gandhi) di aver trascurato le tradizioni culturali (ovvero «religiose») del paese in nome di un’ideologia straniera (il secolarismo) e di non aver saputo mettere a profitto le notevoli risorse materiali e immateriali del paese.
Dopo essere divenuto primo ministro nel 2014 dopo oltre 12 anni alla guida dello stato del Gujarat, Modi ha saputo sfruttare tutte le possibilità offerte dalla metodologia di governo neoliberale in un paese come l’India: da un lato ha favorito investimenti nel settore delle costruzioni, infrastrutture e tecnologie informatiche, dall’altro è andato a colmare l’inevitabile «vuoto di senso» prodotto dai forti processi di sradicamento e alienazione, causati dall’impetuosa accelerazione economica, soffiando sul fuoco della retorica identitaria religiosa. Un cinico calcolo di ingegneria politica ha reso chiaro a Modi che i 200 milioni di musulmani, rappresentando il 15% della popolazione, potevano essere sacrificati sull’altare del suo successo politico, divenendo un utilissimo «nemico interno» su cui scaricare ogni genere di tensione sociale.
Come detto, mancando dall’India dal 2012 avevo accumulato un certo carico di aspettative per i possibili effetti di questo sbandierato sviluppo economico sulla vita quotidiana nel paese. Nelle settimane antecedenti la partenza, nel tentativo di organizzare con un certo anticipo i numerosi e lunghi spostamenti in treno, ero rimasto molto colpito dalla straordinaria efficienza del sito web delle ferrovie indiane, che permette di prenotare i posti nelle diverse classi e selezionare ogni genere di servizio e prestazione collaterale con meticolosità e precisione quasi ultraterrena. E così ero giunto a chiedermi se magari la rivoluzione digitale non avesse davvero trasformato all’improvviso l’India in un Behemoth algoritmico. A posteriori devo dire che mi sento orgoglioso di possedere ancora una sana dose di fanciullesca ingenuità…
Sin dalle prime ore dopo l’arrivo mi si è reso evidente che l’India è rimasta in tutto e per tutto la stessa, e che le nuove meraviglie della tecnologia non hanno nemmeno scalfito il millenario palinsesto di tradizioni culturali (devozione ai cerimoniali religiosi, rigida e immutabile struttura delle caste, rassegnazione/inesaurible pazienza dinanzi all’assordante disordine…) del paese, al più ne hanno sovreccitato il sistema nervoso. Sempre di più il clacson, folle assordante cacofonia che batte il passare del tempo, non sembra utilizzato per esprimere disapprovazione ma come una biologica dimostrazione della propria esistenza, atto comunicativo primario che permette al caos nelle strade di protrarsi immutabile senza volgere ogni istante in disgrazia.
A dispetto della «crescita vertiginosa» del PIL, la povertà continua ad assediare e travolgere le strade dell’India come una catastrofe naturale o una marea inesorabile che, data la sua apparente ineluttabilità, invece di generare rabbia appare accolta con pacifica indifferenza. Nel frattempo lo straordinario patrimonio di conflittualità sociale accumulato negli ultimi decenni nel subcontinente (le lotte portate avanti dalle caste basse e dai dalit, altresì noti come «intoccabili») per una maggiore inclusione sociale dalle popolazioni tribali per il rispetto dei loro diritti e da attivisti di diversa estrazione per la salvaguardia dell’ambiente, minacciato da megaprogetti per lo sfruttamento delle risorse naturali, sembra trovarsi stordito dal pugno duro utilizzato dal governo Modi (massicci arresti di oppositori e intellettuali accusati di essere «anti-nazionali» o di «connivenza col terrorismo» maoista o islamico a seconda dei casi, intimidazioni di giornalisti, misteriosi omicidi o sparizioni…) e dalla sua abilità nell’assimilare al proprio progetto politico (individuando i giusti esponenti da premiare ed esibire come casi di successo individuale, d’accordo con i precetti del manuale neoliberale) anche quei settori della società (le caste inferiori) che nei decenni precedenti erano invece giunti a riconoscere proprio nelle tradizioni religiose induiste la fonte delle discriminazioni ataviche cui apparivano condannati.
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Se ogni festival letterario è un genere più o meno ben riuscito di bolla, dove convengono tante anime belle convinte che le (proprie) idee possano avere la forza di rendere il mondo un luogo migliore, ritrovarsi (dopo anni di attesa e fantasie e quattro frenetiche settimane di viaggio nel subcontinente) al mitico Jaipur Literature Festival (pubblicizzato sul sito web come «the greatest literary show on Earth») nell’India di inizio 2024 spazzata da una tempesta di turbe elettorali ed emozioni ataviche, può assumere tratti davvero irreali.
Se comparata ad altre città dell’affollata e inquinatissima India del Nord, pur con i suoi diversi milioni di abitanti, Jaipur gode di un tessuto urbano vagamente più ordinato e per questo molto apprezzato dai turisti, anche se l’inevitabile contrappasso da pagare è l’entusiasmo con cui i commercianti di tessuti, gioielli e prodotti in pelle cercano in ogni modo di attrarti nei negozi mentre si passeggia nelle strade della celebre città rosa.
Il sito prescelto per il festival (a circa otto chilometri dal centro) ha in ogni caso poco o nulla a che vedere con la città, trattandosi di un grande albergo (dove alloggiano le centinaia di ospiti giunti da ogni angolo dell’India e del pianeta) nei cui ampi spazi all’aperto risultano disposti cinque diversi palchi dove, per cinque giorni di seguito, si alternano in parallelo dal mattino alla sera una decina di sessioni la cui durata di cinquanta minuti è rispettata in maniera rigorosissima. La registrazione necessaria a partecipare al festival ha un costo piuttosto accessibile: ciò permette a migliaia di giovani e studenti di ogni età di prendervi parte, generando una coloratissima folla che fluisce di continuo tra i diversi palchi e i molteplici stand impegnati a vendere anche cibo, capi di abbigliamento e accessori vari. Ogni tanto si ha quasi l’impressione di essere a un festival musicale, non fosse per le lunghe e ordinate code che si formano qua e là al termine di ogni sessione allo scopo di ottenere una copia del libro firmata dall’autore…
Invece di perdermi a fornire sporadiche e sommarie impressioni riguardo alle tante sessioni cui ho assistito e alla cacofonia di voci e idee che risuonavano al festival, preferisco ora presentare alcune ulteriori riflessioni sulla situazione nel paese alla luce di quattro libri pubblicati nel 2023 in India in lingua inglese e riguardo ai quali ho avuto la fortuna di discorrere (di persona o via mail) con i rispettivi autori.
Si tratta di tre opere di finzione letteraria e uno di saggistica, ma come vedremo in tutti i casi i confini risultano essere molto labili, o quanto meno messi in discussione.
Light at the End of the World di Siddharta Deb (nato e cresciuto nel tormentato stato dell’Assam, in quella zona dell’India che si protende in un’incerta topografia dibattuta tra Bangladesh, Bhutan e Birmania) è l’opera più coraggiosa a livello di invenzione formale, trattandosi di una visionaria composizione in cui il piano di racconto ambientato in un’India contemporanea trasfigurata da elementi distopici (compreso un misterioso scimmione dotato di ultrapoteri, un ibrido tra King Kong e il dio Hanuman di cui sopra, lo scimmione divenuto negli ultimi anni il campione della destra induista) risulta messo in tensione con altri tre piani narrativi ambientati in diversi contesti storici. I periodi scelti per ambientare le vicende corrispondono nello specifico a tre traumi collettivi che ancora oggi svolgono un ruolo importante nel subconscio del paese, a causa della loro problematica elaborazione a livello di storiografia e discorso pubblico: la rivolta anti-coloniale del 1857 (cui alcuni rilevanti settori della società indiana mancarono di partecipare), la partizione di Pakistan e Bangladesh nel 1947 (all’origine di mai sopite tensioni politiche esterne e interne, essendovi ancora oggi in India circa 200 milioni di musulmani, ovvero il 15% della popolazione) e la terribile catastrofe ambientale di Bhopal del 1984, frettolosamente rimossa ma i cui effetti sono ancora terribilmente attuali. La natura dei temi trattati e il particolare stile di scrittura allucinatorio utilizzato da Deb, che da oltre 20 anni vive a New York ed è noto per i suoi reportage giornalistici dissidenti, ha l’effetto di trasfigurare continuamente la realtà in finzione e la finzione in realtà, nel tentativo di fornire al lettore una originale chiave di accesso al labirinto di specchi che è l’India contemporanea, sempre più a rischio di perdersi in una pericolosa deriva di conflitti identitari a causa del rifiuto da parte delle autorità di affrontare le tante ferite aperte del proprio passato. In questo senso l’autore deve aver avuto ben presente la seconda tesi di filosofia della storia di Walter Benjamin, dove il filosofo berlinese afferma che: «Il passato reca seco un indice temporale che lo rimanda alla redenzione. C'è un'intesa segreta fra le generazioni passate e la nostra. Noi siamo stati attesi sulla terra. A noi, come ad ogni generazione che ci ha preceduto, è stata data in dote una debole forza messianica, su cui il passato ha un diritto». Del resto non mi arrischio molto nell’ipotizzare questo riferimento, in quanto Deb pone in esergo alla prima sezione del libro (di certo quella più avvincente) proprio una citazione dalla nona tesi, quella in cui Benjamin introduce la figura dell’Angelus Novus di Klee, avanzando la sua celebre affermazione di condanna dell’ingenuo progressismo che ha sempre caratterizzato gli ambienti di sinistra.
Appassionato come sono dell’opera e della figura del filosofo berlinese, mi ha scosso un fremito di emozione quando qualche giorno prima di raggiungere Jaipur ho individuato nel programma del festival la presentazione di un romanzo intitolato History’s Angel. Essendo già stato allietato dall’epigrafe nell’opera di Deb (che avevo acquistato a Calcutta in seguito alla presentazione effettuata in un altro festival), all’inizio ho pensato fosse solo una coincidenza o al più un vaghissimo e lontano riferimento. Per togliermi il dubbio ho voluto metterci subito le mani addosso (in una libreria di Lucknow): ed ecco che, dopo un folgorante inizio con cui l’autrice Anjum Hasan (cresciuta anche lei nella capitale dell’Assam perché il padre era ivi professore universitario di letteratura inglese oltre che traduttore letterario dall’urdu all’inglese) manifesta una devozione al creaturale che mi ha ricordato l’Elsa Morante de La storia, a pagina 31 ho visto giungere rassicurante il severo riferimento alla settima tesi: «Come ha detto il grande filosofo, non c’è mai documento di cultura che non sia, allo stesso tempo, documento di barbarie». E infatti l’intero romanzo, di impostazione più classica e fattura eccelsa, risulta essere una elaborata riflessione filosofica sul ruolo assunto dalla storiografia nei recenti anni di rivoluzione culturale attraversati dall’India. Il protagonista quarantenne di nome Alif è infatti un insegnante di storia presso una scuola pubblica di Delhi, la cui competenza a formare le nuove generazioni risulta ormai messa in discussione perché, in quanto musulmano, agli occhi di molti dei suoi studenti la sua parzialità non può che essere inevitabile. Il tasso di conflittualità e confusione tra mito, finzione e realtà raggiunge un livello delirante quando uno dei suoi giovanissimi studenti prende la parola in classe per riferire che secondo suo padre la ragione per cui i musulmani non entrano mai nella Kaaba è che all’interno ci sarebbe un tempio dedicato alla divinità induista Hanuman… Eppure Alif, a dispetto di tutti gli attacchi e le critiche a cui si trova soggetto, anche da parte degli amici e dai genitori che gli rimproverano le scarse ambizioni, si rifiuta di trascinare la storia nella polvere del campo di battaglia ideologico, preferendo continuare a credere che essa debba avere prima di tutto un ruolo umile e silente, volto a restituire una complessità in cui non esistono mai eroi né parti del tutto innocenti. Alif ha inoltre una particolare passione per quel periodo di grande fermento culturale rappresentato dai secoli di dominio islamico Mughal nell’India del Nord, che fu in grado di garantire un lungo periodo di pace sociale e lasciare sul territorio numerosi capolavori architettonici, in particolare a Delhi e nella regione circostante (il celebre Taj Mahal ad Agra è certo l’esempio più rappresentativo). Alif da anni vorrebbe scrivere un libro su questo periodo, ma non è ancora riuscito a identificare a quale tema specifico dedicare le sue ricerche. A questa sua indecisione si associa poi il dubbio di non avere davvero le capacità per essere un vero storico, perché sono troppe le emozioni suscitate in lui dalle questioni del passato, mentre a suo parere «gli storici non piangono». E così Alif, «reso inutile dalle sue contraddizioni» come gli rimprovera la moglie, finisce per protrarre la sua esistenza di padre di famiglia in una sorta di limbo indolente che in fondo gli sembra essere la soluzione più nobile e salutare, e che si può considerare una modalità di resistenza simile a quella praticata dallo scrivano Bartleby di Melville nella celebre interpretazione fornitane da Agamben. L’autrice Anjum Hasan nel corso della discussione seguita alla presentazione, ha fornito ulteriori indicazioni in questo senso affermando che questo rifiuto di produrre opere che si prestino a facili strumentalizzazioni, preferendo invece ampliare quanto più possibile il proprio spazio di pensiero, renderebbe Alif una figura «inoperosa» (molto simile a quella di artista secondo la definizione fornita da Agamben ne L’uomo senza contenuto).
Diversamente dai volumi di Deb e Hasan, entrambi autori sulla cinquantina con già diversi libri alle spalle, Quarterlife di Devika Rege è un’opera prima, ma anche l’unico dei testi qui trattati ad essersi già assicurato l’edizione italiana grazie alla lungimiranza di Guanda, che prevede di pubblicarlo questo autunno (nella traduzione di Clara Nubile). Il romanzo di Rege ha subito ricevuto numerosi elogi dalla critica per il suo ambizioso progetto di rappresentare le molteplici faglie della società contemporanea indiana, componendo un polifonico romanzo generazionale ambientato a Mumbai e dedicato alle vite di tre giovani nell’India da poco travolta dal successo di Modi. I tre personaggi attraverso cui si compne il caleidoscopio di Rege sono: il 33enne in carriera Naren che dopo aver trovato il successo personale in ambito corporate negli Stati Uniti nel 2014 decide di fare ritorno a casa, eccitato dalle prospettive che il nuovo governo può assicurare a giovani ambiziosi come lui. Vi è poi l’amica statunitense Amanda, che decide di accompagnare Naren in India per fare un’esperienza di «lavoro umanitario» presso una importante ONG impegnata a fornire servizi sociali in un grande slum di Mumbai scosso da tensioni sociali e religiose che mettono a dura prova la sua sensibilità e la sua capacità di comprensione. Il terzo protagonista è invece Rohit, fratello minore di Naren, alla ricerca di una strada nell’ambito della comunicazione e dei new media (ha da poco aperto la sua start-up assieme ad alcuni giovani soci) ma attratto in maniera irresistibile dal progetto politico di egemonia induista del primo ministro Modi, a dispetto delle notevoli resistenze diffuse nel suo ambiente famigliare (di casta alta) e culturale (quartiere di tenedenza hipster-intellettuale…) L’autrice si serve di un dispositivo narrativo modernista, tramite capitoli che si alternano dando voce di volta in volta a uno dei tre personaggi principali: vicende e pensieri si dispiegano così tramite un animato utilizzo del discorso libero indiretto, dando luogo a torrenziali flussi di coscienza. Nella sezione centrale del libro intitolata Stalemate («Stallo»), in seguito a una festicciola casalinga che si trasforma in una crudele resa dei conti tra i giovani partecipanti, il numero di personaggi attraverso cui si articola la narrazione finisce per moltiplicarsi come un frattale, in un crescendo di accuse di indifferenza, elitismo, orientalismo e razzismo/castismo che squarciano l’equilibrio ipocrita su cui si reggono le loro vite sociali. Fa poi seguito una drammatica sezione risolutiva di carattere fortemente cinematografico, dove sembra di seguire un drone che si aggira nel cielo di Mumbai, di quartiere in quartiere, durante una grandiosa festività religiosa induista che sembra sempre sul punto di sfociare in guerra civile… Senza dubbio bisogna riconoscere all’autrice di Quarterlife il notevole sforzo compiuto nella ricerca e nella sperimentazione di una forma letteraria adatta a rappresentare la turbolenta realtà sociale dell’India contemporanea, segnata da un labirinto di conflitti che sembrano emersi all’improvviso dopo secoli di un equilibrio fondato su rigide separazioni e ineffabili tabù. L’effetto sortito da questo romanzo-mondo (non tanto per la sua scelta di un «pubblico globale» come primo destinatario – anche se sulla scelta dell’inglese come lingua di scrittura, qui come negli altri romanzi considerati, ci sarebbe certo da riflettere – quanto per il tentativo di restituire nella forma più esaustiva possibile la complessità di quel «paese mondo» che è l’India) è quello di un senso di ansia e claustrofobica disperazione, alla ricerca di una via di uscita che purtroppo sembra intravedersi solo nella definitiva catastrofe, come affermato a pagina 333: «Questo interminabile odio, conflitto e lacerazione, quando esploderà annientandoli tutti e restituendo la terra al suo silenzio?» Questa recente tendenza della società indiana a «tirare fuori gli scheletri dall’armadio», assegnando dolorosa visibilità a ciò che si era soliti tenere nascosto, trova una folgorante espressione nell’ultima sezione del romanzo di Rege, quando con un improvviso gesto «brechtiano» (come la stessa Rege l’ha definito durante una conversazione personale facendo riferimento al saggio al saggio sul teatro epico di Walter Benjamin, ebbene sì ancora lui…) il racconto passa nelle mani di un avatar della stessa autrice che in prima persona si trova a conludere il romanzo con un vero e proprio «gesto rituale», ovvero il trasporto delle ceneri del padre da poco defunto nella città sacra di Varanasi sul Gange. A rendere interessante l’operazione (sempre rischiosa) di squarcio del velo di maya della finzione letteraria è la gravità con cui la figura dell’autrice si trova a citare i suoi stessi personaggi (in quanto afferma di sentirsi creata da loro almeno quanto loro da lei), nonché la malinconica delicatezza con cui giunge a porre in questione la stessa possibilità di concludere il libro: «Non finisco qui, né finisce l’opera. Si tratta solo di un rilascio, ancora una volta, verso il mondo da cui è stato raccolto».
La città di Varanasi è proprio il tema dell’unica opera «saggistica» qui presa in considerazione: si tratta di Fire on the Ganges di Radhika Iyengar, un libro nato dalla pluriennale indagine condotta nell’ambito di un dottorato di ricerca presso Columbia University sullo scottante tema della casta che da secoli ha il ruolo di amministrare le cremazioni presso il Manikarnika Ghat, un’area di poche decine di metri quadrati che riveste un ruolo fondamentale nella città e più in generale nella cultura induista. Anche se in Italia il termine casta mantiene una certa popolarità solo nell’ambito del più o meno gretto giornalismo politico, in India, a dispetto di tutte le battaglie condotte nel corso dell’ultimo secolo (grazie soprattutto alla titanica figura del pensatore e leader politico Bhimrao Ramji Ambedkar, purtroppo ingiustamente e colpevolmente sconosciuto fuori dall’India) e agli sforzi compiuti anche a livello costituzionale per tentare di sradicare questa tradizione che configura l’ordine sociale nel subcontinente, la sua rigidità risulta essere stata solo scalfita se ancora oggi sembra che appena il 5% dei matrimoni risulti contratto tra membri di caste diverse. Il sistema delle caste, legittimato storicamente da una elaborata e fantasiosa letteratura religiosa, si sarebbe imposto già intorno alla metà del primo millennio a.C per strutturare in maniera irrevocabile le diverse categorie professionali. Quattro macro-categorie sociologiche note come varna (sacerdoti, guerrieri, commercianti e contadini) col tempo finirono per suddividersi in una pletora di «caste» sulla base di motivazioni di carattere geografico e culturale. Inoltre, anche se si tratta di un’ipotesi ancora dibattuta, è probabile che a contribuire alla configurazione delle caste siano state le ondate migratorie di popolazioni giunte nel corso del primo millennio a.C. nelle pianure del Nord dagli altopiani iranici e dell’Asia centrale, definendo quindi una gerarchia in cui si trovò a svolgere un ruolo di rilievo anche la cosiddetta «linea del colore». Di certo quest’ultimo fattore migratorio ebbe un ruolo nel definire la vera e propria espulsione di un importante segmento della popolazione dall’ordine delle caste, determinando così una paradossale situazione secondo cui le persone si trovavano bandite da un ordine sociale che però utilizzava proprio questa esclusione per rafforzare la propria struttura a livello materiale e simbolico. Nel caso indiano il ruolo cruciale svolto dai cosiddetti «intoccabili» nell’assolvere alle professioni più difficili e pericolose (trattamento dei cadaveri umani e animali, pulizia degli escrementi, raccolta dei rifiuti…) rende perfettamente esplicito questo infame doppio vincolo antropologico. Radhika Iyengar ha dedicato la sua ricerca alla casta dei «Dom», ovvero gli incaricati di amministrare le pratiche di cremazione dei corpi sulle pire nei pressi del Manikarnika Ghat a Varanasi. La professione prevede, oltre alla gestione delle cataste di legno e alla corretta alimentazione delle fiamme (in un processo che dura diverse ore per ogni corpo), la preservazione del «fuoco sacro». Secondo una storia mista a leggenda esso continuerebbe ad ardere nello stesso luogo da migliaia di anni, donata ai primi Dom dalla divinità Shiva in persona… Si tratta com’è evidente di una professione molto particolare, alle prese con un lavoro che se da un lato è estremamente duro e logorante, dall’altro risulta godere di una natura quasi sacerdotale. E infatti la leggenda vorrebbe che in realtà i Dom in origine fossero dei brahmini, puniti però con l’espulsione nel mondo degli «intoccabili» a causa di uno sgarbo commesso nei confronti della dea Parvati (ovvero la mancata restituzione di un orecchino da lei perduto…) Se però lasciamo da parte i miti – con la loro capacità di rendere godibile e giustificabile ogni genere di ingiustizia e discriminazione – il volume di Iyengar ha il pregio di addentrarsi, utilizzando uno sguardo ibrido tra quello del giornalista politico e dell’etnografo, nelle vite di numerosi Dom, fornendo dettagli di estremo interesse per comprendere quanto ancora oggi, a oltre 75 anni dalla fondazione dello stato moderno indiano, sia difficile per un «intoccabile» liberarsi dallo stigma cui la sua stirpe è stata condannata. Se per chi rimane a vivere nel luogo in cui è nato è praticamente impossibile svincolarsi dalla secolare ragnatela di relazioni di potere e discriminazioni (soprattutto a causa della difficoltà di contrarre matrimonio con qualcuno di esterno), anche per chi si sposta in un’altra città il peso dello stigma continua a farsi sentire innanzitutto in ragione del cognome – che spesso fornisce chiare indicazioni relative alla casta di appartenenza – ma poi anche in ragione delle deficenze relative ai codici sociali e al linguaggio non-verbale, nonché per la frequente scurezza della pelle che costituisce da subito un rilevante fattore di sospetto…
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Voglio ora concludere questi miei appunti di viaggio e di letture indiane con qualche riflessione di carattere filosofico-politico, stimolate dall’analisi della situazione indiana e dalle opere letterarie menzionate, ma anche e forse soprattutto dal confronto con il pensiero di un gigante della filosofia e della politica indiana del 20° secolo. Mi riferisco qui a Bhimrao Ramji Ambedkar (1891-1956), senza cui ogni tentativo di pensare l’India contemporanea risulta futile e inconistente.
Già nel 2008 era stato un caro, geniale e scontroso amico italiano di ritorno dall’India ad annunciarmi tutto esaltato che «il prossimo secolo sarà Ambedkariano»: ma a distanza di ormai oltre quindici anni nulla sembra essere cambiato. Eppure, la vicenda di un uomo che pur essendo nato intoccabile – grazie a indiscussi meriti intellettuali (premiati da un maharaja il quale gli dà la possibilità di recarsi a studiare con John Dewey alla Columbia University di New York e ottenere poi un dottorato in legge a Londra, facendo poi carriera nella burocrazia indiana) e una ruggente personalità politica (fonda un partito e giunge a porre in discussione «da sinistra» la leadership dello stesso Gandhi nei lunghi anni di lotta anti-coloniale) – diviene nel 1947 uno dei principali incaricati di redarre la costituzione del paese, avrebbe senza dubbio le carte in regola per essere di interesse (quanto meno romanzesco) anche nella disattenta Europa sempre intenta a guardarsi l’ombelico.
Se a ciò si aggiunge il fatto che Ambedkar a partire dagli anni ’30 ha guidato un movimento in cui gli intoccabili – per sottrarsi al dominio esercitato dalle caste alte – venivano invitati a convertirsi in massa al buddhismo come strategia di lotta, ci si rende conto che l’India è una galassia che sembra contenere in nuce tutte le matrici del pensiero politico contemporaneo (a me in questo caso viene in mente il concetto di «esodo» di Paolo Virno, ma le associazioni sono a discrezione di ciascuno…)
Eppure, mentre la figura e il pensiero del perfettamente coetaneo Gramsci (1891-1937) ha avuto negli ultimi 40 anni un ruolo di estremo rilievo nel fornire a un’intera generazione di studiosi e scienziati sociali indiani una utilissima cassetta degli attrezzi per affrontare criticamente la travagliata storia politica e sociale del paese (dando luogo a una vera e propria disciplina nota come Subaltern studies), in Italia Ambedkar è un assoluto Carneade. Ordinarie tragedie del provincialismo nostrano, confermate dal fatto che un meraviglioso volume intitolato The Political Philosophies of Antonio Gramsci and B.R. Ambedkar. Itineraries of Dalits and subalterns è uscito nel 2013 sotto la curatela dell’italiano Cosimo Zene, illustre professore italiano alla SOAS di Londra e quasi sconosciuto in Italia.
La produzione intellettuale di Ambedkar è sconfinata almeno quanto quella di Gramsci, e come essa risulta febbrilmente dedicata a comprendere le ragioni storiche che hanno determinato forme strutturali di discriminazione e ingiustizia sociale, che nel caso indiano vuol dire innanzitutto la questione delle caste. Le sue analisi di sociologia religiosa sono ancora oggi un punto di riferimento per chiunque sia interessato al tema, ma il punto che mi interessa, al fine di creare una utile costellazione dialettica, è il ruolo da lui svolto nel rendere popolare il termine dalit (già introdotto nella seconda metà dell’Ottocento dal pedagogo e attivista politico indiano Jyotirao Phule) per identificare i soggetti intoccabili, rimuovendo però lo stigma storico legato a una terminologia di carattere religioso e teologico. Dalit è infatti un termine relativamente neutro (riconducibile etimologicamente al significato di oppresso), che nel giro di qualche decennio è divenuto un termine che in India ha permesso di unire in un fronte comune non solo gli «intoccabili» ma anche i membri delle caste basse e gli appartenenti alle cosiddette popolazioni tribali, fino a includere addirittura anche i musulmani in una nuova realtà politica nata all’inizio degli anni Ottanta e basata sul concetto di Bahujan (ovvero «i molti», qualcosa di vagamente simile all’idea di moltitudine sviluppata poi da Negri e del 99% del movimento Occupy).
La ragione per cui il concetto di dalit meriterebbe senza dubbio maggiore considerazione è l’ampia elaborazione teorica che Ambedkar, mentre lo configurava, si trovò costretto a compiere negli anni Trenta in un animato e a volte aspro confronto con il pensiero marxista, in particolare con il concetto di classe. Evitando di entrare nella paludosa discussione riguardo a struttura e sovrastruttura, su cui il pensiero marxista ha obbligato per decenni a prendere posizione, risulta cruciale segnalare che Ambedkar ha voluto insistere sul ruolo fondamentale svolto dai fenomeni di natura culturale (linea del colore, retorica religiosa, egemonia linguistica, interiorizzazione ereditaria dello stato di infeririorità…) nello strutturare le dinamiche che stanno alla base dell’ingiustizia sociale: in questo senso casta e classe (in alto come in basso) sarebbero due lenti da utilizzare sempre insieme quando da scienziati e attivisti si rivolge il proprio sguardo alla realtà sociale.
È stato quindi una piacevole sorpresa imbattermi, proprio mentre ero appena tornato dall’India, nei tre articoli che su questo sito Alberto Burgio ha dedicato alla questione del processo di «rifeudalizzazione sociale» dell’Europa, che a partire dagli anni ’80 del Novecento sta ponendo fine a quel breve periodo durante il quale gli ideali universalistici di eguaglianza basati sul diritto di cittadinanza ebbero l’occasione di costituire l’ideologia di riferimento, in ragione di una congiuntura estremamente fortunata (fine della Seconda guerra mondiale, riferimento sovietico, boom industriale, lotte sociali) e non certo per effetto dei naturali «effetti espansivi» a priori del capitalismo e della modernità. Ciò che si era ingenuamente ritenuto ormai una realtà del passato, ovvero il ritorno nella società europea di processi di segmentazione in chiave gerarchica secondo dinamiche che per molti versi richiamano più l’ineluttabilità delle caste (mi riferisco in particolare alla mancanza dei diritti di cittadinanza per milioni di nuovi europei di prima e seconda generazione, condannati per questo a sfruttamento economico e invisibilità politica) che il classico conflitto di classe, sta conducendo a un panorama aberrante definito da Burgio come «incesto tra arcaico e moderno».
In questo senso, allo scopo di rendere possibile nuovi territori di riflessione tramite i quali rinnovare anche la pratica e il linguaggio politico, mi permetto di avanzare un invito a riconsiderare in tutta la sua attualità il concetto di «subalterno» di Gramsci (che no, non era solo una parola in codice per proletario, allo scopo di evitare la censura della polizia fascista, ma era invece il tentativo di ampliare il concetto di «classe oppressa» alla luce di dinamiche culturali che erano imprescindibili nel caso della questione meridonale italiana) ponendolo in costellazione dialettica con quello di homo sacer di Agamben (che ha avuto notevole fortuna nell’ambito degli studi sulla migrazione, ma ha il difetto di rimanere legato a una dimensione storica piuttosto oscura) e con quello di dalit, definito teoricamente e poi reso strumento di battaglia politica da parte di Ambedkar.
Dinanzi alle incestuose aberrazioni del potere di cui sopra, si tratta anche per noi di inventare i nostri nuovi mostri...
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Michele Fano dal 2007 vive tra la Turchia e la Grecia, ispirato dalle vicende di antenati sefarditi e levantini che giunsero a stabilirsi nell’impero ottomano. Traduce e si occupa di ricerche di carattere storico legate al periodo di dissoluzione degli imperi e la corrispondente nascita dei fascismi, senza mai dimenticare la filosofia. Può essere contattato al seguente indirizzo: mikaildalit@gmail.com
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