top of page

Spazio, territorio, politica

David Ayers



1. La metropoli è la condizione spaziale del nostro tempo. È lo spazio assoluto, liscio, fluido, infinito, senza luoghi e senza storia, delle reti e del mercato globalizzato che ha abbattuto le mura della città del Moderno e il suo ordine legato alla sinergia tra forma e progetto, politica e mercato, produzione e scambio, potere della legge e figura del cittadino. Ogni continuità con la forma urbana del passato è definitivamente tramontata. Fuori da questo spazio non c’è più nulla, né una natura autonoma e incontaminata, né la possibilità di una fuga verso un altrove che non esiste più.

Ma quando dalle categorie del pensiero scendiamo nei recinti duri della realtà, allora non è più uno spazio liscio ma un territorio striato che ci si para davanti dove si proietta l’organizzazione economica, politica e culturale della società. La metropoli diventa territorio che si condensa inesorabilmente in luoghi tracciati da pratiche estreme di libertà, da livelli sfrenati di consumo, da forme di controllo capillari, da conflitti sociali dove a qualificarli è la violenza e non più lo scopo e, soprattutto, dallo sfaldarsi dell’azione politica.

Spazio e territorio, dunque, se tenuti insieme nella ricerca, pur nella loro contrapposizione, svelano i meccanismi di evoluzione e di trasformazione della metropoli contemporanea.

Ma un cambiamento della concezione dello spazio e della percezione del territorio, che comprenda tutti i gradi e i campi dell’esistenza umana, ha sempre alle spalle una rivoluzione sociale o antropologica che l’ha provocato (Schmitt, 1986). Negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso, il passaggio dalla figura del cittadino, che era insieme produttore e militante e che nella fabbrica e nel partito costruiva stabilmente la propria identità, alla figura dell’individuo consumatore e distruttore non solo di oggetti ma di relazioni sociali, identità, emozioni, affettività, legami, determina la catastrofe degli spazi chiusi e circoscritti della città (la famiglia, la fabbrica, la sezione, la parrocchia, il centro storico) e l’esplosione multidimensionale del territorio metropolitano. Ora non sono più lo Stato, la politica o la storia a definire e a nominare i luoghi ma, da una parte, una pratica radicale e individuale della libertà innescata dalla cultura del consumo e che non vuole limiti, impedimenti di qualsiasi genere e responsabilità morali per soddisfare il desiderio; dall’altra e di conseguenza, una sindrome altrettanto radicale del controllo e della sicurezza in un mondo dove il rischio e il disordine sono sempre in agguato.

Il fattore di discontinuità tra città e metropoli è dunque rappresentato non solo dalla invasione delle reti ma anche dall’irrompere della centralità del territorio su cui si proiettano i caratteri radicali e distintivi della nostra fase storica: è sul territorio che si dispiega la catena del valore; è sul territorio che una società senza futuro proietta immediatamente i suoi desideri; è sul territorio che si misura il grado di libertà di un individuo; è sul territorio che si apprendono quelle facoltà comunicative e intellettive che con i loro saperi e linguaggi appartengono alle forze produttive postfordiste e costituiscono oggi le condizioni fondamentali della produzione, e anche quei comportamenti e quella capacità di relazionarsi con un mondo dove la possibilità, la contingenza, l’adattabilità, la rapidità di innovazione diventano i requisiti essenziali da incorporare nella merce perché fondamentali per il consumo e per il successo delle sue reti di vendita; è infine sul territorio, e dunque nel qui e ora, che esplode e si esaurisce la rivolta urbana. Dal conflitto sociale a una violenza sociale senza conflitto: più di ogni altro è questo il passaggio fondamentale che non solo andrebbe studiato nella ricerca ma applicato e fatto giocare dentro un’analisi politica.

2. Se tutto ciò corrisponde alla realtà, va allora rovesciato il metodo analitico di solito usato nelle ricerche sulla città, un rovesciamento indispensabile per la comprensione dei processi sociali e delle trasformazioni urbane: il percorso che va intrapreso non deve iniziare dalle relazioni tra forma della città e sistema economico, con dentro i fenomeni più vistosi e più scontati come la speculazione immobiliare, la rendita, la gentrificazione, per arrivare poi, ma solo nelle ricerche più virtuose, alle figure sociali che li vivono e li subiscono. Il percorso è un altro: deve partire dal rapporto tra composizione della soggettività sociale, con dentro le sue condizioni di vita, i suoi desideri, le sue passioni, le sue lotte e crisi delle forme politiche di rappresentanza per pervenire poi allo sviluppo e alla trasformazione economica e infine alla descrizione della forma della città.

Il territorio metropolitano non nasce dallo spirito imprenditoriale, dalla pianificazione o, peggio, dalla natura, come molte storie ci vogliono raccontare, ma appunto da un mutamento antropologico e sociale e di conseguenza dalla rottura dei codici, delle regole e delle leggi che legavano la città del moderno alla figura del cittadino e allo sviluppo industriale. Critica dell’economia e critica della società non hanno le stesse origini e non usano le stesse categorie. Ma – come ricorda sovente Mario Tronti – c’è un buco nero di conoscenze antropologiche e sociali di cui dovremmo esserne consapevoli e c’è una dimensione antropologica del problema politico che andrebbe risolta e che alla fine non stimolano e non permettono questo rovesciamento dell’analisi. La consuetudine e il sempre-uguale prendono allora il sopravvento e le ricerche non fanno che intonare il consueto ritornello.

Ma, nonostante tutto, spazio e territorio costituiscono ancora le dimensioni imprescindibili della politica: è «attraverso rappresentazioni spaziali che le teorie politiche formano i propri concetti, dispongono gli attori, ne organizzano le azioni, e disegnano i fini della politica in termini di collaborazione e di conflitto, di ordine e disordine, di gerarchie e di uguaglianza, di inclusione e di esclusione, di confini e di libertà, di sedentarietà e di nomadismo, di marginalità e di centralità» (Galli 2001, p.11). È l’agire politico, fondato sul soggetto, sulla società e sullo Stato, a misurare e a strutturare il territorio il cui controllo diventa dunque una delle sue finalità essenziali. Così almeno è stato per tutto il periodo del Moderno. L’epoca della globalizzazione, dove la estensione dello spazio e del territorio non conosce più alcun limite, sembra invece aver messo in crisi e fuori misura la politica e le sue soggettività: da una parte, assistiamo allo sfondamento dei confini provocato dalle immigrazioni di massa, dalla espansione urbana illimitata, dal potere della finanza internazionale che non conosce frontiere e dal conseguente indebolimento dello Stato che, non avendo più riferimenti territoriali definiti, diventa una variabile del sistema economico; dall’altra, all’azione dominante del consumo con la trasformazione del «nemico» da pubblico a privato, del conflitto collettivo in violenza individuale, dell’ideologia in desiderio che diventa il motore delle nostre scelte e delle nostre vite.

Per confrontarsi e configgere con i poteri economici è però assolutamente necessario entrare in una dimensione politica. In altre parole, non è possibile fare ricerca sul territorio, che è una categoria del pensiero politico, senza riflettere sui rapporti reali di potere, sulla irriducibilità del conflitto, sulla questione della decisione e su quella della differenza, sull’emergere o meno di nuove soggettività, sulla immutabilità della natura umana e sulle sue passioni come presupposto elementare di un pensiero specificatamente politico. Cambiare il paradigma dell’umano, semmai lo si possa fare, non è compito della politica ma della immaginazione o della fede.

Rimane dunque profondamente errato considerare la metropoli e le sue periferie solo come pezzi di storia economica, come è sbagliato definirle solo come luoghi dove emergono nuovi modelli di socialità. Certo, sono anche questo, ma reputare che economia e società possano essere spiegate solo dentro una loro supposta autonomia e non anche come effetto della crisi della politica e dello Stato, e soprattutto ritenere che il territorio possa considerarsi come un bene comune e non come una polveriera attraversata da fratture che hanno prodotto una disseminazione di poteri in continuo conflitto e negoziazione tra loro, fuori da ogni regola e ordine, porta la ricerca verso approdi inutili e insignificanti. Se spazio e territorio rimangono categorie di un pensiero politico, seppure in crisi, una ricerca che non vuole raccontare solo l’esistente non può fare a meno, con qualsiasi tipo di strumento il nostro sapere e la nostra esperienza ci mettano a disposizione, di cercare e individuare dentro la metropoli le forme, le culture, i comportamenti e i luoghi di un nuovo «politico» e di conseguenza la possibilità di provocare un ritorno in campo della politica per dare forma e senso alla nuova territorialità. Capire insomma dove si situano le opposizioni reali che fanno nascere una soggettività e che ricostituiscono uno spazio pubblico politicamente agito.


3. Il territorio metropolitano possiede ancora una potenziale capacità di determinazione politica non perché, come nella geopolitica, sono delle convenzioni a stabilirla, ma perché è legata sia al grado di intensità delle divisioni e dei conflitti che lo attraversano, sia perché è strettamente connessa alla centralità della questione della governabilità dei rapporti sociali, e sia, infine, perché è sul territorio che si proiettano violentemente i desideri di una società del consumo che priva di futuro e di valori vede nel qui e ora e in una pratica di libertà senza impedimenti le sole possibilità per soddisfarli. Ma di più. È proprio un’analisi realistica del territorio e delle sue figure sociali a porre di nuovo la questione di un ritorno della sovranità «come bisogno di autodeterminazione, come espressione della concretezza e della drammaticità della politica, come tentativo di riconnettere realtà economica, destini personali ed esigenza politica collettiva, di sconfiggere oligarchie, di riconoscere conflitti […] di spiegare come [non] sia possibile confrontarsi con i poteri economici senza entrare nella dimensione politica: appunto, nella sovranità» (Galli 2019, p.147).

Se il discorso sulla sovranità è oggi totalmente egemonizzato dalla destra non è solo per il fatto che le è più congeniale ma soprattutto per l’incapacità della sinistra di riuscire a contestualizzarlo nelle situazioni più a rischio, dove la dispersione dei poteri va a scapito della popolazione più debole che rimane priva così di qualsiasi strumento di difesa e, di conseguenza, alla mercé dei piccoli potentati locali.

Dunque, domanda di libertà radicale e insieme un ritorno della sovranità della politica: un difficile ma imprescindibile equilibrio senza il quale lo Stato rischierebbe di trasformarsi in un nuovo Leviatano e la società potrebbe liquefarsi sotto la spinta di un individualismo sempre più trionfante e narcisistico. La stessa domanda di libertà se vuole acquisire una connotazione politica non può che configgere con una sovranità che cerca di contenerla imponendole sempre legge, ordine e nuove frontiere: «Un mondo senza frontiere – afferma Yael Tamir – non è affatto un mondo ideale: non può essere né democratico, né giusto. E comunque quell’utopia [uno Stato senza confini] è stata cancellata in pochissimo tempo dopo l’esplodere della pandemia del Coronavirus. In un pugno di giorni sono stati chiusi i confini, è stato sospeso il trattato di Schengen. Per garantire la vita dei loro cittadini anche le democrazie hanno sbarrato le frontiere. [Di conseguenza] credo che le élite della sinistra illuminata e cosmopolita abbiano commesso gravi errori […]» (2020, p.28).

Occorre, dunque, volgere nella nostra ricerca lo sguardo altrove, abbandonare i vecchi sentieri della tradizione, prendere atto, ad esempio, che questo ritorno della centralità del territorio in una società del consumo non solo richiede una riflessione nuova sui poteri dello Stato, ma ci interroga anche sulla natura di questa prepotente domanda di libertà che proviene da ampi settori sociali, che sfocia in molti casi in rivolta (Libano, Bielorussia, Hong Kong, USA) e che alla fine sembra determinare la crisi del nesso libertà/democrazia.

Sul territorio saltano quelli che sembrano i requisiti indispensabili per un esito positivo di questo rapporto, e cioè la «circostanza materiale» dello spazio illimitato e la «sfrenata mobilità» che nell’America di Tocqueville riuscivano a legare insieme democrazia e libertà. La fine dell’utopia di sempre nuove frontiere, il restringimento degli spazi liberi per opera della burocrazia e il controllo incessante sulla mobilità stanno infatti provocando una loro difficile coabitazione. Ed è proprio contro questi restringimenti e questi controlli che si attivano le pratiche di libertà che assumono in questo caso un forte significato politico proprio perché, a differenza degli universali indifferenziati e generici, rispondono sempre, come affermava Foucault, a domande concrete: dove, quando, chi domanda libertà. E così la centralità del territorio, pur in un periodo di crisi profonda della politica viene in parte riconquistata. Ma anche qui occorre fare attenzione perché la domanda di libertà non si innesta immediatamente sulla questione sociale. La libertà ha poco a che fare con la giustizia, l’uguaglianza o la solidarietà. È una libertà materiale, concreta che si proietta sul territorio, sui territori delle periferie urbane più che in altri, e cerca anche fuori dalla legalità sempre nuovi spazi per essere esercitata. Se, però, parafrasando Fernand Braudel, ogni realtà sociale è per prima cosa territorio, e se l’esercizio della libertà si misura e può avvenire solo attraversando concretamente territori, allora la conoscenza sul come e quando si possono incontrare rivendicazioni sociali e pratiche di libertà, a differenza di quello che pensava Hannah Arendt, sarà la grande scommessa vincente di una nuova teoria politica il cui incipit non può che essere dedicato, come è buona regola per ogni pensiero critico, alla natura dei nuovi conflitti.

E qui il passaggio è dai movimenti sociali alle rivolte urbane: il conflitto si trasforma in rivolta che, a differenza dei primi, non mira a mettere in crisi il sistema e le attuali forme di vita, che non costituisce soggetti né movimenti né istanze politiche che riescano a dare futuro, forma e organizzazione alla contingenza della lotta. Lo scontro si esaurisce nel qui e ora e la politica si ferma all’individuazione del nemico. Si tratta di lotte anarchiche, come quelle che descrive Michel Foucault: innanzitutto i conflitti attaccano oggi una tecnica di potere e, dunque, hanno come «fine gli effetti di potere in quanto tali», di cui il principale è il controllo dei corpi e del territorio; sono dunque conflitti orizzontali per il dominio, la ricchezza e il riconoscimento; poi, sono lotte «trasversali», vale a dire che non sono circoscritte a un solo paese; e, infine, che «sono lotte immediate per due ragioni. Attraverso queste lotte gli individui criticano le istanze di potere a loro più vicine, quelle che su di essi esercitano la loro azione. Gli individui non cercano il “nemico principale”, ma il nemico immediato. Essi non si attendono nemmeno che la soluzione al loro problema si possa trovare in qualunque futuro (vale a dire in una liberazione, in una rivoluzione, nella fine della lotta di classe) […]» (Foucault 1983, p. 240).


4. Ma c’è qualcosa in più in questi anni che rende più difficile il compito a chi sostiene che la libertà sia il fondamento della vita di uomini e donne e che il ritorno del primato della politica rimanga il contesto necessario affinché la stessa libertà non corra il rischio di trasformarsi in anarchia narcisistica o in puro edonismo. Mi riferisco all’espansione di due culture, ormai dominanti nelle loro sfere di influenza, ma che riescono in alcuni casi ad essere anche trasversali rispetto a fedi e convinzioni politiche diverse, ma unificate entrambe dalla volontà di educare, persuadere e scomunicare ogni alterità e differenza, ogni pensiero e comportamento che non vi si adegui. La diffusione della pandemia, che risuona continuamente come un «Annibale alle porte», ha reso ancora più potenti e pericolosi questi orientamenti culturali che penalizzano appunto non solo la libertà materiale ma la stessa libertà di critica e di non adesione. Mi riferisco, da una parte, alla cultura neoliberale e al suo globalismo, con il suo capitale finanziario, il suo sistema di mercato, il suo profitto come unica ragione di vita ma anche con le sue contraddizioni politiche interne come il primato della Nazione e il conseguente sovranismo che mal si accordano con il globalismo stesso; e, dall’altra, alla cultura che definisco del «politicamente corretto» o dei Valori assoluti, con i suoi universali etici e imperativi morali, indifferenziati e generici, quali il cosmopolitismo, la solidarietà, la partecipazione, l’altro, l’umanitarismo, i beni comuni, l’unità a tutti i costi. Ma anche qui con le sue contraddizioni interne come l’obiettivo del primato della politica e dell’intervento dello Stato che mal sopportano però la coabitazione con quelle categorie generiche e universali. Il risultato è che siamo rimasti senza politica e senza Stato appunto perché gli universali non producono mai politica e Stato ma solo un grande e confuso calderone dove tutti senza distinzione e con contagioso entusiasmo possono sguazzare. E allora, per entrare nel merito, l’attuale crisi della politica non consiste nella mancata fondazione di un ordine di «valori» nuovo che proponga una strada per la salvezza e la realizzazione dell’uomo, ma all’opposto, nel fatto che la separazione tra politica e valori si presenta in modo lacunoso e contraddittorio; è ancora vissuta non come un grande evento liberatorio ma con paura e disorientamento. La politica ha a che fare con il particolare, la contingenza assoluta, l’incertezza, l’essere di parte non con gli universali. Questi fanno parte del mondo dell’economia, dell’etica, della religione. Essa invece deve guardare agli interessi e ai conflitti di interessi, questi deve sapere analizzare e cercare di governare, tra questi deve sapere decidere, trovare i suoi strumenti e la sua ragione di essere. La stessa produzione di soggettività, non a caso bene oggi molto raro, può avvenire solo se si oppone a ogni universale.

Non sono ovviamente contro la solidarietà e l’accoglienza – ci mancherebbe altro! – sono critico però nel considerare questi sentimenti e comportamenti come la possibilità o addirittura l’origine di un’azione politica. Ciò a cui fanno riferimento questi stessi sentimenti è all’umanità o a una cittadinanza il cui esercizio è concepito come partecipazione all’universale o a una unità generale. Sognano l’unificazione del mondo e l’eliminazione delle frontiere per proclamarsi cittadini del mondo come se il mondo fosse di per sé un’entità politica.

Il destino della politica rimane quello di dare una forma e una misura capaci di porre confini che nessun universale, che traduce ogni concreto in astratto, potrà mai assegnare. Mettere logiche universali indeterminate alle origini della politica vuol dire fare il gioco dei potentati economici che pretendono di sostituirla. Non solo. Senza la decisione, cioè senza il cuore della politica, i diritti stessi sono destinati a deperire o a restare fin dall’inizio lettera morta.

In altre parole che la città debba accogliere il diverso, dialogare con l’estraneo, produrre spazi e beni comuni, accettare modi di vita differenti è giusto ma devono essere scelte dettate da ragioni politiche e non da principi etici o dai buoni sentimenti.


Bibliografia

Foucault, M., 1989, Il soggetto e il potere, in Dreyfus, H.,L.,Rabinon, P., (a cura di), La ricerca di Michel Foucault, Firenze, Ponte delle Grazie

Galli, C., 2001, Spazi politici. L’età moderna e l’età globale, Bologna, Il Mulino

Galli, C., 2019, Sovranità, Bologna, Il Mulino

Schmitt, C., 1986, Terra e mare. Una considerazione sulla storia del mondo, Milano, Giuffrè

Tamir, Y., 2020, Le ragioni del nazionalismo, Milano, Bocconi

bottom of page