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«Quando qui c'erano le oche...». La periferia di Milano ne «L'Arialda» di Giovanni Testori (1960) (I)



La periferia di Milano

Con L’Arialda (1960), quarto volume del ciclo I segreti di Milano, Giovanni Testori ci fa immergere nel clima della Milano negli anni del boom. Protagonisti sono gli abitanti della periferia nord-ovest della città, alle prese con l’immigrazione, l’inquinamento, i licenziamenti, il malaffare, gli sfratti, l’odio per quelli del centro... A cento anni dalla nascita dello scrittore di Novate, il capolavoro testoriano ci sia oggi da lezione per una letteratura che sceglie di dare un’immagine non convenzionale delle nostre città.


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Parte I: I segreti di Milano negli anni del boom

Dire che Milano fa da sfondo a gran parte della copiosa produzione di Giovanni Testori, scrittore nato nel 1923 a Novate Milanese, alle porte della città, e lì vissuto per il resto della vita, è cosa nota, e forse anche riduttiva. Tralasciando per un momento le pur numerose opere di ambientazione mitica o sacra (d’altronde situate anch’esse spesso in Lombardia), si potrebbe affermare che, dalla tragedia giovanile Le Lombarde (1950, la cui scenografia, in stile picassiano, rappresentava la periferia della città), fino al romanzo Gli Angeli dello sterminio (1992), passando per «In exitu» (1988), per Testori Milano è oggetto d’indagine e di poesia, vera protagonista della narrativa e del teatro. In un cinquantennio di attività letteraria, lo scrittore ha ritratto i mutamenti della propria città, in quella delicata fase in cui Milano da centro abitato ai cui margini la campagna faceva ancora capolino diveniva capoluogo prettamente industriale e poi centro pienamente neocapitalista e finanziarizzato, le cui contraddizioni sono ancora sotto i nostri occhi. La metropoli lombarda diviene emblema delle trasformazioni che investono l’intera società del secondo Novecento: di qui il significato smaccatamente politico sotteso all’operazione testoriana.

Come si evince fin dal titolo, la città è al centro della prima grande prova di Testori, I segreti di Milano, ciclo composto dalle raccolte di racconti Il ponte della Ghisolfa (1958, che in un primo momento avrebbe dovuto intitolarsi Racconti milanesi, come scrisse per lettera l’autore a Calvino nell’ottobre del ’54) e La Gilda del Mac Mahon (1959), dalle opere teatrali La Maria Brasca e L’Arialda (1960) e dal romanzo Il Fabbricone (1961), tutti editi da Feltrinelli. Il ciclo rimase incompiuto: alle opere pubblicate andrebbero affiancati almeno i drammi Il Branda (uscito postumo nel 2001) e L’Imerio, il dialogo teatrale in dialetto milanese El Giuan e la Luisa, i romanzi Nebbia al Giambellino (pubblicato postumo nel 1995, con una bella sovraccoperta che riproduce il Paesaggio urbano con camion di Sironi) e La strada di Besnate. Inoltre, lo scrittore di Novate coltivava l’idea di estendere lo sguardo ai paesi dell’hinterland con una serie dal titolo balzachiano La commedia lombarda, che avrebbe dovuto essere composta dal ciclo dei Segreti insieme a quello, mai portato a compimento, de Le linee della Nord.

I segreti di Milano sono ambientati nello squallido paesaggio dei quartieri popolari della periferia nord-ovest della città. Ci troviamo tra il Mac Mahon, la Ghisolfa, il Roserio e il Pero; ci spostiamo fino al cimitero di Musocco, alla fabbrica Carlo Erba di via Imbonati e arriviamo all’ospedale di Niguarda; passiamo infine per Vialba, dove si trova il Fabbricone e dove vive l’«operaia milanese» Maria Brasca. Abitano questi quartieri personaggi del sottoproletariato e del proletariato milanese, che devono fare i conti con salari insufficienti a un costo della vita che aumenta sempre di più; che ricorrono a ogni mezzo lecito e illecito pur di arrivare a fine mese o di evadere da quei quartieri-prigione; che affrontano le contraddizioni della città simbolo del boom economico, quali l’immigrazione dal meridione, la penuria delle abitazioni, l’inquinamento delle fabbriche, una faticosa emancipazione femminile, la violenza subita e perpetrata; che sono animati da una fervente fede politica (che sia comunista o democristiana, come attestano le opposte fazioni che si fronteggiano nel caseggiato del Fabbricone); che sfogano le proprie pulsioni in un’ossessione per il sesso, il quale spesso diviene merce di scambio e mezzo di sfruttamento.

Dunque, facendo tesoro anche dell’insegnamento di Roberto Longhi e condividendo lo stesso percorso di un altro allievo del critico d’arte, Pier Paolo Pasolini, a partire dalla fine degli anni cinquanta e l’inizio dei Sessanta Testori sceglie di cantare il mondo delle periferie, degli emarginati e degli esclusi. Come Pasolini, il borghese Testori condivideva le giornate con i ragazzi di borgata, riportandole sulla pagina e sulle scene (ma, – almeno a quanto volle dichiarare lo scrittore milanese – mentre l’autore di Ragazzi di vita annotava in presa diretta le proprie impressioni su un taccuino, per Testori la scrittura era una pratica secondaria).

Tutti i temi fin qui accennati trovano la loro più compiuta manifestazione ne L’Arialda, «tragedia plebea» divisa in due tempi, composta tra il febbraio del 1959 e il giugno dell’anno successivo ed edita sul finire del 1960 nella Biblioteca di letteratura diretta da Giorgio Bassani per Feltrinelli come quarto volume de I segreti di Milano.

Arialda Repossi, camiciaia e ormai attempata zitella, sta per unirsi in nozze tardive con l’ortolano Amilcare Candidezza, padre dei due scapestrati Gino e Quattretti. Quando il Candidezza rompe la promessa di matrimonio per fidanzarsi con la «terrona» e squattrinata Gaetana Carimati, Arialda si vendica, gettando tra le braccia dell’ortolano la giovane e bella prostituta Mina, sfruttata dal fratello di Arialda, il «Marlon» Eros (p. 65, tutte le citazioni sono tratte da L’Arialda, ediz. Feltrinelli 2017), di cui è innamorata nonostante lui sia legato sentimentalmente al giovane Lino. Amilcare lascia immediatamente la Carimati per Mina; dunque il piano di Arialda funziona alla perfezione, ma si traduce presto in tragedia: Gaetana, la quale con il matrimonio con il benestante ortolano sperava di riscattare i propri debiti e offrire una vita dignitosa alla figlia Rosangela (amante a sua volta di Gino Candidezza), nel finale si suicida, mentre l’innocente Lino muore in un incidente a cavallo di quella moto che tanto aveva desiderato e che Eros gli aveva regalato dando fondo ai risparmi accumulati con i suoi sporchi traffici. Accanto alle vicende dei protagonisti assistiamo alla triste storia d’amore di Angelo e Adele, alle nostalgie di Alfonsina, madre di Arialda e Eros, alle minacce dello spacciatore Oreste, alle marachelle di Tino, la spalla di Quattretti, alla schiera di defunti (il fidanzato Luigi, morto di tubercolosi, e la cara amica Vittoria, già moglie di Amilcare) che affollano l’instabile mente di Arialda.

Come per il resto dei Segreti, l’azione si svolge nella periferia della città più «europea» d’Italia, eretta ad emblema del miracolo economico. Quella di inizio anni Sessanta era la Milano che, rimosse le macerie dei bombardamenti della guerra, sfoggiava le proprie strade e case illuminate a giorno, la Milano dei fotoromanzi (e non a caso a Lino «piace troppo aver la faccia stampata sui giornali. Chissà, forse sogna […] di diventare una celebrità!», p. 39). Erano i tempi dei primi successi di Mina, con Il cielo in una stanza che veniva ascoltata alla radio dai vicini di casa (e infatti Visconti, primo regista del dramma, sfruttò la canzone come musica di scena). Era la città che dimenticava la vicinanza con la campagna (le oche che scorrazzavano nei cortili dei caseggiati), e che veniva coperta di cemento, mentre le case si riempivano di elettrodomestici:

l’alfonsina   Quando qui c’erano le oche…

l’arialda   Quando qui c’erano le oche, cosa?

l’alfonsina   Sarà stato tutto più difficile, non ci saran stati né radio, né telefoni, né frigo, né niente, ma la vita faceva un po’ meno schifo d’adesso.

l’arialda   È il mondo che cambia, cara la mia mamma! E peggio per chi, come te e come me, resta indietro. (p. 27)

Invece di assecondare l’euforia dell’inizio degli anni Sessanta e la mitologia del consumo, Testori sceglie di rappresentare «un'altra» Milano. Quella de L’Arialda è una società ossessionata dal profitto («Hanno approfittato tutti, di me, quand’ero ragazzo. […] I signori, i ricchi, quei maiali che m’han ridotto a creder solo ai loro soldi […]! E adesso, a approfittare degli altri, tocca a me», esclama Eros, p. 22), funestata dallo spaccio (le «bustine» di Oreste, p. 39, che vengono tirate nel naso durante le feste dai ragazzi del centro e che torneranno in «In exitu»), caratterizzata da una crescita economica che aumenta il divario tra le classi, con i ceti popolari che non riescono a soddisfare nemmeno i desideri piccolo-borghesi, come quelli di Angelo e Adele, i quali prima progettano di sposarsi e di metter su casa insieme, poi sono costretti a rinunciare ai loro sogni per il licenziamento del giovane («Altro che appartamento, caparra e salotto! […] Ti mandano via, e non puoi dir niente. Perché se non accetti, chiudon la fabbrica e allora invece di quindici o venti, a spasso, ci van tutti! Far famiglia, metter su casa: un sogno che dovrebbe essere il sogno di tutti!», p. 59).

Nella tragedia emerge anche una problematica di cui la Milano del boom inizia a soffrire e che oggi investe drammaticamente le nostre metropoli e l’intero pianeta: l’inquinamento atmosferico e acustico, dovuto alla ormai massiccia presenza delle fabbriche («Non ce n’è abbastanza delle zanzare e di tutto l’odore che gettano le fabbriche di quei ladroni, i loro gas e i loro metani!», p. 30) e a un traffico urbano che, dopo la dismissione dell’anello ferroviario e la costruzione di quello viabilistico, iniziava a essere caotico (le didascalie della commedia riportano spesso la presenza di rumori di macchine, moto e autocarri, e si pensi alla Fiat 1100 che travolge Lino): «Ma quand’è che la finiranno di rovinarci i nervi con tutti ’sti motori?», sbotta Alfonsina nell’incipit della scena I, 6 (p. 44).

Un’altra questione che offuscava la brillante immagine di Milano che il capitalismo fallacemente propugnava è la massiccia immigrazione prima dal contado e poi dal sud Italia che investiva specialmente la periferia della città per via di un costo della vita meno elevato rispetto a quello del centro. Testori testimonia il razzismo diffuso tra i milanesi, che si sentono rubati di «tutto! Pace, soldi, donne, uomini, lavoro» (p. 62). I «ladri della bassa» (p. 60), i «lazzaroni […] del mare» (p. 68) diventano facile capro espiatorio per le privazioni cui è ridotto il proletariato meneghino (quelli «delle montagne», p. 68) e vengono costantemente apostrofati, specialmente da Arialda e da Mina (che sono mosse tra l’altro da una vera o simulata rivalità erotica nei confronti della meridionale Gaetana), con improperi e parole violente («quelle negre là», p. 45, «La Vittoria che di ’ste schifose della bassa non voleva neanche sentir parlare? Le odiava! Le odiava prima ancora di vederle! Basta che sentisse l’odore, per scappare…», p. 52, e via ingiuriando). Il litigio tra Gaetana («quella porca di un’abissina là!», p. 57) e la figlia Rosangela viene interrotto dalle grida «Basta, terrone della malora! Tacete! Basta!» (p. 43) dei vicini di casa.

Insomma, per usare le parole di Testori, a Milano – e più in generale nell’Italia degli anni Sessanta –, eclatante era lo scollamento tra l’«esplosione “bummica” e [l]’enorme, tragica gaffe che vi sottostava» (Confiteor (secondo) di Testori davanti al registratore, 1976): bisognava solo scegliere di non ignorarlo.


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Flavia Erbosi è assegnista di ricerca in Italianistica presso Sapienza Università di Roma. Si occupa prevalentemente della censura nel secondo Novecento.

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