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«Quando qui c'erano le oche...». La periferia di Milano ne «L'Arialda» di Giovanni Testori (1960) (II)


Parte II: L’odio della periferia e lo scandalo della Milano bene

 



Immagine: Bert Theis. KB Project, 2004, Collage. Collection Bert Theis Archive, Lussemburgo, Milano

Con L’Arialda (1960), quarto volume del ciclo I segreti di Milano, Giovanni Testori ci fa immergere nel clima delle periferie milanesi negli anni del boom. Le questioni sollevate dalla tragedia e la sua lingua, che riproduce il parlato dei sobborghi, scandalizzarono non poco la società dell’epoca e la Milano bene accolse l’opera teatrale come una provocazione. A cento anni dalla nascita dello scrittore di Novate, il capolavoro testoriano ci sia oggi da lezione per una letteratura che sceglie di dare un’immagine non convenzionale delle nostre città.


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Della splendente Milano anni Sessanta Testori decide di cantare la livida periferia, condizionata dalla miseria, abbandonata dallo Stato e soggetta a speculazioni e malaffare (in modo non radicalmente dissimile dalle città di oggi). Come i rioni sono solitamente ai margini della città, così i personaggi de L’Arialda si trovano tutti o quasi ai margini della società (prostitute, omosessuali, zitelle, spacciatori, immigrati). Per alcuni di loro, «il Mezzogiorno» arriva «senza niente da metter sotto i denti», «la sera col ventre vuoto» (p. 67): è «la miseria che ci viene addosso. La miseria che ci smangia e ci riduce alla fame» (p. 42), lamenta la Gaetana. Altri si dedicano ad attività illecite per sopravvivere e far soldi (Eros, Oreste e Mina). Altri, infine, come l’ortolano che riesce a crescere agiatamente i suoi due figli, con un’onesta occupazione «un po’ di palanche son pur stat[i] in grado di metter[s]ele via» (p. 64). Tra quest’ultimi figurano anche Arialda e Alfonsina, le quali, dopo aver prestato servizio come operaie in un’industria farmaceutica («la capa deve starsene tutto il giorno, come stavi tu, alla Carlo Erba, e ringraziar Dio che ci sia quello, e la sottocapa, uscita dalla fabbrica, deve correre, come dovevo correr io, al Sanatorio a trovare quel marcione là!», p. 28), proprio grazie al denaro proveniente dagli affari di Eros riescono ad avviare un lavoro finalmente in proprio:

È venuto su nella miseria, lui? Sì? E se a un certo punto, coi fumetti o con chissà che altri intrachen, ha avuto la fortuna di capire che i soldi, in questa vita, valgon più di tutte le coscienze e le idee messe insieme, bene, avanti […]! […] chi ha permesso a te di lasciar la Carlo Erba e a me di mettermi a far camicie qui, in proprio, invece che là, sotto gli altri? I fumetti? Gli intrachen? E allora che fumetti e intrachen sian benedetti! (p. 29)

Testori fotografa i sentimenti contraddittori che muovono la gente di periferia. Di certo c’è la consapevolezza dell’ingiustizia, la rabbia, l’odio nei confronti dei ricchi: ad esempio, si veda il dialogo tra Arialda, Alfonsina ed Ernesta, l’aiutante delle due donne ideata da Testori appositamente per la messa in scena a cura di Visconti (si cita da uno dei copioni inediti de L’Arialda consegnati agli uffici censori):

l’ernesta (Appoggiando la cesta vuota sul tavolo)   E anche per oggi la via Crucis è finita.

l’arialda   Se è per quello, cara la mia Ernesta, sulla via Crucis ci siamo tutti.

l’ernesta   Non dico di no. Tranne che a me, nelle case di quelli là, il piede mi tocca metterlo tutti i giorni. Metterlo, vedere e tacere.

l’alfonsina   È il nostro mestiere.

l’ernesta   Fin che dura! Fin che un giorno o l’altro a portar in giro le camicie non saran loro e a prenderle alla porta non sarà la mia serva!

l’alfonsina   E alla tua bella età ti fai ancora di ’ste illusioni?

l’ernesta   Saranno illusioni, ma se non avessi neanche quelle non saprei proprio perché tirar avanti! «Mi manda la Repossi»… «La camicia per il signorino»… Ma a guardar la mia voglia, appena le mettono, i colletti di ’ste camicie, vorrei che li strozzassero: tutti!

l’alfonsina   Così, poi, non avremmo più chi ce le fa fare e ce le paga…

Arialda non ha «studiato il latino» e, come la maggior parte dei personaggi testoriani, alle ingiustizie della società reagisce come può, a volte con rassegnazione, spesso scegliendo una soluzione individuale e non collettiva. La sua coscienza politica, fomentata anche attraverso la partecipazione alla Resistenza cittadina («cosa credi che mi chiamavan per fare, l’Arialda di Milano? Solo perché sabotavo i tuder e quelli del Musso?», p. 55), non è certo particolarmente affinata, ma viene espressa in termini aggressivi e decisi:

l’alfonsina   Non glielo dico sempre, all’Amilcare, quando lo vedo? «Avessi le possibilità che ha lei, uno dei due, almeno uno, lo farei studiare».

l’arialda   Sì! Col bell’esempio che san dare quelli che studiano! Li vedo io, tutti ’sti damerini che vengon qui a ordinar camicie. Più son di famiglia, più han fatto tecniche e latinorum e più son marci! Del resto, […] è ora di finirla di credere che alla povera gente si possa aprir davanti le finestre, far vedere come si fa a vivere e a star bene, e poi chiuderle, e tenerla nella miseria e nella fame! (p. 29)

Ma, per Testori, oltre al sentimento di rivalsa c’è dell’altro. Le classi popolari sono pericolosamente in bilico tra la rivendicazione della propria autonoma identità e il tentativo di emulare le ricchezze, le ossessioni, la decadenza ideale, culturale e morale delle classi più agiate, di «’sti maiali del centro» (p. 75), come direbbe Arialda. La degradazione che ne consegue, imposta o sprovvedutamente ricercata, avrebbe finito per travolgere il proletariato, considerato privo di difese immunitarie atte a proteggersi dalle contaminazioni della borghesia (difese di cui invece la classe sociale corruttrice sarebbe provvista). Tuttavia, pur imparando in fretta la «lezione» del centro, di cui subisce un «fascino tremendo», per lo scrittore sul principio degli anni sessanta la periferia non ha ancora perso la propria «forza d’urto», che si sarebbe poi definitivamente smarrita con gli anni ottanta e novanta.

Il divario tra le classi sociali si riflette appunto nella contrapposizione tra centro e periferia della città, evidente anche dalle diverse tipologie di abitazioni menzionate ne L’Arialda. Nei sobborghi si possono trovare case più che dignitose, come quella dove vivono i Candidezza o quella, ammobiliata, che sperano di affittare – senza riuscirvi – Angelo e Adele:

l’angelo   Dunque. Tu apri la porta, entri e appena entri trovi l’anticamera. Anticamera! Anticamera, per modo di dire! Un buco. Ma l’attaccapanni e il portombrelli ci stanno. Poi, a destra, c’è una porta che va in cucina. A sinistra, un’altra che va in sala. Dalla sala una che va in stanza, e dalla stanza una che va nel bagno.

L’adele   E è tutto nuovo?

l’angelo   Talmente nuovo che, sui vetri, ci son ancora le esse!

L’adele   Ma la sala, com’è?

l’angelo   Una piazza d’armi!

L’adele   Hai sempre voglia di scherzare, tu! Ma il divano e le poltrone, almeno quelli, ci stanno?

l’angelo   Se avessimo i soldi per prenderli…

L’adele   […] E a che piano resta?

l’angelo   All’ultimo.

l’adele   Meglio. Così non ci butteranno giù né polvere, né sporcizia, né niente. (p. 35)

Più modesta è la casa dei Repossi, dove la sala da pranzo è anche bottega delle camiciaie e camera da letto di Eros. Infine, troviamo un misero stanzone, «un locale dove dobbiamo far tutto: mangiare, dormire e lavare» (p. 15), come quello preso in affitto da Rosangela e Gaetana (le due donne già erano state sfrattate dal Pero) e che Luchino Visconti ha mostrato in Rocco e i suoi fratelli, film del 1960 ispirato ai racconti testoriani. Di opposto tenore sono le case dei quartieri centrali, di via Cerva o via Cappuccio, dove vivono i «damerini» che comprano le camicie cucite da Arialda, piene di «saloni, saloni» e «con tutti quei lampadari, con tutti quegli specchi, che anche stando lì in anticamera, ci si vede dentro 30 volte…» («Sembra che debbano ballarci dentro tutto il giorno…», si legge nella versione dell’opera testimoniata da un copione inviato alla censura).

Più che le abitazioni, dove pure sono ambientate la maggior parte delle scene de L’Arialda, il luogo che incarna meglio la periferia milanese è la cava al limite della città (recita la prima didascalia della tragedia: «I prati e le siepi intorno alla cava. Sul fondo le ultime case. Il tramonto, immenso, cupo e violento, va spegnendosi nel cielo», p. 11), dove le coppie si avvicendano per amoreggiare tra i prati (e si ricordi che il sesso ha per Testori un forte significato politico e poetico) e dove Gaetana si toglie la vita: teatro di eros, miseria e morte, dunque («L’han poi fatta anche per quello!», p. 69).

Testori ambienta le proprie opere nella periferia milanese perché aveva compreso che solo tra gli emarginati, tra chi ogni giorno tentava a fatica di sopravvivere, tra chi affrontava il dramma dell’emigrazione, poteva trovare la vitalità ricercata per la propria arte. Inoltre, aveva intuito che, in Italia, le classi popolari, trattate per lo più con un approccio paternalistico e «redentivo» – come ancora accade purtroppo in molta narrativa contemporanea –, non trovavano spazio nella letteratura, rimanendo quest’ultima priva di drammi con protagonisti proletari che potessero essere all’altezza delle grandi figure aristocratiche o borghesi della tradizione. Invece, lo scrittore era dell’avviso che, se dotati della giusta indipendenza drammatica, i personaggi popolari potessero farsi portavoce dei grandi temi tragici che voleva invocare: anzi, essi potevano assurgere al ruolo di personaggi tragici proprio perché proletari. Questa è la conquista che lo scrittore di Novate tentava con L’Arialda.

Di fronte all’operazione testoriana la critica si divise. Alcuni commentatori ne lodarono la bontà, ritenendo che l’opera fotografasse le reali condizioni della periferia milanese e quelle dei ragazzi che vi vivevano. Viceversa, molti furono i recensori, anche da sinistra, che accusarono la tragedia di essere poco rispondente a verità. Ad esempio, su «l’Unità» (24 febbraio 1961) Giulio Trevisani sostenne che l’ambientazione di periferia non garantiva di per sé un chiaro posizionamento di classe (sottolineando che i personaggi de L’Arialda non appartengono propriamente alla classe operaia), giudicò l’opera manchevole anche di un semplice progressismo sociale (gli elementi politici che emergono dalla tragedia vengono considerati assolutamente secondari) e non perdonò a Testori di aver messo al centro del dramma Eros, un «pervertito», un «pederasta», la cui condizione, lungi dall’essere universale e, quindi, realistica, gli appariva del tutto soggettiva e slegata da una problematica di alto livello artistico (divenendo nei fatti inutile).

Molti denigratori alzarono la voce per difendere gli abitanti della periferia milanese dalla cattiva fama diffusa dalle opere testoriane. La tragedia venne ritenuta offensiva e falsa nei riguardi del proletariato: Testori aveva generalizzato i vizi di qualche individuo, finendo per screditare l’intero popolo milanese, che invece si distingueva notoriamente per la propria laboriosità. L’autore si difese dichiarando che i «benpensanti» rifiutavano L’Arialda perché erano disposti ad accettare soltanto un ritratto del popolo che fosse «pittoresco» ed edificante.

D’altra parte, la tragedia condivideva le stesse accuse frequentemente rivolte anche alla letteratura e al cinema neorealisti, a cui Testori pure attinge, e di cui sfrutta – ma nel contempo riformula e distorce – i motivi e le risorse espressive.

Nei Segreti la mimesi del parlato della periferia passa anche per la presenza di numerosi lombardismi e settentrionalismi (e si ricordi che, per quanto riguarda le battute in milanese, lo scrittore di Novate contribuì alla revisione della sceneggiatura di Rocco e i suoi fratelli). Quello di Testori non è, a quest’altezza cronologica, ancora teatro in dialetto e sperimentale, quanto piuttosto un teatro che si serve di un italiano «milanesizzato», cioè inframezzato da elementi e cadenze dialettali, in un ibridismo linguistico che verrà esasperato nel Testori più maturo.

Riproducendo il lessico e la sintassi degli strati più bassi della società, l’autore è mosso dal tentativo di rispecchiare (e con ciò giudicare) la realtà. Lo stesso approccio realistico venne ricercato dalla regia di Visconti, che scelse una scenografia che ritraeva fotograficamente la periferia della sua Milano. Furono in molti a trovare non riuscito l’intento realistico del capolavoro testoriano e poco convincenti le sue tesi. Per alcuni commentatori l’autore non era riuscito a superare il verismo e il formalismo per approdare a un’arte propriamente realista: prova ne sia la massiccia presenza del turpiloquio nel dettato de L’Arialda, le cui parole forti e volgari vennero considerate artificiose e di maniera, come falsi e contraddittori sarebbero stati giudicati anche i personaggi del dramma.

Le diverse prese di posizione dei recensori sulla stampa dell’epoca riflettono anche la ricezione non unanime del dramma da parte del pubblico a teatro, quando la tragedia venne portata in scena, prima all’Eliseo di Roma, poi al Nuovo di Milano, da Luchino Visconti con la compagnia Rina Morelli-Paolo Stoppa (dicembre 1960-febbraio 1961). Durante la prima romana, gli spettatori si divisero: alcuni protestavano, fischiavano e urlavano «Porci!», altri applaudivano, altri ancora si divertivano semplicemente a fare confusione. Annotò De Monticelli che i consensi provenivano quasi tutti dalle balconate, mentre la platea era a tratti indifferente a tratti scandalizzata. Il pubblico si indignò principalmente per le battute sui «terroni» pronunciate da Mina («Di’ che ti fa schifo, come tutte le donne e gli uomini della sua razza!», p. 61).  Ai fischi e al grido «Vattene a Mosca», Visconti reagì con il «gesto dell’ombrello» – sembra dietro le quinte, però –, finendo per essere incriminato con l’accusa di atti osceni in luogo pubblico (gli fu concessa l’amnistia nel 1963). A ogni modo, dopo la prima, all’Eliseo la compagnia riuscì a portare a termine una cinquantina di repliche in un clima piuttosto sereno.

Anche a Milano successe il putiferio. Fuori dal Nuovo erano presenti numerose camionette della polizia, mentre il teatro traboccava di questurini; assisteva allo spettacolo anche il procuratore della repubblica di Milano Carmelo Spagnuolo, tristemente noto per i molti sequestri che impose a libri e film e, in seguito, per la sua affiliazione alla P2. Il pubblico poco apprezzò il pianto di Eros per la morte dell’amato Lino e, dopo le continue interruzioni della rappresentazione, Giangiacomo Feltrinelli si rivolse indignato alla folla inferocita, urlando «Provocatori, smettetela, provocatori»: come avrebbe ricordato Testori, la sua voce si perse nella bagarre.

I duri commenti dei recensori e le aspre reazioni del pubblico non furono gli unici ostacoli che incontrò L’Arialda. Prima della messa in scena, l’opera già era stata ampiamente ostacolata dalla censura preventiva, che aveva vietato le prime due versioni del testo presentate da Testori e Visconti – facendo così saltare la prima al teatro comunale di Modena – e poi approvato solo una terza redazione, cui erano stati imposti numerosi tagli e un insolito divieto ai minori di 18 anni. Come se non bastasse, nonostante i due mesi di repliche a Roma, dopo aver assistito alla prima rappresentazione milanese il procuratore Spagnuolo impose il sequestro del testo a stampa e i sigilli al teatro. Anche i muri della città parlarono chiaro: il giorno dopo la prima, Milano era tappezzata di manifesti con la scritta «Via da Milano l’oscenità dell’Arialda». L’attrice Lucilla Morlacchi, interprete della parte di Rosangela, lamentò il clima respingente che in quei giorni si respirava in città, con una Milano appiattita sul giudizio del magistrato. Iniziò un processo che vide coinvolti l’autore e Giangiacomo Feltrinelli, conclusosi con l’assoluzione solo il 23 aprile 1964. La censura de L’Arialda faceva d’altronde eco a quella subita da Rocco e i suoi fratelli, pellicola sequestrata dallo stesso Spagnuolo (tra l’altro le autorità cittadine già avevano negato a Visconti l’autorizzazione a girare l’episodio dell’omicidio di Nadia all’Idroscalo). Nella Milano guidata dal primo esperimento di centro sinistra, la dura denuncia testoriana delle condizioni delle periferie non doveva essere ascoltata.

Le censure subite da L’Arialda suscitarono un vivace dibattito. Ad esempio, su «Il Contemporaneo» Rossana Rossanda denunciò l’operazione squisitamente politica che si nascondeva dietro l’accusa di immoralità: i censori, scambiando l’erotismo per oscenità, miravano subdolamente a colpire un teatro che sollevava problemi sociali e politici. Pasolini, il poeta Attilio Bertolucci e il critico Carlo Bo difesero invece la sostanziale moralità e religiosità dell’opera. Guido Piovene sottolineò il fatto che si trattasse di una «prova di forza» tra la parte conservatrice della magistratura e la parte libertaria e progressista dell’opinione pubblica, cui appartenevano gli intellettuali. Dalle pagine «Il Giorno» (28 febbraio 1961), Testori replicò accusando «la Milano reazionaria» e lanciando una sfida:

La Milano reazionaria vuole vivere sotto una crosta di responsabilità, una bella crosta di panettone che copra tutta la metropoli lombarda. Non ama che saltino fuori il dolore e la tristezza, non vuole che i personaggi popolari delle mie commedie protestino violentemente, non sopporta che un rimprovero, una lezione le giungano da tipi come la Arialda o l’Eros. Lei sopporta solo le Arialde e gli Eros di alto bordo.

[…] Certa gente vuole che io smetta di scrivere su Milano e in particolare sulla periferia di Milano, ma io continuerò.

Seguitando a grattare sotto l’illusoria crosta della città simbolo del boom, a creare scandalo tra i cittadini più retrogradi, lo scrittore di Novate avrebbe mantenuto la promessa.


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Flavia Erbosi è assegnista di ricerca in Italianistica presso Sapienza Università di Roma. Si occupa prevalentemente della censura nel secondo Novecento.

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