Una arguta nota di Guido Bianchini sulla presunta «fine del comunismo» seguito al crollo del Muro di Berlino. Altre letture di e su Bianchini sono disponibili in Guido Bianchini. Ritratto di un maestro dell’operaismo, a cura di Giovanni Giovannelli e Gianni Sbrogiò, DeriveApprodi, e anche in Socrate a Porto Marghera, sempre a cura di Giovanni Giovannelli e Gianni Sbrogiò, liberamente scaricabile da www.machina-deriveapprodi.com, sezione «scavi».
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Certi mondi non sanno morire compostamente: sanno solo crollare. L’Ancien regime e lo zarismo hanno avuto bisogno del boia per finire. Così è stato anche per il regime sovietico: un Ancien régime, appunto, dalle scomposte convulsioni. I gattini ciechi dell’Occidente hanno sbavato pieni di autoconsiderazione sulla fine del comunismo. I gattini ciechi non sanno che è improbabile che muoia ciò che non è mai nato. La smania di scrivere encicliche sulla vittoria del capitalismo ha fatto presa, in proporzione diretta alla sua incertezza. E così, mentre l’Est comunista denudato dalla sua crisi strutturale era obbligato a ostendere le sue piaghe e le sue nefandezze, l’Ovest imbellettato si serviva dello spettacolo per nascondere le proprie. Abbiamo dovuto attendere che l’ex segretario di Stato vaticano, monsignor Casaroli, con il fine buon senso che l’ha sempre distinto, interrompesse la scomposta cagnara con una frase che mi piace riprodurre testualmente: Non sempre il contrario del male è bene. La smania dannata di celebrare funerali ha impedito a molti di ricordarsi che anche il capitalismo selvaggio (contro cui tuonava Marx) è morto, sostituito dal fordismo, dal keynesismo, dal welfare-state. Tutto ciò che ha basi antiche e forza interiore per continuare a essere, come appunto il socialismo o il capitalismo, che non sono antitetici ma alternativi fra loro, e complementari in ogni caso, occorre che cambi per continuare a esistere. Il crollo di un regime non può e non deve togliere agli uomini la speranza. In questo secolo il socialismo è stato il reinventore, in termini moderni, della solidarietà, è stato il portatore di un anelito morale per costruire una società meno ingiusta socialmente, il costruttore di uomini liberi di soddisfare almeno i bisogni primari. In questo senso è stato fra gli artefici delle moderne democrazie, che ormai, tutte, hanno in sé quel tanto di socialismo che le lotte delle grandi masse sono riuscite a imporre loro. In questo secolo il socialismo ha però saputo fornire anche tragici esempi di follia ideologica: quella lucida di Lenin che, liberando i popoli sovietici dal buio medievale in cui erano stati tenuti, ha ritenuto di dover sostituire l’Ochrana con la Gpu, con Dzeržinski a garanzia dell’ordine pubblico, di dover instaurare una democrazia protetta in cui anche i lavoratori, in nome dei quali il Posdr era andato al potere, godessero di sovranità limitata; quella satanica di Hitler, anche egli in nome del socialismo e del lavoro, che liberando l’Europa dalla paura della Russia di Lenin l’ha invece affondata, dall’Atlantico agli Urali, nel sangue di 50 milioni di morti (pochi, stimo, soprattutto fra i più giovani, ricordano che il partito hitleriano, Nsdap, era appunto National Sozialist Deutschland Arbeiter Partei). La gara atroce fra Himmler e Dzeržinski su chi uccideva più avversari (veri o presunti) diamola per finita alla pari. Che cosa celebrare oggi, dunque, se non la fine del capitalismo selvaggio e del socialismo reale, insieme con l’insegnamento che mercato e pluralismo sociale possono essere portati dentro i binari di una controllata crescita delle libertà individuali, anche della liberazione dal lavoro salariato, che era appunto, depurata dalle impurità del secolo passato, l’utopia comunista. E sia ricordato ancora una volta: ciò che è successo all’Est non ha nulla a che vedere con il comunismo. Esso non è mai stato all’ordine del giorno, né lì né altrove.
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