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Schiacciati dal mito di Gramsci

Note su attivismo e disabilità


Angelica Ferrara
Angelica Ferrara, Qui-lì, 2025

È recentemente uscito per la collana «sabir» di DeriveApprodi, Politiche dell'autismo. Etica, epistemologia, attivismo a cura di Alberto Bartoccini, Lorenzo Petrachi e Giulia Russo. Il volume riflette sui rapporti che l'autismo intrattiene con le pratiche diagnostiche, le diseguaglianze di genere e le politiche neoliberiste, le rappresentazioni mediatiche e storiografiche.

Pubblichiamo il testo di Alberto Bartoccini contenuto nel volume, che come scrive l'autore, tratta «dell’attivismo di persone autistiche, ma non dell’attivismo specificamente legato alla neurodivergenza. Parlerò di quell’attivismo che viene dalla spinta primordiale al non sopportare lo stato di cose presenti».


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In onore di Bastiano Contrari

 Nella triade dei disturbi individuata da Lorna Wing, non mi sarei stupito di trovare la dicitura «attivismo» fin da principio. Sì, perché a quanto pare è esperienza comune di molte persone autistiche, specialmente in ambiente scolastico e lavorativo, essere percepite come delle piantagrane, fastidiosi impedimenti al normale corso delle cose. Bastian contrario, si dice dalle mie parti, senza che nessuno sappia bene come questo idioma abbia avuto origine. Se ne interroga solo chi, come me e immagino tanti lettori di questo volumetto, dedica molta attenzione alla lingua, perché portato da sempre a lottare con la pragmatica del discorso e a ripercorrere ossessivamente le parole proprie e degli altri. L’origine dell’espressione è incerta, e somiglia più a una sovrapposizione di miti che di fonti storiche. Talvolta Bastiano Contrari è un conte che ha rifiutato un ordine in battaglia, altre un militare insofferente, o financo un disertore morto impiccato. Insomma, qualcuno che ha osato dire di no a un superiore o a un dovere che gli è stato imposto. Chissà se oggi, che il linguaggio criminologico ha lasciato spazio a quello psichiatrico, che impiccagioni e termini come «malfattore» e «brigante» sono ormai desueti, si parlerebbe di Pathological Demand Avoidance (Milton 2020). Di certo basta contraddire questa o quella figura d’autorità, o chiedere un perché di troppo di una sciocca regola percepita come naturale e immutabile, ed ecco che arriva l’immancabile diagnosi di Bastian contrario, carica di paternalismo e infantilizzazione. Quale affronto! Quale incurabile morbo ispira cotanta insubordinazione! E quale onore per un ragazzino sentirsi paragonati a un disertore per così poco. E allora ce lo rivendichiamo questo titolo, e disturbiamo orgogliosamente.

Esiste una letteratura relativamente ampia sull’attivismo di categoria di persone disabili, che esplora le sue pratiche, i suoi sfondi teorici, i suoi risultati concreti, e l’effetto sull’autopercezione delle persone che ne prendono parte (e.g. Berghs et al. 2020, Smith – Mueller 2022). Non è invece altrettanto sviluppata la conversazione circa la militanza di persone disabili in movimenti non incentrati sulla disabilità stessa. Il contributo più significativo rimane la Teoria della donna malata di Johanna Hedva, che pone il quesito della materialità dello spazio politico, e si domanda quali siano le modalità di protesta concesse ai corpi disabili. L’articolo fu elaborato durante le proteste di Black Lives Matter, a cui l’autrice non poté partecipare in un senso tradizionale per via di una malattia cronica che ciclicamente la confina in casa.


 Così, mentre me ne stavo distesa a letto, incapace di sfilare in corteo, di tenere in mano un cartello, di gridare uno slogan per farmi sentire, o di essere visibile in qualsiasi altra forma tradizionale come essere politico, ha preso forma la domanda centrale della Teoria della donna malata: come si fa a lanciare un mattone contro le vetrine di una banca se non puoi alzarti dal letto? (Hedva 2016).


 Benché ispirate da un vissuto di disabilità connessa a una menomazione prettamente fisica, Hedva sottolinea che le sue considerazioni, così come la stessa nozione di donna malata, hanno portata più generale:

 

La donna malata incarna tutti quei corpi «disfunzionali», «pericolosi» e «in pericolo», «indisciplinati», «folli», «incurabili», «traumatizzati», «disturbati», «ammalati», «cronici», «impossibili da assicurare», «derelitti», «indesiderabili» e, nel complesso, «disfunzionali» che appartengono a donne, persone di colore, povere, malate, neuro-atipiche, diversamente abili, queer, trans e genderfluid, che nel corso della storia sono state patologizzate, ospedalizzate, istituzionalizzate, brutalizzate, rese «ingestibili», quindi delegittimate a livello culturale e rese invisibili sul piano politico (Hedva 2016).

 

Questo articolo tratterà dell’attivismo di persone autistiche, ma non dell’attivismo specificamente legato alla neurodivergenza. Parlerò di quell’attivismo che viene dalla spinta primordiale al non sopportare lo stato di cose presenti. Lo farò a partire da esperienze personali, e senza alcuna pretesa di universalità. Forse andrà allora confessato che io non cerco miglioramenti marginali per questa o quella categoria di persone, ma una trasformazione generale che metta ognuno nelle migliori condizioni possibili. Insomma: io voglio proprio fare il comunismo, consapevole di tutta l’ingenuità di un simile appello vuoto. Ovviamente, non ho la più pallida idea di come si faccia, so solo che se vogliamo non si trasformi in un mostro tanto opprimente quanto la sua assenza servirà il contributo di tutte noi, ciascuna a rivendicare le proprie necessità, facendolo ciascuna secondo i propri mezzi. E parlando tra noi – parlando a modo nostro, per iscritto e senza guardarci negli occhi, con incisi che interrompono i nostri stessi pensieri e diventano più lunghi delle frasi principali, con brusche transizioni che non si preoccupano dei connettivi (Rodas 2018) – sarà importante domandarci come possiamo rivendicare il nostro spazio dentro le lotte; cosa possiamo fare per partecipare senza mandare in fiamme l’intestino, e cosa possono fare i collettivi per metterci nelle condizioni di poterli attraversare, vivere, trasformare.

 

Il peso delle aspettative

 «Gli eroi son tutti giovani e belli», cantava Guccini dandomi l’ennesima ragione per detestarlo. Il paradigma del militante è quello di un supereroe, di un intellettuale organico sapiente e instancabile, un modello con il quale anche persone abili in un senso tradizionale difficilmente possono stare al passo, e che genera un forte senso di inadeguatezza. Il militante è in grado di partecipare all’assemblea, alla manutenzione degli spazi, alla redazione e all’analisi di documenti, alle attività sociali del gruppo, ai volantinaggi e agli attacchinaggi, ai picchetti e alle manifestazioni. Il militante è in grado di prendersi responsabilità, ma è anche in grado di delegare. Il militante è aggiornato sui fatti del mondo, e ha una posizione su ogni tentativo di esperienza anticapitalista nella storia globale. In tutto questo il militante è anche una persona, che probabilmente lavora, forse studia, spesso fa l’amore, qualche volta cresce figli, accudisce familiari anziani. In tutto questo il militante è anche una persona, che certo dorme poco, ancor meno fa esercizio fisico, magari beve troppo. E, in tutto questo, il militante è anche una persona, che forse è depressa, spesso è malata, sempre è sotto pressione.

Vorrei poter dire che sono l’orrore e la rabbia per lo stato di cose presenti, o l’amore e la speranza per ciò che potrebbero essere, a essere alla base della spinta ad attivarmi, ma mentirei se non menzionassi anche il senso di colpa, quella convinzione che non essere agente nei processi trasformativi significa solamente subirli, o peggio passivamente ostacolarli. Ciò è rilevante perché informa anche l’atteggiamento che si ha nei propri confronti per il non riuscire a fare attivismo, o il non riuscire a farne abbastanza. Non ha certo aiutato a lenire questo senso di inferiorità l’aver vissuto una relazione romantica con la persona più vicina che conosca al mito del militante, quel tipo di persona capace di darti l’entusiasmo per agire, ma la cui stessa presenza ti ricorda che ti manca qualcosa per fare quel mestiere; così come non aiutava che il suo motto fosse «chi non è parte della soluzione è parte del problema».

Ma è pur vero che sei disabile, che è normale non poter fare tutto. Puoi perdonarti, puoi raccontarti che stai facendo del tuo meglio. Quel mito, quell’assurdo ideale procedurale, non è per te, è per quelli alti e forti e che non si lasciano divorare dall’ansia. Eppure, non sei salvo dal mito. Gramsci stava peggio di te, con la schiena ricurva, la bassa statura, la tubercolosi extrapolmonare, e questo non gli ha impedito di diventare un riferimento centrale del partito e di generazioni di attivisti a seguire; ha sempre tirato dritto, sapendo coniugare prassi politica e speculazione teorica, anche mentre era in carcere, in condizioni che avrebbero spezzato la forza d’animo di chiunque. Ed ecco che il mito colpisce anche te, che «non hai più scuse».

«WHAT IS YOUR EXCUSE» – rigorosamente in capslock – è la usuale didascalia associata a immagine di persone con evidenti menomazioni fisiche che riescono a «superare gli ostacoli» e portare avanti attività «normali», nella forma d’espressione che viene definita «inspirational porn». Portata all’attenzione dal grande pubblico da parte dell’attivista disabile Stella Young nell’articolo We’re not here for your inspiration (Young 2012), la nozione deve ancora essere esplorata in molte direzioni. Si parla di pornografia perché si tratta di una oggettificazione di un gruppo a beneficio di un altro: l’inspirational porn è infatti costruito per un pubblico abile, che deve trarre coraggio dalla condotta del disabile rappresentato. Per contro, le persone disabili traggono ben pochi benefici da queste rappresentazioni apparentemente lusinghiere. La loro condizione è infatti presentata in linea con quello che Micheal Oliver chiamava il «paradigma della tragedia personale», che facendo collassare la disabilità sulla menomazione e localizzando il problema nella persona oscura il ruolo della società nella disabilitazione (Oliver 2023). Centrale in questo caso l’elemento della compensazione, la retorica che – con slancio supereroistico – la disabilità venga superata grazie a un surplus di forza di volontà, o a talenti particolari. Nelle parole di Jan Grue:

 

Inspiration porn è la rappresentazione della disabilità come una caratteristica desiderabile ma indesiderata, solitamente ottenuta mostrando la menomazione come distinto deficit biofisico in una persona, un deficit che può e deve essere superato attraverso l’esibizione di prodezza fisica (Grue 2016, p. 10, trad. mia).

 

Ecco il gambetto: spettacolarizzare la disabilità per poi negarla, almeno nel suo senso completo di fenomeno a un tempo sociale e personale. Il caso di Gramsci è ottimo per illustrare questo doppio movimento di esibizione e occultamento della disabilità. Nell’articolo Gramsci undisabled, l’italianista David Forgacs nota come l’immagine più riprodotta della figura di Gramsci – nelle copertine dei suoi libri tanto in Italia quanto all’estero, appesa alle pareti delle sedi del PCI – sia una delle poche a disposizione in cui non siano evidenti le sue menomazioni, e ricostruisce la storia dell’immagine iconica di Gramsci e della rimozione dalla memoria ufficiale di una condizione di disabilità che invece faceva parte integrante della sua identità personale e politica. L’operazione viene spesso giustificata sostenendo che i meriti di Gramsci vanno ben oltre le sue vicende private e sono da localizzarsi nel suo pensiero e la sua attività, come se queste non fossero state informate anche dal suo rapporto con la disabilità.


 L’appello a guardare oltre la disabilità della persona ricorda i primi appelli antirazzisti di guardare oltre il colore della pelle, o quelli femministi del diciannovesimo secolo a guardare oltre il genere della persona. Ciò che questi appelli ignorano è che le persone reali sono incarnate, e i loro corpi sono parte importante di come vedono loro stesse, come gli altri le vedono e come ci interagiscono. Coloro che evidenziano la forma del corpo di Gramsci ma poi suggeriscono sia irrilevante sembrano avere fretta di compensare per averla notata (Forgacs 2014, p. 358, trad. mia).


 La sua disabilità è evocata sempre come ostacolo che ha avuto la capacità di superare grazie alla sua mente brillante. Ostacolo, superamento, volontà, compensazione: le quattro parole della pornografia ispirazionale. Il mio invito è quello di considerare gli effetti della (pur meritata) glorificazione di Gramsci alla stregua di quelli dell’inspirational porn: dare forza a chi con quelle menomazioni non ha mai combattuto, a chi in carcere non c’è mai stato; sminuire le difficoltà delle persone disabili e caricarle di un fardello addizionale. Se poteva farlo lui puoi anche tu. Quell’accusa originariamente indirizzata al pubblico che si suppone abile – il non avere più scuse – finisce per colpire anche chi ha disabilità meno visibili, caricandoci di responsabilità.

Molte di quelle che vengono nominate neurodivergenze sono ottimi esempi di disabilità poco visibili. Non uso la più comune dicitura «invisibili», perché si vedono eccome, semplicemente vengono ignorate quando manca il vocabolario per concettualizzarle e riconoscerle, con annessa colpevolizzazione della persona per le sue «mancanze». Un preambolo necessario è che il cosiddetto masked autism è nascosto in primo luogo a se stessi (Price 2022). Come tanti che scrivono in questa raccolta, ho scoperto l’autismo solo in età adulta, e molte delle esperienze a cui farò riferimento risalgono a un periodo in cui non ne avevo coscienza. La prima conseguenza di ciò è che mi sono forzato a prendere parte a tutta una serie di ritualità, pratiche e responsabilità che avrei probabilmente fatto bene a evitare, o che avrei potuto affrontare diversamente. In un certo senso, sono stato il principale agente della mia oppressione, spingendomi oltre il limite delle mie forze. Così, il mio rapporto con l’attivismo ha sempre seguito un movimento altalenante, alternando fasi di grande entusiasmo a burnout più o meno severi.

Il mio corpo, così abituato a sentirsi ignorato, ha trovato un modo piuttosto efficace per farsi ascoltare quando le cose diventano insostenibili: cagare sangue. Una mossa poco brillante, ma a sua discolpa l’abitudine a convivere con un costante grado di fatica mi aveva portato a ignorare gli altri segnali meno catastrofici lanciati invano. Detto con più eleganza, si tratta del Morbo di Crohn: i periodi di forte ansia e stress vengono somatizzati in infiammazioni croniche dell’intestino, che ben più del cervello strano rappresenta il mio più serio limite all’attività politica. Per una gigantesca ironia della sorte, questa è oramai da dieci anni la più stabile fonte di ansia e stress della mia vita, dovendo sempre preoccuparmi di non esagerare con certi sforzi e di stare al passo con la costante medicalizzazione anche nelle fasi in cui sto relativamente bene, tra visite, prelievi, colonscopie, risonanze magnetiche, lotte burocratiche con la frammentazione regionale del sistema sanitario per l’ottenimento dei farmaci. Uno potrebbe domandarsi se i problemi di enterocezione siano biologicamente determinati, o se il continuo sentire le proprie lamentele invalidate perché ciò che per te è fonte di stress e dolore non lo è per gli altri possa avere un ruolo notevole per un bambino, ma non sarà questa la sede per tale riflessione. Vale soltanto la pena segnalare che sono legato solo ad altre due persone che hanno sviluppato il morbo di Crohn in adolescenza, e hanno entrambe puntualmente ricevuto una diagnosi di autismo e/o di ADHD in età adulta, riportando esperienze simili su questo piano. Per quanto la narrazione delle neurodivergenze ponga enfasi, a partire dal nome, solo su cervello/mente/cognizione, sono spesso i corpi a essere problemi centrali nelle nostre esperienze (Kim et al. 2022).

Credo fosse importante esplicitare quali esperienze mi portano a discutere questi temi, e la prospettiva necessariamente parziale che ne deriva. Non ho mai subito un ostracismo diretto da parte di nessun gruppo politico. Sarò forse stato fortunato, sarà forse dovuto al privilegio di poter – con sforzo che ho sempre meno volontà di sopportare – passare per neurotipico, ma confido che la quasi totalità dei gruppi militanti, o almeno quelli con cui valga la pena condividere la propria energia e passione, abbiano l’ambizione di poter essere inclusivi. Il tipo di problematiche che discuto riguardano pertanto quei meccanismi che, senza alcuna volontà di chi li alimenta, tendono a escludere la partecipazione di persone che non rientrano in un profilo canonico di abilità, o a rendere particolarmente gravosa la loro permanenza. In questo senso, il discorso è valido per una popolazione più ampia di quella autistica, ma al contempo non è in grado di coprire l’autismo nella sua interezza, non avendo la capacità di rendere conto delle esperienze di persone con disabilità intellettive.

Il tema delle aspettative, o meglio del loro smantellamento, è assolutamente centrale per liberare le forze di più persone possibili, per permetterci di contribuire, come diceva quel tale, ognuno secondo le sue capacità, ognuno secondo i suoi bisogni (Marx 1947).

Le aspettative possono essere deleterie non solo per i singoli, ma anche per il gruppo nella sua interezza. Se infatti si giudica un’esperienza politica sulla base dei suoi esiti materiali, dei suoi successi nelle rivendicazioni, del raggiungimento dei suoi obiettivi, allora state pur certi che in buona parte dei casi sarà da considerarsi fallimentare. Ciò che invece un collettivo non manca mai di fare è trasformare le persone che lo attraversano. Sarà allora importante porre maggiore enfasi sulle pratiche di costruzione di comunità e le modalità di convivenza, affinché la vita dei militanti non sia sacrificata all’altare della lotta, affinché questa trasformazione non sia frustrante e traumatica, ma gaia e rinvigorente. L’esclusione pur involontaria di persone neurodivergenti dai movimenti priva tutte di una opportunità di crescita personale e collettiva, ostacola il riconoscimento della varietà dell’espressione umana, e contribuisce alla marginalizzazione della questione disabile dal reame delle urgenze politiche.

 

Assemblea e trasformazione

 Come possono movimenti e collettivi accomodare le esigenze di persone autistiche desiderose di farne parte? Chiunque abbia un minimo di esperienza diretta con comunità autistiche si renderà conto che una simile domanda è destinata a non avere una risposta operativa generalizzabile. C’è chi avrà bisogno di essere accompagnato in compiti apparentemente banali o esonerato da specifiche attività, chi avrà bisogno di routine, silenzio e luci deboli, chi avrà bisogno che si parli franco e senza impliciti, chi avrà bisogno di essere compreso quando scomparirà per mesi senza rispondere ai messaggi, e accolto quando avrà la forza di tornare. Del resto, la nozione di autismo è definita per deviazioni dalla norma molto più che per invarianze. Come vuole il noto adagio, conoscere una persona autistica significa conoscere una persona autistica. Mai mi permetterei di perpetrare l’immonda violenza dell’incasellamento e della cancellazione dell’unicità. Essendo le manifestazioni dell’autismo estremamente variegate, la domanda di cui sopra non troverà risposta in una lista stabile ed esaustiva di raccomandazioni, ma avrà bisogno di essere affrontata a un differente livello di astrazione: Come possono questi spazi mettere ciascun individuo – indipendentemente dal tipo umano in cui si riconosce – nelle condizioni di poter comunicare le proprie esigenze specifiche, e conseguentemente di potersi esprimere al meglio delle proprie possibilità?

L’assemblea è certo un ambiente faticoso, ma a suo modo confortante. Può essere difficile interagire con tante persone contemporaneamente e regolare toni ed espressioni facciali; d’altra parte, è un posto in cui è concesso litigare, e lo si fa con regole esplicite. Per chi percepisce le implicite strutture della turnazione del parlato come qualcosa di esoterico e indecifrabile, una conversazione per alzata di mano, con un moderatore che gestisce la coda e tutti che prendono appunti è una vera meraviglia. Mi capita spessissimo di trasformare inavvertitamente una qualunque discussione in una pseudo-assemblea, che ciò avvenga in camera o in trattoria, che si parli dell’ultima uscita al cinema o di storia della biologia.

Ciò risulta particolarmente utile quando sono circondato dai miei compagni TUPS, che oscillano dal chi non parla se non interpellato a chi non tace nemmeno mentre dorme.

Nondimeno, per molti l’ostacolo della frequente e obbligatoria interazione di gruppo è eccessivo. Ciò tende a essere vero soprattutto per persone socializzate come donne, educate da sempre a occupare meno spazio possibile, e le cui stranezze sono maggiormente sanzionate. Al contrario chi viene indirizzato alla disdicevole carriera dell’essere uomo – come chi vi scrive – più frequentemente rischia di assumere un ruolo ipertrofico nell’assemblea, che questo avvenga per una genuina tranquillità nel contesto o per l’imperativo a esibire fiducia nei propri mezzi e capacità d’iniziativa. Nella mia esperienza, la consapevolezza di essere soggetti fuori norma tende a ridurre questi meccanismi, non certo per un qualche potere esoterico dell’etichetta, ma perché spesso si associa a un lavoro di messa in discussione delle aspettative della società in termini di abilità, modi di vita, ruoli di genere. Ho visto persone trovare la forza di rivendicare il proprio spazio, altre trovare il coraggio per fare un passo indietro. Può comunque rimanere un disagio di fondo e uno stress addizionale, che merita di essere preso in considerazione, discusso collettivamente, ed essere associato a domande circa l’indispensabilità dell’assemblea, il suo ruolo, la sua frequenza, le sue modalità di attuazione, le eventuali alternative o forme di integrazione.

Idealmente, ogni collettivo già discute queste cose, ma provate a esprimere per messaggio o in un momento informale le vostre difficoltà con la forma-assemblea e vi sentirete immancabilmente rispondere con un paradossale «ne parliamo in assemblea». La centralità dell’assemblea è tale che il sostantivo è diventato metonimicamente un sinonimo di collettivo o associazione. Non stupisce quindi che chi soffre la specifica modalità di interazione si allontani da questi ambienti. Non c’è alcun bisogno di un ostracismo diretto o una volontà di esclusione da parte del gruppo: basta l’assenza di una attenzione specifica per certi temi a fungere da enorme barriera all’entrata. La presenza di persone altamente consapevoli dei propri meccanismi, delle proprie difficoltà, delle proprie esigenze, equipaggiata con il vocabolario per poterle esprimere anche a chi non le vive, con la forza e l’autorevolezza per imporre una simile conversazione, è un privilegio di pochi gruppi, specialmente se composti da giovanissimi. Il più delle volte, chi ha difficoltà rischia di non avere modo di condividerle, o di non poter offrire soluzioni che permettano la propria entusiasta partecipazione.

La particolare apparente irrazionalità del cosiddetto «uneven cognitive profile», con il suo miscuglio di talenti e disfunzioni esecutive, è difficile da afferrare per chi non la vive, così come è difficile da spiegare per chi la vive. Come spiegare che pochi minuti di volantinaggio sono una tortura, quando parli al microfono o su un palco senza esitazione? Come spiegare che fare la spesa è un’attività estenuante a chi non prova dolore fisico per le luci in faccia e gli sbalzi di temperatura, che sono piaghe inferiori solo ai ronzii delle casse? Come spiegare che – sì – hai la patente ma – no – non guidi? Come spiegare che una semplice telefonata ti può richiedere ore di preparazione, metà delle quali spese a cercare una forma alternativa di comunicazione?

Diagnosi e nomi pomposi possono essere di aiuto, ma non sono risolutivi. Possono esserci ottimi motivi per preferire la riservatezza in tal senso, questione che meriterebbe discussione a sé stante e non è qui il caso di affrontare. Poco importa: il punto non è quello di poter mostrare una patente come scusa o giustificazione, il punto è essere equipaggiati con la serenità della legittimità delle proprie esigenze, e avere il vocabolario e la capacità di esprimerle, e questo può essere portato avanti anche senza ricorrere al gergo medico. Ma anche nel caso della completa condivisione delle proprie consapevolezze all’interno del quadro di un sapere psichiatrico, questa richiede a oggi un gigantesco lavoro di educazione del prossimo, lavoro che ricade interamente sulla persona «anormale», che sembra quasi tenuta a «giustificare» la propria esistenza. Si finisce, prima di poter parlare di se stessi, con il dover spiegare cos’è l’autismo, destreggiandosi tra i problemi della narrazione medica, e dovendo costantemente smontare l’immaginario mediatico e parodistico dell’autismo che necessariamente informa la postura dell’interlocutore ignaro. Senza nemmeno contare le volte in cui una simile conversazione può finire molto male, lo sforzo di chi si trova nella posizione di dover educare è immane anche quando il curioso è nella disposizione d’animo migliore, pronto all’ascolto e attento a non farsi ingannare dal pregiudizio, e ciò per molti è insostenibile. Se aspettiamo ogni volta che per rendere l’assemblea attraversabile ci debba essere un personaggio abile alla comunicazione, con due diagnosi, che sa recitare l’ultima versione del DSM a memoria, che segue la frontiera della ricerca, che non ha problemi a pagare l’affitto, e che abbia pure tempo e voglia di fare il comunismo, significa che non sarà mai realmente permesso agli autistici di avere una voce per il semplice fatto di essere persone. Ci sarà richiesto di essere savant – di compensare le nostre disabilità – o di non essere affatto.

Un ruolo importantissimo per sgravare l’individuo dall’arduo compito qui presentato è svolto dai movimenti per la Neurodiversità. La mera esposizione pubblica delle proprie esperienze, e la conseguente contronarrazione delle neurodivergenze che ne deriva, è un passo preliminare affinché possa avviarsi una conversazione che contribuisca – nelle parole dell’associazione Neuropeculiar (2018) – «a un cambio di paradigma grazie al concetto di Neurodiversità, coltivando la convivenza della pluralità delle espressioni neurologiche umane». Si tratta di una ambizione dal forte potere trasformativo della società, che mira a migliorare le condizioni di vita non soltanto delle persone autistiche, ma di chiunque. La semplice consapevolezza che ogni cervello è diverso può aiutare a scrostare tanto del marcio dei nostri sistemi educativi, della cultura lavorista, delle modalità di comunicazione, delle aspettative sociali e relazionali, a vantaggio di tutti.

Ma come incide questo sull’assemblea? Come pensare una assemblea consapevole della variabilità dell’espressione umana? In primo luogo, immagino domandi alle persone simpatetiche al movimento cosa previene loro di partecipare; spero lo faccia con la massima umiltà, interrogandosi fino a che punto sia possibile venire loro incontro senza snaturare i propri principi. Inoltre, credo risponda a un criterio fondamentale: la presenza di ciascuna persona dovrebbe modificare la struttura stessa del collettivo e di come questo opera e prende decisioni. La difficoltà è che non è possibile stabilire univocamente una struttura, ma con l’avvicendarsi di nuovi compagni è necessario un costante lavoro di ricalibrazione delle proprie pratiche. Non fossilizzarsi su ciò che ha funzionato in passato, o peggio su ciò che sarebbe ideale fare, ma sforzarsi di chiedersi ogni volta ciò che si può e si desidera fare. E allora ecco la sfida: non un decalogo di buone pratiche per l’inclusione di persone che si professano autistiche, ma una costituzione dell’assemblea che permetta a ciascuno – autistico o meno – di poter trasformare l’assemblea stessa e le sue pratiche. Il punto non è accomodare questo o quel tipo umano, ma mettere nelle condizioni ogni individuo di esprimere se stesso. Non sarà certo facile.

Questo articolo non può e non vuole dare risposte, ma soltanto indicare alcune aree problematiche su cui insistere nell’avviare una simile conversazione: il peso delle aspettative, i modi sottili in cui si insinuano, e l’esigenza del loro smantellamento; la centralità dell’assemblea, la sua forma, la sua permeabilità e in particolare la necessità di trasformarla costantemente sulle esigenze di chi vi partecipa. Lontani dell’essere risolutivi, questi appunti sono stesi pensando «a tutti gli altri corpi invisibili, con i pugni alzati, rincantucciati da qualche parte, lontani dagli sguardi» (Hedva 2016). L’augurio è che sempre più personaggi particolarmente strani possano prendere parte a collettivi e movimenti, plasmandoli e lasciandosi plasmare da essi, e che nessuno si lasci schiacciare dal mito di Gramsci.

 


Bibliografia

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  • S. Young, We’re not here for your inspiration. ABC Ramp Up, 2012.


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Alberto Bartoccini è dottorando in Economics presso le Università della Toscana. Impiega metodi quantitativi per l'indagine della storia del pensiero economico, con particolare attenzione all'evoluzione dei confini disciplinari.

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