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Progetto di manifesto per una psicologia sociale materialista del disagio



Abel Rodriguez, Ciclo anual en las altas terrazas de la selva tropical, 2007
Abel Rodriguez, Ciclo anual en las altas terrazas de la selva tropical, 2007

Questo documento è stato scritto dal Midlands Psychology Group, un gruppo di psicologi clinici, counselor e accademici britannici, nato nei primi anni 2000, che negli anni ha sviluppato un pensiero critico nei confronti della psicologia, csmascherandone la matrice ideologica e i limiti clinici. Figura chiave del gruppo è stato lo psicologo David Smail, autore di diversi testi che hanno gettato le basi per l'approccio sociale e materialista al disagio che il Midlands Psychology Group continua a sviluppare. Alla base vi è l’idea che spesso la sofferenza individuale sia in realtà meglio compresa come derivante dalle strutture sociali ed economiche in cui le persone sono immerse.

Ci è sembrato importante proporre la traduzione del Progetto di manifesto per una psicologia sociale materialista del disagio – originariamente pubblicato su «Journal of Critical Psychology, Counselling and Psychotherapy» 12,2: 93-107 (2012) – per offrire al dibattito italiano ulteriori spunti di riflessione rispetto al ruolo della psicologia clinica, ma soprattutto alla lettura della sofferenza psichica dal punto di vista sociale e politico. Il testo rimane, nonostante la prima pubblicazione risalga al 2012, lucidamente attuale.

Traduzione a cura di Enrico Valtellina, Livia Lepetit, Luca Negrogno.

 

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Intro

I primi incontri del gruppo si sono svolti nel 2003 in risposta alla sensazione dei membri fondatori che il luogo di lavoro non offrisse più opportunità di riflettere con onestà sulla teoria e sulla pratica della psicologia, sia essa accademica o clinica/di counseling.

Non è detto che questa sia l'esperienza di tutti, ma nel nostro caso non solo sembrava che non ci fosse tempo per riunirsi con gli altri per discutere e riflettere su ciò che facciamo e cerchiamo di fare nel nostro lavoro, ma sembrava anche che il predominio delle pratiche commerciali nella gestione del Servizio Sanitario Nazionale e delle università facesse sì che, quando ci si riuniva, era per competere piuttosto che per collaborare. In queste circostanze, le discussioni sembravano limitate a questioni di sopravvivenza professionale o di esibizione di punti per sviluppare o mantenere la presa sul proprio angolo di mercato.

 

È forse ovvio che una prospettiva come la nostra si ritrovino probabilmente le persone che criticano lo status quo: le persone che si identificano con l'ortodossia psicologica sono probabilmente più felici della loro sorte e non sentono il bisogno di un ambiente intellettuale più gentile e accomodante. È certo che quelli di noi che hanno perseverato con il gruppo (e senza dubbio la maggior parte di quelli che, per un motivo o per l'altro, lo hanno abbandonato) hanno condiviso all'inizio un disagio verso, in particolare, l'individualismo proprio della ortodossia di psicologia clinica e counseling, così come con quella sicurezza professionale che, su gran parte di ciò che facciamo, ci sembra fuori luogo.


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 Progetto di manifesto per una psicologia sociale materialista del disagio

 

Abstract

Questo documento spiega lo sfondo teorico e le pratiche di lavoro comuni degli autori, identifica i principali assunti di una psicologia sociale materialista e presenta un manifesto che intende mostrare cosa potrebbe significare considerare il disagio da una prospettiva sociale materialista.

 

Introduzione

Ciò che segue è rivolto in parte, ma non esclusivamente, alle persone che lavorano nel campo della «psiche», che raramente hanno un altro vocabolario con cui parlare di questi temi – al di fuori della psichiatria, da un lato, e della terapia della parola, dall’altro. L’articolo raccoglie un’ampia gamma di teorie e ricerche sulle tipologie di sofferenza che vengono trattate dai professionisti della salute mentale.

Siamo un gruppo di psicologi: clinici, counselor e accademici. Ci riuniamo regolarmente dal 2003. Ci definiamo psicologi sociali materialisti. Non si tratta necessariamente di una posizione filosofica formalmente elaborata. La maggior parte della psicologia è individuale e idealista. Prende l’individuo come unità di analisi data e tratta il sociale come un contesto in qualche modo opzionale e spesso uniforme.

E, in quella che è ancora una mossa cartesiana, tratta il mondo materiale come direttamente presente, ma contemporaneamente subordinato alle cognizioni immateriali con cui riflettiamo su di esso.

La nostra psicologia è invece sociale e materialista. Sociale perché affermiamo il primato del sociale, della collettività, della relazionalità e della comunità, perché riconosciamo che gli individui sono completamente sociali: ontogeneticamente, alle loro origini, e ininterrottamente e non facoltativamente durante la loro esistenza. E materiale perché riconosciamo che le cognizioni con cui riflettiamo sul mondo non fluttuano semplicemente libere dalle sue possibilità, dal suo carattere e dalle sue proprietà. La cognizione è sia sociale che materiale, radicata nelle risorse metacognitive delimitate che abbiamo acquisito, nelle capacità incarnate che ingaggia e nelle risorse e possibilità soggettive che il nostro mondo fornisce (Johnson, 2007; Tolman, 1994; Vygotsky, 1962).

Con la psicologia sociale materialista, dunque, non intendiamo introdurre un mero riflesso inverso del mainstream, una negazione, una futile corsa al suo opposto. Gli individui esistono, ma le loro esperienze sono completamente sociali, nello stesso momento in cui sono singolari e personali. Le cognizioni esistono, ma la loro relazione con il mondo materiale non è né determinata né arbitraria. La nostra psicologia sociale materialista si allinea quindi – nel sentire, se non nel contenuto – ad altre iniziative contemporanee che rifiutano in modo analogo le ingenue separazioni tra individuale e sociale, tra esperienza e materialità: gli studi psicosociali, gli studi sulla soggettività, la filosofia del processo, la svolta linguistica e agli affetti. In ognuna di queste prospettive (e non solo) troviamo risorse, echi e ispirazioni.

Scriviamo come agiamo: collettivamente. In questo ci allineiamo a una tradizione di psicologi (Curt, 1994), teorici politici e attivisti (The Free Association, 2011), scrittori e artisti (Home, 1991) che rifiutano nella pratica la nozione che le idee siano semplicemente il risultato di individui. In un momento in cui la collettività, la solidarietà e la fiducia reciproca sono così necessarie, questo semplice atto può assumere significati che vanno oltre le pagine in cui appare.

Questo manifesto è incompiuto, un lavoro in corso, una direzione piuttosto che una destinazione. Ci auguriamo che le sue idee vi tornino utili. Inoltre, potrebbe ispirarvi a unirvi ad altre persone che la pensano come voi, per passare il tempo a condividere idee e interessi, come continuiamo a fare noi.

 

1. Le persone sono esseri primordiali, sociali e materiali

Prima di ogni altra cosa, siamo corpi che sentono in un mondo sociale (Csordas, 1994; Merleau-Ponty, 2002; Schutz, 1970). Primariamente, l’esperienza consiste in un flusso continuo di feedback corporei, o sensazioni. Questi feedback – che sono la materia prima della coscienza stessa (Damasio, 1999) – riflette la nostra situazione materiale e incarnata (caldo, stanchezza, dolore, ecc.). Ci colloca in un ambiente particolare e fornisce un senso continuo delle nostre potenzialità corporee: un’incarnazione [embodiment]. Questi feedback sono anche continuamente sociali (influenzati dalle mutevoli relazioni sociali del momento vissuto) e socializzati (in qualche modo abitudinari, modellati dall’impronta delle esperienze precedenti). I feedback corporei, sotto forma di sentimenti, sono l’elemento più elementare del nostro essere umani.

Tuttavia, l’ineffabilità del corpo fa sì che la centralità del sentimento spesso eluda la riflessione (Langer, 1967). Di conseguenza, la componente più importante del pensiero stesso è spesso quella che Vygotskij (1962) ha definito discorso interiore. Questo commento incessante sulle nostre e altrui azioni ha origini sociali: i suoi aspetti cognitivi sono secondari rispetto alle relazioni sociali e discorsive che lo hanno generato. Inoltre, è in gran parte retrospettivo, serve a stabilizzare o a rappresentare ciò che è appena accaduto. In questo modo può servire come strumento per guidare le nostre (e le altrui) azioni e, in questo modo, avere un’influenza relativamente limitata sulle circostanze future.

Fisicamente, nonostante i nostri contorni un po’ sfumati, siamo individui separati. Ma questa individualità è prodotta relazionalmente e socialmente: ontogeneticamente, nella fusione di ovulo e spermatozoo, nello sviluppo, nella costruzione dipendente dall’esperienza di importanti concatenamenti neurali (Schore, 2001), e psicologicamente, attraverso le relazioni e le interazioni che inculcano le abitudini e le credenze implicite del sé. Poiché le relazioni sociali danno forma al nostro essere, l’esperienza non è solo specifica di una particolare traiettoria di partecipazione sociale relazionale e familiare, ma riflette anche la nostra epoca (Elias, 1978), la classe (Bourdieu, 1984), il genere (Fine, 2010; Young, 1990) e, senza dubbio, altre importanti divisioni sociali.

Non si tratta di una negazione dell’individualità. Nessun altro si troverà nelle stesse circostanze in cui vi trovate voi, con la stessa costellazione di capacità corporee di cui siete dotati: per questo motivo, ognuno di noi è unico. Ma questa unicità è costituita da elementi della stessa carne, dalle stesse relazioni sociali, dalle stesse organizzazioni materiali di strumenti, oggetti, luoghi e istituzioni, dalle stesse risorse culturali, artefatti e norme, dagli stessi segni e simboli discorsivi. L’unicità e l’individualità sono realizzazioni sociali e materiali.

 

2. L’afflizione nasce dall’esterno verso l’interno

Il disagio non è la conseguenza di difetti o debolezze interiori. Tutti gli approcci tradizionali alla «terapia» collocano l’origine della difficoltà psicologica all’interno dell’individuo, di solito come una sorta di idiosincrasia dell’esperienza passata. Possiamo perciò osservare una «normalità» moralmente neutra diventare «nevrotica» e distorta a causa, ad esempio, di desideri personali inconsci o di errori di giudizio personale (ad esempio, l’eccessiva generalizzazione di esperienze negative). Certamente questo è il modo in cui spesso sperimentiamo il nostro disagio, poiché tale esperienza è inevitabilmente interiore. Ma esperienza e spiegazione sono due cose molto diverse.

La terapia professionale tende a presumere che sia le cause sia l’esperienza del disagio siano interiori, poiché ciò offre al terapeuta un terreno legittimo di intervento: si può lavorare sugli individui in modi che le circostanze sociali e materiali non possono fare. Gli individui imparano così rapidamente a vedere se stessi come in qualche modo personalmente difettosi, quando in realtà la loro esperienza di disagio deriva da un ambiente difettoso (Smail, 2005).

La sofferenza non è conseguenza di errori cognitivi o di incapacità di elaborare correttamente le informazioni. Gli approcci terapeutici che non attribuiscono la sofferenza a un qualche tipo di difetto emotivo personale (comunque acquisito) spesso indicano la causa in un fallimento «cognitivo». La possibilità che gli individui, senza alcuna colpa, abbiano tratto conclusioni sbagliate da eventi sfortunati può almeno avere il vantaggio di assolverli dalla macchia della colpa o di carenza personale che spesso tende a manifestarsi negli approcci più «psicodinamici». Di nuovo, questo tipo di visione consente al terapeuta un campo d’azione apparentemente legittimo nella rielaborazione dei processi cognitivi della persona, tuttavia, lo fa a spese di un resoconto realmente convincente dell’apprendimento umano. Ci sono sicuramente sufficienti prove di quanto il mondo possa essere un luogo doloroso per poterci dispensare dal dover concludere che il disagio che proviamo sia in qualche modo erroneo (Smail, 2001a; 2005).

Le cosiddette «differenze individuali» nella suscettibilità al disagio sono in gran parte conseguenze della socializzazione antecedente. Il fatto che alcuni di noi sembrino sopravvivere indenni alle esperienze avverse, mentre altri vengono gettati nella confusione o nella disperazione, può essere interpretato come un’indicazione di qualità personali «interiori»: «autostima», «forza di volontà» o, più recentemente, «resilienza». Tuttavia, è molto più facile e credibile indicare i vantaggi incorporati che una persona ha acquisito nel tempo dall’ambiente sociale/materiale, piuttosto che postulare qualità personali essenzialmente misteriose e non analizzabili che hanno origine dall’interno.

Scambiare i doni della provvidenza per virtù personali è un errore di categoria fin troppo comune, che le psicoterapie fanno poco per correggere.

 

3. Il disagio è prodotto da influenze sociali e materiali

Le influenze sociali e materiali sono tipicamente complesse e molteplici. Nessuna di esse è una causa necessaria o sufficiente, ma più si intersecano e più è probabile che il disagio clinico si manifesti. Queste comprendono traumi, abusi e trascuratezza, disuguaglianza sociale (organizzata in gerarchie di classe, genere, etnia, sessualità e disabilità); e, in modo un po’ più casuale, incidenti, disabilità, malattie gravi ed «eventi di vita».

Ad esempio, esistono prove convincenti del fatto che è più probabile che si verifichi un disagio diagnosticabile se si sono vissuti eventi traumatici, tra cui l’abuso e l’abbandono. La meta-analisi di Read, van Os, Morrison e Ross (2005) suggerisce che almeno il 60-70% delle persone che sperimentano allucinazioni visive o uditive hanno subito abusi fisici o sessuali durante l’infanzia. Questo insieme di evidenze ha ricevuto molta meno attenzione rispetto alla visione psichiatrica dominante che dipinge il disagio come una conseguenza di influenze biologiche o genetiche.

Allo stesso modo, le disuguaglianze sociali che escludono o emarginano contribuiscono in modo significativo al potenziale di disagio. La povertà, le condizioni abitative e alimentari sfavorevoli, l’ambiente minaccioso, le risorse limitate, le scelte ristrette, il lavoro umiliante o mal retribuito, la discriminazione, l’oppressione e l’essere capro espiatorio sono tutti fattori di sofferenza. Le persone nate in aree operaie da genitori che svolgono lavori manuali hanno una probabilità 8 volte maggiore rispetto al gruppo di controllo ricevere una diagnosi di schizofrenia da adulti (Harrison, Gunnell, Glazebrook, Page, & Kwiecinski, 2001). Nascere da genitori poco istruiti raddoppia il rischio di ricevere una diagnosi di depressione, se nessuno dei due genitori svolge un’attività lavorativa qualificata o professionale, il rischio è triplicato (Ritsher, Warner, Johnson, & Dohrenwend, 2001). Le minoranze etniche non bianche nel Regno Unito hanno maggiori probabilità di ricevere una diagnosi di schizofrenia, ma solo se vivono in aree a maggioranza bianca (Boydell et al., 2001). Le donne hanno una probabilità circa doppia rispetto agli uomini di ricevere una diagnosi di depressione o disturbo d’ansia; in parte, questo sembra essere dovuto alla violenza domestica (Garcia-Moreno, Jansen, Ellsberg, Heise, & Watts, 2005).

Il disagio è costantemente associato a indicatori di disuguaglianza sociale come la disoccupazione, il basso reddito e l’impoverimento dell’istruzione, in paesi come il Regno Unito, gli Stati Uniti, il Canada, l’Australia e i Paesi Bassi (Melzer, Fryers, & Jenkins, 2004). Wilkinson & Pickett (2009) hanno raccolto numerose prove che dimostrano che nelle società in cui il divario tra ricchi e poveri è maggiore,  l’incidenza di diversi problemi di salute è più alta.

Il disagio è tanto più probabile quanto più le nostre esperienze vengono invalidate e quanto più siamo isolati gli uni dagli altri. Allo stesso modo, quanto più siamo lontani da relazioni di sostegno e di nutrimento, tanto più l’invalidazione e l’isolamento genereranno sofferenza. Le persone private di influenze positive come una famiglia e degli amici amorevoli e solidali, di ambienti confortevoli e sicuri e della fiducia, del sostegno e della solidarietà degli altri, hanno maggiori probabilità di sperimentare un disagio diagnosticabile. In altre parole, gli effetti del trauma, della disuguaglianza sociale e degli eventi della vita interagiscono in modo contingente con gli effetti meno visibili e meno quantificabili della genitorialità, dell’amicizia, del nutrimento e della cura. Questo è uno dei motivi per cui lo «stesso» evento provoca sofferenza in alcuni, ma non in altri.

 

4. La sofferenza è consentita dalla biologia, ma questa non è la sua causa primaria

Harre (2002) distingue tra consentire e causare. Ogni esperienza è consentita dalle capacità biologiche che costituiscono la nostra incarnazione nel mondo materiale. Per esempio, la vostra esperienza di lettura di questo paragrafo è resa possibile dalla muscolatura della testa, del corpo e degli occhi, dalle cellule sensibili alla luce della retina, dalle vie corticali e dagli insiemi neurali che trasmettono, collegano e interpretano i segnali che queste cellule generano, e così via. Ma non sono queste capacità biologiche che vi hanno portato a leggerlo.

Questa distinzione è utile in relazione al disagio, anche perché si accorda molto bene con l’evidenza. Per un numero molto ridotto di diagnosi organiche (sifilide, infezioni delle vie respiratorie o urinarie negli anziani, sindrome di Korsakoff, demenza) sono note cause biologiche consistenti di disagio (anche se queste interagiscono sempre con altre influenze). Ma per la stragrande maggioranza delle diagnosi funzionali – schizofrenia, depressione, disturbo d’ansia generalizzato, disturbo di personalità e così via – non esistono prove così consistenti. Più di cento anni di ricerca estremamente ben finanziata, che ha utilizzato tecnologie sempre più sofisticate, non sono riusciti a stabilire che una qualsiasi di queste diagnosi denoti una malattia biologica. Nelle parole dell’eminente psichiatra Kenneth Kendler (2005, p. 434-5): «Siamo andati a caccia di grandi, semplici spiegazioni neuropatologiche per i disturbi psichiatrici e non le abbiamo trovate. Siamo andati a caccia di grandi, semplici spiegazioni neurochimiche per i disturbi psichiatrici e non le abbiamo trovate. Siamo andati a caccia di grandi, semplici spiegazioni genetiche per i disturbi psichiatrici, e non le abbiamo trovate».

Ma questo non significa che la biologia debba essere ampiamente ignorata, come spesso accade nelle scienze sociali e nella psicologia (prevalentemente cognitiva). Le capacità incarnate danno forma e consistenza al disagio, consentendo lo svolgimento di attività e co-costituendo percezioni, pensieri e sentimenti. Ciò significa che dovremmo sforzarci di capire come il disagio sia prodotto dalla socializzazione negativa di capacità biologiche incarnate, piuttosto che dalla loro menomazione, patologia o fallimento. Questa impresa interdisciplinare, estremamente complessa, si avvarrà di antropologia, scienze sociali, neuroscienze, psicologia e altre discipline. Nonostante alcuni suggestivi resoconti recenti (Schore, 2001), abbiamo a malapena iniziato a condurre tale ricerca, e non ancora ad affrontare le numerose difficoltà metodologiche e concettuali che essa incontrerà (Cromby, 2007; Newton, 2007; Rose, 1997).

 

5. Il disagio è influenzato dalla variazione biologica nella misura in cui questa variazione fornisce capacità non specifiche

Alcune capacità rese possibili dalla biologia possono facilitare le transazioni delle persone con il mondo e quindi contribuire a proteggerle da alcune forme di disagio psicologico o di dubbio su di sè. Può quindi essere un vantaggio possedere una bellezza fisica convenzionale, un’abilità sportiva, una capacità musicale, un’insolita abilità intellettuale e così via. Ma, cosa ancora più importante, la mancanza (percepita) di tali doti può minare l’autostima di una persona e renderla più suscettibile al disagio.

Un esempio: le persone meno attraenti dal punto di vista convenzionale incontrano un ambiente sociale più ostile, hanno meno possibilità di sviluppare amicizie e abilità sociali e sperimentano meno gratificazioni (O’Grady, 1982). Le meta-analisi di Langlois et al. (2000) suggeriscono che la bellezza convenzionale – nei bambini e negli adulti – sia associata a giudizi e trattamenti più favorevoli da parte degli altri. Farina et al. (1977) hanno riscontrato che le donne ricoverate in psichiatria erano giudicate meno attraenti dal punto di vista convenzionale rispetto alle donne selezionate in un centro commerciale o in un’università, mentre Napoleon, Chassin e Young (1980) hanno dimostrato che gli utenti dei servizi di salute mentale erano giudicati meno attraenti rispetto ai soggetti del gruppo di controllo con reddito medio o alto, ma non basso.

Un altro esempio: la sensibilità verso gli altri è un tratto che potrebbe avere una componente genetica. Normalmente questo tratto è adattivo, associato al mantenimento di buone relazioni, all’essere un dipendente migliore, al funzionare bene nei gruppi e così via. Ma quando una persona con questo tratto è inserita in un ambiente traumatico o di abuso, il tratto diventa disadattivo perché significa che gli effetti di questo ambiente tossico sono sentiti più intensamente. Lo studio di Tienari (1991) sull’adozione ha rilevato che, anche tra le persone con una storia familiare di difficoltà, le esperienze associate a una diagnosi di spettro psicotico emergevano solo nel contesto di dinamiche familiari sfavorevoli.

Questa prospettiva è in linea con l’attuale ricerca genetica molecolare, che in genere rileva che gli effetti sono minimi, non specifici, prodotti da più sequenze di DNA e sempre dipendenti dalla mediazione ambientale (Joseph, 2006; Rose, 1997). I fattori biologici possono influenzare la suscettibilità al disagio, ma non si tratta semplicemente di un vantaggio biologico oggettivo che inevitabilmente ordina le persone lungo una o l’altra dimensione di «eccellenza» umana. Il valore attribuito alle capacità biologiche è sempre una valutazione sociale e i loro effetti dipendono sempre dalle circostanze sociali e materiali.

 

6. La sofferenza non rientra in categorie o diagnosi distinte

L’idea pittoresca che la sofferenza possa essere ordinatamente suddivisa in categorie solide riflette l’errata convinzione che sia causata da malattie o menomazioni organiche. Se il disagio è inteso invece come una sorta di esperienza socialmente e materialmente indotta, non c’è motivo di presumere che dovremmo essere in grado di classificarlo in questo modo.

Questo può essere il motivo per cui la diagnosi psichiatrica è notoriamente inaffidabile e non valida. La prova dell’inaffidabilità è fornita dalla vita dei beneficiari dei servizi, che spesso ricevono diagnosi diverse durante il loro contatto con i servizi. Ulteriori evidenze provengono da studi che dimostrano che, anche in test di affidabilità in cui la normale variazione è artificialmente riprodotta (da presentazioni video, formazione specifica e categorie larghe), gli psichiatri spesso non sono d’accordo sulla diagnosi «corretta» (Bentall, 2003, 2009; Pilgrim & Rogers, 2010; van Os et al., 1999). L’evidenza che la diagnosi non è valida proviene da studi di comorbilità che mostrano che i pazienti che soddisfano i criteri per una diagnosi molto probabilmente soddisfano i criteri per almeno un’altra (Boyle, 2002; Brady & Kendall, 1992; Dunner, 1998; Maier & Falkai, 1999; Sartorious, Ustun, Lecrubier, & Wittchen, 1996; Timimi, 2011). Altre prove provengono da studi sui profili dei sintomi, che mostrano (ad esempio) che i sintomi delle persone con diagnosi di disturbo bipolare non si raggruppano separatamente da quelli delle persone con diagnosi di schizofrenia (Bentall, 2003). Poiché la diagnosi psichiatrica non è né affidabile né valida, tutti i suoi benefici dichiarati – per quanto riguarda l’eziologia, il trattamento, la prognosi, la pianificazione dei servizi, la comunicazione interprofessionale, la rassicurazione degli utenti e delle loro famiglie – sono compromessi.

Come tipo di esperienza, la sofferenza si colloca su un continuum e risponde continuamente a tutte le altre esperienze. La sua intrinseca variabilità riflette la grande complessità dei nostri mondi sociali e materiali, le molte contingenze interagenti e mediate che co-costituiscono la nostra esperienza e le incarnazioni primordialmente socializzate che ciascuno di noi ha acquisito. Tuttavia, dal momento che occupiamo tutti lo stesso pianeta e apparteniamo alla stessa specie, ci sono anche delle somiglianze nelle nostre esperienze di sofferenza. Queste riflettono capacità incarnate condivise: sentirsi tristi quando si è abbandonati, arrabbiarsi quando si è insultati, vergognarsi per la tristezza o avere paura della rabbia, essere così sopraffatti da questo insieme di sentimenti da distorcere la nostra stessa percezione del mondo (Cromby & Harper, 2009). Riflettono anche esperienze simili – ma mai «uguali» – di rapporti di potere, relazioni sociali, circostanze materiali e le possibilità contingenti e mediate che ne derivano.

 

7. La sofferenza è un modo acquisito e incarnato di stare al mondo

La psicologia cognitiva studia processi come la memoria, la percezione, il ragionamento e il giudizio e ha influenzato i recenti tentativi della psicologia clinica di spiegare e sviluppare interventi per la sofferenza mentale. Questi tentativi sono ampiamente basati sul presupposto che essa sia causata da qualche problema o disfunzione nei processi cognitivi «normali»: ad esempio, nell’ambito della terapia cognitiva, l’umore depresso viene attribuito a errori di ragionamento come la «eccessiva generalizzazione».

La terapia tenta di aiutare a correggere tali errori, ripristinando così il normale funzionamento psicologico. Tuttavia, questo approccio enfatizza eccessivamente la psicologia individuale, in particolare la coscienza, confonde le cause (sociali e materiali) con gli effetti (cognitivi), minimizza i processi corporei e trascura quasi completamente le cause sociali e materiali del disagio esterne alla persona e alla sua situazione prossima. Inoltre, non affronta i modi in cui la psicologia cognitiva è essa stessa una costruzione ideologica, piuttosto che un campo naturalmente scientifico che indaga fenomeni esistenti in modo indipendente (Bowers, 1990; Sampson, 1981; Shallice, 1984).

Al contrario, la psichiatria tende a interpretare il disagio clinico come una malattia medica e si concentra sulla diagnosi e sul trattamento (di solito con farmaci) delle cosiddette «malattie mentali»: depressione, schizofrenia, ecc. Pur riconoscendo il corpo come sede del disagio, non affronta adeguatamente il modo in cui le manifestazioni corporee del disagio emotivo sono prodotte dalle circostanze sociali e materiali e vi rispondono in modo coerente. Al contrario, la psichiatria riconduce il disagio a menomazioni e disfunzioni biologiche per le quali non esistono prove credibili, affidabili e coerenti (Lynch, 2004).

Il fulcro della maggior parte delle terapie psicologiche è lo sviluppo dell’«insight». Ad esempio, nella terapia cognitiva il terapeuta «aiuta» il cliente a prendere coscienza degli errori di elaborazione cognitiva, con l’obiettivo di aiutarlo a correggerli. La ricerca nelle neuroscienze e nella psicologia sociale, tuttavia, ha dimostrato che gran parte della nostra esperienza, compresa l’eccitazione emotiva, non è necessariamente disponibile all’introspezione cosciente (Kahneman & Tversky, 1982; Schwitzgebel, 2011; Wilson & Dunne, 2004). Di conseguenza, quando si chiede agli individui di culture occidentali di parlare dei sentimenti di malumore, essi di solito offrono resoconti che enfatizzano l’inadeguatezza individuale e il senso di colpa, mentre quelli provenienti da culture non occidentali offrono resoconti molto diversi (Fancher, 1996; Kleinman, 1986; Watters, 2010). Piuttosto che fornire resoconti affidabili, accurati e diretti dell’esperienza, l’introspezione è sempre mediata da norme culturali e risorse linguistiche che regolano cosa e come possiamo osservare e riferire.

Spesso ci è difficile dare un senso o spiegare agli altri come ci sentiamo e perché ci sentiamo così. Gli stati d’animo complessi sono spesso innescati involontariamente in risposta a subdole caratteristiche dell’ambiente, legate a eventi passati che sono stati dimenticati, o che non connettiamo con la nostra esperienza attuale (Damasio, 1999; Kagan, 2007; Le Doux, 1999). Spesso non siamo consapevoli dei molti fattori sociali che ci influenzano: a causa della loro complessità, o talvolta – nel caso della pubblicità, dei media scandalistici o dei discorsi dei politici – della consapevole manipolazione dei sentimenti da parte di chi occupa posizioni di potere, con l’intenzione di nascondere tale manipolazione (Caldini, 1994; Freedland, 2012; Jones, 2011). Forse uno degli aspetti utili della terapia è l’opportunità di cercare di fare collegamenti tra gli eventi, passati e presenti, e i sentimenti che evocano.

Le spiegazioni psichiatriche e psicologiche tradizionali del disagio sono nel migliore dei casi parziali, nel peggiore ideologiche, perché non riescono a cogliere il modo in cui l’esperienza viene modellata nel tempo da un mondo sociale spesso oppressivo. L’acquisizione di ciò che potrebbe essere descritto come posizione affettiva ‘neutra’ è interpretata legittimamente dalla persona come se riflettesse il modo in cui il mondo è, è stato e sarà sempre. Questo aspetto duraturo e incarnato della sofferenza significa che è molto difficile cambiare il modo in cui sperimentiamo noi stessi e il nostro mondo.

 

8. L’influenza sociale e materiale è sempre contingente e mediata

La capacità di agire è sempre condizionata dalle particolari risorse sociali, materiali e incarnate disponibili. A loro volta, gli effetti di queste azioni non dipendono semplicemente dalle nostre intenzioni. Sono anche una funzione delle intenzioni e delle azioni degli altri, nonché delle capacità e delle possibilità variabili del mondo sociale e materiale (in costante cambiamento).

Bradley (2005) offre un esempio sorprendente: fare un passo e far cadere un ciclista dalla bicicletta. In uno scenario, l’uomo rimane sostanzialmente illeso e si allontana in bicicletta, in un’altro scenario, viene sbalzato sulla traiettoria di un veicolo in arrivo e ucciso. Combinazioni intrinsecamente imprevedibili di fattori che si intersecano (scelte su dove e quando viaggiare; velocità, traiettorie e reazioni di ciclisti, automobilisti e pedoni; flusso e densità del traffico; assetto delle strade e dei marciapiedi) fanno sì che tre vite continuino come prima nel primo scenario, ma si trasformino radicalmente nel secondo.

La contingenza significa necessariamente che le influenze sociali e materiali sono sempre mediate. Sono in costante flusso e scambio tra loro e con le caratteristiche umane e le risorse (abitudini, percezioni, affetti, discorsi, narrazioni) con cui le comprendiamo e rispondiamo ad esse. Essenzialmente, ciò non significa che l’influenza sociale e materiale sia casuale: le contingenze e le mediazioni attraverso le quali viene messa in atto sono sempre già strutturate in relazioni di potere. Tuttavia, l’influenza del potere ha necessariamente un carattere «mediano» (cfr. Bourdieu, 1977; Young, 1990). Ciò significa che ci sono sempre potenziali di movimento, sempre momenti immanenti di divenire e cambiamento, anche all’interno di quelli che sembrano essere i regimi più congelati e statici (Stephenson & Papadopoulos, 2007).

Un resoconto psicologico adeguato della causalità deve quindi essere multiplo, complesso e aperto: deve riconoscere la radicale indeterminazione dell’interazione sociale (Shotter, 1993), il carattere probabilistico dell’influenza sociale (Archer, 1995) e l’influenza della cultura come sistema mutevole di principi guida normativi (Harre, 2002). Ma la psicologia mainstream è preoccupata da nozioni meccanicistiche di causalità: di conseguenza, tende a leggere queste indeterminatezze, probabilità e norme in un modo che subordina enormemente le circostanze sociali e materiali alla cognizione immateriale. Il condizionamento sociale e materiale viene quindi sminuito, a favore di concettualizzazioni individualistiche rispetto alle quali queste influenze reali appaiono in genere solo come mero contesto. Se elaborata, questa concezione fornisce ulteriori ragioni per cui gli «stessi» eventi sembrano avere un impatto diverso su persone diverse.

 

9. La sofferenza non può essere eliminata con la forza di volontà

Una nozione se non altro tacita di «forza di volontà» abita praticamente ogni teoria della psicoterapia. Dopo essere stati portati, in un modo o nell’altro, a confrontarsi con le loro mancanze personali, i loro errori o gli errori cognitivi, si presume che i pazienti possano apportare le necessarie correzioni con un atto di volontà. In caso contrario, si tratta di pazienti non collaboranti, «resistenti», ecc. Mai teorizzata esplicitamente, la nozione di forza di volontà si nasconde all’interno di concetti come «insight» ed è tipicamente assunta come una facoltà umana ovvia, quotidiana che può essere risvegliata da tutti in extremis. La forza di volontà costituisce una misteriosa forza morale interiore che non può essere misurata o dimostrata – perché, a prescindere dalla sua utilità sociale, non esiste (Smail, 2001a). Presumere che esista, e chiedere ai pazienti di dimostrarla, può essere una cosa estremamente crudele.

Ciò non significa che siamo necessariamente incapaci di scegliere un determinato corso d’azione, né che siamo costretti a compiere azioni contrarie ai nostri desideri. ‘Libertà’, ‘volontà’ e ‘potere’ sono concetti necessari e validi. ‘Volere significa scegliere questo o quello; libertà significa avere il potere di scegliere questo o quello. Il fatto di avere o meno il potere di esercitare la nostra volontà dipende dalla disponibilità delle necessarie risorse sociali e materiali. Volontà e potere sono due capacità distinte: senza risorse, l’esercizio della volontà è impossibile.

Non esiste quindi una forza immateriale chiamata forza di volontà alla quale possiamo fare appello. I poteri personali che rendono possibile l’esercizio della volontà possono essere contemporaneamente presenti nel mondo, oppure possono essere acquisiti storicamente – incarnati – dal rapporto con esso. Non sarò in grado di parlare francese (di «volere» una frase in francese) se non ho studiato e praticato la lingua a sufficienza perché diventi un’abilità incorporata. Allo stesso modo, non sarò in grado di comportarmi con sicurezza in una determinata circostanza se non ho acquisito e incarnato il tipo di esperienze che generano un'appropriata fiducia. La maggior parte delle terapie, in modo esplicito o meno, invoca il tirarsi fuori con le proprie sole forze come mezzo del cambiamento, ma il farcela da soli non sostituisce l’imprescindibilità potere personale (Smail, 2005).

 

10. Il disagio non può essere curato con farmaci o terapie

Il disagio non è una «malattia», quindi non può essere «curato». Non sono i geni difettosi, le cognizioni sbagliate o il complesso di Edipo, ma la sfortuna e l’abuso di potere diffuso che impantanano molti nella follia, nella dipendenza o nella disperazione. Questi non sono sintomi di malattia: sono stati d’animo che racchiudono il modo in cui la maggior parte di noi potrebbe rispondere alle avversità croniche. Le evidenze più citate per i farmaci psichiatrici e le terapie della parola sono elenchi iper-ottimisti di errori e distorsioni, caratterizzati da procedure di reclutamento e di verifica inadeguate, misure di esito clinico inaffidabili, con un significato limitato nella vita reale e pubblicazione selettiva di risultati favorevoli (Angell, 2004; Epstein, 2006; Kirsch, 2010). Quanto più rigoroso è lo studio e quanto più lungo è il follow-up post-trattamento, tanto più difficile è dimostrare la superiorità del trattamento clinico rispetto a quello fittizio, placebo o alternativo (Westen & Morrison, 2001). Né i farmaci né le terapie psicologiche sono dardi magici mirati a sintomi specifici: qualsiasi effetto abbiano sul corpo e sulla mente è piuttosto generico. L’unico dato attendibile è che gli operatori emotivamente accoglienti e attenti sono più apprezzati e ottengono risultati migliori: un’osservazione che vale anche per politici, venditori e prostitute.

In effetti, l’aspettativa che la terapia o i farmaci possano «curare» è di per sé dannosa. Gli psicofarmaci sono commercializzati e prescritti senza sosta – cure per presunti squilibri chimici che si dice affliggano fino a un quarto della popolazione (Busfield, 2010). Allo stesso modo, il gergo e le pratiche di oltre 400 scuole di terapia psicologica hanno invaso quasi ogni angolo della vita quotidiana: dai prodotti di una florida industria del «self help» alla gestione di scuole, università, aziende, cliniche e prigioni. Il programma del governo britannico Improving Access to Psychological Therapies (IAPT) promette di rendere il trattamento psicologico «disponibile per tutti», come profilassi del disagio, come fosse un balsamo di felicità: una terapia su scala industriale.

Ma la maggior parte degli psicofarmaci provoca danni mentali e fisici, soprattutto con l’uso a lungo termine (Breggin, 1991; Moncrieff, 2006; Whitaker, 2010). L’eccesso di prescrizione dei cosiddetti antipsicotici ha scatenato un’epidemia di psicosi in tutto il mondo, poiché la dipendenza da (e l’astinenza da) farmaci è stata quasi sempre scambiata per «malattia mentale». Sebbene le terapie con la parola sembrino più miti, troppo spesso sono solo una forma più insidiosa di controllo, che favorisce l’illusione che l’infelicità sia un fallimento o un crollo interno, in attesa della correzione da parte di un esperto (Illousz, 2008; Parker, 2007). E quando i farmaci o le terapie spesso non riescono a generare i profondi cambiamenti che erano stati implicitamente promessi, diventiamo coloro che semplicemente non possono essere curati.

 

11. I farmaci e le terapie possono fare la differenza, ma non per curare

A volte, i farmaci possono anestetizzare strategicamente le persone afflitte dai loro problemi, offrendo brevi momenti di tregua o di chiarezza. Durante queste brevi vacanze dalla sofferenza, indotte chimicamente, chi ne ha le risorse può avviare cambiamenti di vita che alleviano i problemi e stabiliscono traiettorie positive future. Ma se questo avviene è un effetto non solo del farmaco, ma anche delle risorse e delle circostanze in cui viene assunto: di conseguenza, i farmaci possono anche peggiorare le cose (Moncrieff, 2008).

Anche la terapia può essere d’aiuto, anche se non «cura». Intesa in senso generico, la terapia fornisce conforto (non sei solo con i tuoi problemi), chiarimenti (ci sono valide ragioni per cui ti senti così) e sostegno (ti aiuterò ad affrontare la tua situazione) (Smail, 2001b). In una società atomizzata, frammentata e povera di tempo, dove la solidarietà e la collettività sono derise, il tempo limitato e le relazioni costantemente infettate da uno strumentalismo tossico, queste sono funzioni preziose e compassionevoli.

Nel migliore dei casi, la terapia psicologica può aiutare la persona che soffre a comprendere l’angoscia non come un fallimento (più o meno intenzionale) dell’ introspezione, della motivazione o dell’apprendimento, ma come il risultato inevitabile del vivere in un mondo nocivo. Inoltre, sia i farmaci che la terapia possono aiutare le persone a fare un uso migliore dei poteri e delle risorse già disponibili. Entrambi possono richiamare l’attenzione su risorse non riconosciute (per esempio, la solidarietà con gli altri); far sentire lecito l’uso dei poteri e delle risorse disponibili; cambiare i modi in cui le persone usano i poteri e le risorse disponibili; o sostenere esplicitamente le persone a smettere di vedersi come «il problema».

Ad eccezione dell’avvelenamento iatrogeno e dell’autoregolazione disciplinare, né la terapia né i farmaci hanno un’altra influenza significativa.

 

12. Una terapia psicologica di successo non è principalmente una questione di tecnica

Quando la terapia ha successo, sembra essere principalmente una questione di due tipi di influenza: da un lato la relazionalità (la compassione e la comprensione umana ordinaria); dall’altro, la coincidenza con le circostanze e le risorse sociali e materiali.

Nella letteratura terapeutica è ben noto che i clienti migliori sono generalmente giovani, attraenti, verbali, intelligenti e di successo – YAVIS [Young, Attractive, Verbal, Intelligent, Successful NdT] (Pilgrim, 1997). Al contrario, le persone i cui bisogni sono descritti come «complessi» e che richiedono un trattamento a lungo termine sono di solito le più povere (Davies, 1997; Hagan & Donnison, 1999). Se le persone hanno (o possono ottenere) maggiori risorse, allora avranno più possibilità di agire sulla base dell’introspezione ottenuta.

In questa letteratura è inoltre ben dimostrato che i cosiddetti «fattori non specifici» sono un predittore costante di buoni risultati: in altre parole, che il terapeuta e il cliente sono in grado di stabilire una buona relazione (Mair, 1992; Norcross, 2010). Infatti, a differenza dei terapeuti professionisti, gli utenti dei servizi spesso dichiarano che gli aspetti più ordinari della terapia sono i più utili: ascolto, comprensione, rispetto.

Ciononostante, la terapia viene presentata per lo più come una questione di tecnica. La CBT, la psicoanalisi e quasi tutte le altre scuole di terapia appaiono come tecnologie specialistiche della soggettività, pratiche interpersonali esperte fondate su presupposti specifici, incardinate a particolari teorie ed evidenze scientifiche. In una società completamente mercificata è forse comprensibile che alcuni operatori vogliano avere prodotti di marca e vendibili, così come in una cultura professionalizzata alcuni vorranno identificarsi come portatori di conoscenze e competenze altamente specializzate. Come tutti gli altri, i terapeuti devono guadagnarsi da vivere, quindi è normale che l’interesse influisca sul modo in cui presentano se stessi e il proprio lavoro. Tuttavia, così facendo si distoglie l’attenzione dalle cause reali del disagio, rafforzando la convinzione che si tratti di uno stato misterioso suscettibile solo di un aiuto professionale, si mettono fuori gioco gli amici e i familiari, che potrebbero ritenere di non poter capire; e si nega il contributo della comunità, della solidarietà e della fiducia. La presentazione della terapia come tecnica specialistica sminuisce e svaluta la psicologia stessa, porta a sprecare risorse confrontando le differenze marginali tra questo e quell’altro marchio, e distoglie gli sforzi e l’attenzione dalle opportunità molto reali di ricerca e approfondimento psicologico che sono fornite dalla dimensione altamente privilegiata dell’incontro terapeutico.

 


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Midlands Psychology Group è un gruppo di psicologi clinici, consulenti e accademici che credono che la psicologia – in particolare, ma non solo, la psicologia clinica – sia servita ideologicamente a distaccare le persone dal mondo in cui viviamo, a renderci individualmente responsabili della nostra infelicità e a scoraggiarci dal cercare di cambiare il mondo piuttosto che limitarci a «capire» noi stessi.

Il gruppo è composto da John Cromby, Bob Diamond, Paul Kelly, Paul Moloney, Penny Priest, David Smail, Jan Soffe-Caswell.


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