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«Saluto al Duce!»



Basta!

La politica maneggia processi di lungo periodo, la cronaca è soltanto una figlia (spesso degenere) della storia. Da questa considerazione si sviluppa l'articolo di Alberto Burgio che, a partire dalla recente sentenza della Corte di Cassazione sulla (non) punibilità del saluto romano, riflette sul fascismo e sul razzismo endemici nella società odierna, «ombre maligne», reazione al processo di modernizzazione.

Scrive, a tal proposito, l'autore: «Il fascismo e il razzismo sono mali profondi, fenomeni storici di lungo periodo. Componenti nefaste ma stabili del contesto storico della nostra esistenza; mali contro i quali lottare per tutta la vita».

 

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Mi ha sempre colpito la miopia delle ultime generazioni di politici. In tempi lontani ho imparato che la politica maneggia materiali antichi, processi di lungo periodo. E che la cronaca è soltanto una figlia (spesso degenere) della storia. Quindi ho sempre pensato che «fare politica» sia impossibile o disastroso se non si è in grado di intendere la genesi degli accadimenti: le loro cause primarie, di norma profonde e non evidenti.

Come mi pare mostri la catastrofe della sinistra italiana ed europea, una politica del giorno per giorno è condannata a essere sempre in ritardo, ed è destinata alla sconfitta. Forse si può spiegare così anche lo scandalo politico-storico di questi decenni, uno scandalo di cui nessuno parla e al quale sembra ci si sia subito assuefatti. Intendo l’immediato, zelante, non di rado euforico ricollocarsi dei gruppi dirigenti della cosiddetta «sinistra moderata» (il personale politico e tecnocratico del Pd e dei suoi immediati antecedenti) nelle file dell’avversario storico del movimento operaio (il capitale) nella sua forma più selvaggia (il neoliberismo). Ma non è di questo che vorrei parlare oggi.

 Oggi vorrei spendere due parole in margine all’ultimo avvenimento di queste ore: la sentenza della Cassazione a sezioni riunite in base alla quale d’ora in avanti in Italia ci si potrà romanamente salutare con il braccio teso – come ai bei vecchi tempi – senza temere conseguenze penali. Il saluto romano sarà punibile ai sensi della legge Scelba soltanto se lo si potrà dimostrare connesso a un «concreto pericolo» di riorganizzazione del Partito fascista, dunque alla flagrante violazione di quanto disposto dalla Costituzione repubblicana.

Non considero questa sentenza soltanto avvilente e pericolosa in presenza di un rigoglioso proliferare di bande neofasciste e neonaziste. La ritengo anche profondamente sbagliata, frutto della sottovalutazione di un male le cui cause vanno ben al di là dell’irresistibile ascesa dei post-fascisti al governo.

 Mi sono tornati in mente in queste ore due episodi, nei miei ricordi connessi tra loro perché inerenti entrambi al fascismo e alla questione dei tempi lunghi della storia e della politica.

Il primo concerne una discussione alla quale presi parte una trentina d’anni fa. Era stato da poco pubblicato negli Stati Uniti un libro (The Bell Curve) che riesumava i più vieti luoghi comuni sull’inferiorità genetica degli afroamericani: anzi, dei negroes. Osservai che la cosa era sì vergognosa e inquietante, ma non sorprendente, perché negli Stati Uniti il razzismo restava vivo e vegeto, al di là delle lotte e delle conquiste dei movimenti contro le discriminazioni dei neri. Ricordo a quel punto la reazione stizzita (a dir poco) di Furio Colombo, che, pure, ben conosce la persistenza degli stereotipi razzisti: come mi permettevo di diffamare la Grande Democrazia d’Oltreoceano? Come osavo metterne in discussione le grandi conquiste civili? 

Erano i primi anni Novanta, anni di grandi illusioni. Si invocavano le magnifiche sorti e progressive dell’«Ulivo mondiale». Si celebravano i fasti del nascente clintonismo, e chi aveva la memoria corta inclinava a facili entusiasmi. Eppure quell’aspra reazione – ricordo – mi colpì per quanto a mio giudizio rivelava: una sproporzione davvero sconcertante tra la lunga durata di un problema radicato nella coscienza collettiva e nella memoria culturale di diversi secoli, e i pochi, pochissimi anni – un battito di ciglia – delle norme «illuminate» che finalmente sancivano l’uguaglianza delle «razze». Possibile che anche una persona colta e sensibile come Colombo non percepisse la sproporzione tra queste grandezze e cadesse nella trappola di scambiare per realtà le proprie aspirazioni – le proprie illusioni?

 L’altro episodio, di qualche anno precedente, riguarda ancor più direttamente il fascismo e il nazismo.

Era la primavera del 1990. Nel cimitero ebraico di Carpentras, in Provenza, erano state profanate una trentina di tombe. Lapidi erano state divelte. Svastiche naziste erano state disegnate sulle pietre sepolcrali. Era la prima volta in questa parte dell’Europa, mentre violenze neonaziste e gesti simili venivano susseguendosi nei Länder dell’ex Germania orientale. E il copione si ripeté. Questa volta tra gli interlocutori c’era Gian Enrico Rusconi, del quale avevo letto con interesse un libro sulla crisi della Repubblica di Weimar. Dissi che non c’era di che sorprendersi perché il fascismo è – come il razzismo e per ragioni analoghe – nella pancia delle nostre società, nei tessuti della nostra cultura e della mentalità collettiva. Rusconi reagì con veemenza, sostenendo che la Seconda guerra mondiale era stata una cesura e che grazie al cielo c’eravamo lasciati per sempre alle spalle quella storia e quegli orrori.

 In entrambi i casi ricavai l’impressione di un impasto tra desideri e conoscenze – quello che gli inglesi chiamano wishful thinking – che non è propriamente un viatico verso l’intelligenza della realtà. Di certo Colombo e Rusconi davano voce a speranze condivisibili, ma secondo me quelle speranze non avevano molto a che vedere con la realtà. I loro discorsi non erano analisi di osservatori freddi. La realtà era altra secondo me. E oggi temo che quanto stiamo vivendo – tutto meno che accadimenti superficiali ed effimeri – lo dimostri.

 Stiamo vivendo un incubo largamente annunciato.

Sono circa trent’anni che, anche grazie a Berlusconi e a Luciano Violante, in Italia il fascismo non è più soltanto un osceno ricordo. Le migrazioni, il neoliberismo, le «guerre umanitarie» e «democratiche» hanno sconvolto tutti i quadri di riferimento. La sinistra si è suicidata. Il sostanziale bipolarismo della cosiddetta Seconda repubblica ha tradotto il gioco politico nel pendolo tra la destra – dichiaratamente filofascista – e un centro conservatore nel quale pacificamente convivono gli eredi della sottocultura cattolica e i figli immemori della sinistra comunista e socialista. Sul piano internazionale il bipolarismo est-ovest è imploso. Nell’immaginario collettivo non vi è più traccia dell’idea secondo cui la lotta politica mette in gioco l’alternativa storica tra capitalismo e comunismo: tra una forma sociale che esaspera le disuguaglianze generate dallo sfruttamento del lavoro subordinato e una forma di vita fondata sull’autonomia del lavoro vivo.

In questo scenario era ben prevedibile che prima o poi cadesse anche il tabù del ritorno alle camicie nere, allo squadrismo e al saluto romano: del loro ritorno non nei salotti perbene e nel sottosuolo delle periferie, da cui non sono mai spariti; né nel Parlamento della Repubblica, dove sotto mentite o dichiarate spoglie allignano dal 1946. Ma del loro trionfale ritorno al comando del paese (anzi della «nazione»), con il lungo corteo di servilismo e di opportunismo che puntualmente ne consegue. Credo che in questo contesto si comprenda la sentenza delle sezioni riunite della Cassazione.

 Qual è il punto, a mio parere?

Torno al tema dei tempi storici. C’è chi ancora pensa che l’accoppiata Meloni-Salvini (le due facce del post-fascismo italiano 4.0) sia un incidente di percorso. Non lo credo affatto. Penso al contrario che il loro successo politico, niente affatto effimero, sia l’espressione di una malattia endemica e cronica di questo paese e di questo continente – anzi: dell’Occidente nel suo intero: di una malattia che ha a che fare con la modernizzazione e con i suoi drammi: la crisi delle identità, delle culture e delle forme di vita tradizionali; la crisi dei confini e delle appartenenze; la crisi delle gerarchie sociali e politiche, nazionali e internazionali. Sono almeno quattro secoli che queste crisi – in definitiva provocate da un pur lentissimo processo di unificazione dei corpi sociali e di eguagliamento delle condizioni materiali di vita degli esseri umani – generano reazioni violente, reazioni tra le quali ciclicamente si afferma il tentativo di restaurare quanto la modernità ha devastato o stravolto: l’ordine delle gerarchie; la stabilità dei rapporti di forza; le certezze delle appartenenze e delle tradizioni. 

Il fascismo e il razzismo (contro i «negri», gli ebrei e i nomadi; ma anche contro trans, «devianti» e marginali) vengono da questa volontà di arrestare e rovesciare la tendenza storica verso l’eguaglianza. Che cosa accadrebbe ove tale volontà prevalesse è detto con chiarezza nel progetto nazista di un Nuovo Ordine Europeo: un misto di iper-modernità (la tecnologia al servizio esclusivo del dominio) e di arcaismo (una gerarchia cristallizzata delle popolazioni, con i popoli slavi ridotti in schiavitù dopo lo sterminio dei subumani). Fascismo e razzismo hanno dunque radici molto profonde. Seguono la modernità come un’ombra maligna. Non ce ne libereremo, né se ne libereranno i nostri figli e i nostri nipoti. Naturalmente la Cassazione nulla sa di tutto questo, o, se sa, non se ne cura. Ritiene di operare e di giudicare nell’attimo fuggente. A torto: in questa sua sentenza si riflette un movimento profondo di materiali storici che minaccia seriamente tutti noi.

 Si dirà: è una visione disperata. Io ritengo sia soltanto realistica. D’altra parte, se non credo che la fine di questa brutta storia sia vicina, non per questo penso che durerà in eterno. Vale per il razzismo e il fascismo quanto Giovanni Falcone disse della mafia: sono fenomeni umani (storici); come hanno avuto un inizio, prima o poi finiranno. Ma appunto: come la mafia e ancor più di essa, il fascismo e il razzismo sono mali profondi, fenomeni storici di lungo periodo. Componenti nefaste ma stabili del contesto storico della nostra esistenza; mali contro i quali lottare per tutta la vita.

Ecco perché la superficialità di qualche alto magistrato e il fatuo ottimismo delle classi dirigenti «democratiche» sono colpe gravi. Non provocano soltanto errori giudiziari e politici, compromettono la sanità «intellettuale e morale» della nostra gente.

 

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Alberto Burgio storico della filosofia e condirettore della collana «Labirinti» di DeriveApprodi, ha dedicato diversi studi al pensiero politico, con particolare riferimento al marxismo. È autore di volumi su Marx (Modernità del conflitto. Saggio sulla critica marxiana del socialismo, 1999; Il sogno di una cosa. Per Marx, 2018), Gramsci (Gramsci storico. una lettura dei «Quaderni del carcere», 2003;  Per Gramsci. Crisi e potenza del moderno, 2008; Gramsci. Il sistema in movimento, 2014), Labriola (Un marxismo «alquanto aristocratico», 2023. Membro del Comitato scientifico dell’Edizione Nazionale delle Opere di Antonio Labriola, ha curato l’edizione critica del saggio In memoria del Manifesto dei Comunisti (2021) e (in collaborazione) quella di Discorrendo di socialismo e di filosofia (in corso di pubblicazione). Per Machina cura, con Marina Lalatta Costerbosa, la sezione «spigoli».

 

 

 

 

 

 

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