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Ruoli e funzioni del Servizio d’ordine in Lotta continua




Pubblichiamo la premessa a I senza nome, di Fabrizio Salmoni, un libro sulla storia del servizio d’ordine di Lotta continua a Torino che sarà pubblicato da DeriveApprodi a marzo-aprile 2022. Su temi contigui ricordiamo altre due pubblicazioni di DeriveApprodi a opera di Alberto Pantaloni: La dissoluzione di Lotta continua e il movimento del ’77 (2019) e 1969. L’assemblea operai studenti. Una storia dell’autunno caldo (2020).


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La questione della forza è direttamente attinente alla politica. Non c’è bisogno di consultare i Clausewitz o i Sun Tzu per sapere che dai tempi storici dell’umanità la lotta per il potere passa attraverso la forza di conquistarlo e di mantenerlo. Non fa eccezione naturalmente lo Stato moderno nato dalla Rivoluzione francese e da quella industriale, dall’acquisito dominio politico della borghesia imprenditoriale. I cicli storici hanno mutato forma e confini ma non la forma né i mezzi del dominio di classe. Il patto sociale che si configura nello Stato affida la gestione del controllo e della violenza ai suoi apparati designati dal potere politico e il grado di violenza viene declinato a seconda del pericolo manifesto e del regime politico in vigore.

Se il Regno d’Italia usava i cannoni di Bava Beccaris contro gli insorti milanesi, l’Italia del dopoguerra, costretta ad affidarsi alla Democrazia cristiana (Dc) per le esigenze della Guerra fredda in chiave anticomunista, rimette in circolazione poliziotti, generali, magistrati, burocrati del regime fascista e della Repubblica di Salò per far funzionare al meglio gli apparati di repressione in continuità impressionante col suo recente passato.

Conosciamo le conseguenze di quella operazione: decine di morti in ordine pubblico tra i lavoratori e i contadini, l’utilizzo parlamentare del Movimento sociale italiano (Msi), le trame segrete e le stragi per tenere i partiti di sinistra lontani dal potere e un sistema politico bloccato che col passare del tempo si configura come un vero e proprio regime.

È il fatidico Sessantotto che scuote quell’insopportabile macigno politico e culturale sull’onda di eventi che si susseguono nel mondo: la rivolta giovanile, la protesta contro la guerra americana nel Vietnam, le rivoluzioni nel Terzo Mondo. Il caso italiano, come ben si sa, è quello più complesso perché si scontra non con un solo aspetto critico della democrazia ma con un intero blocco politico refrattario a ogni avanzamento della democrazia stessa, in una situazione che vede inoltre la presenza del più forte Partito comunista dell’Europa occidentale e una forte identità ideale nella Guerra di liberazione, lontana solo un ventennio.

Quell’ondata di «contestazione» salda velocemente gli interessi dei giovani studenti e della nuova classe operaia prendendo forma di opposizione politica alle rappresentanze istituzionali costituite, e intraprendendo un percorso rivoluzionario che durerà quasi una decina di anni e che metterà a dura prova la tenuta del sistema.

In quel percorso, i movimenti nati dalle lotte studentesche e operaie devono affrontare prove durissime: tanti morti, tantissimi feriti, innumerevoli arresti, processi, detenzioni, licenziamenti politici, tentativi di golpe, stragi e provocazioni di Stato. La polizia spara sempre e fin da subito per uccidere su manifestanti inermi, iniziando il nuovo ciclo da Avola, proseguendo per Viareggio, Battipaglia e con sempre maggiore frequenza e intensità. Dal 1968 prendono il via i veri anni di piombo[1].

Per le decine di migliaia che subiscono e vogliono abbattere quell’incredibile muro di gomma e di piombo, a un certo punto del cammino si impone la questione della forza: in prima istanza il problema di come difendersi, in che modo e con quali criteri imporre il proprio diritto a stare in piazza, di difendere le lotte sul territorio, le conquiste, le proteste, le occupazioni di fabbrica e di scuola; poi, per naturale percorso rivoluzionario, come arrivare a cambiare l’equilibrio del potere e gestire il cambiamento su basi politiche e sociali sempre più avanzate sul terreno di classe.

I Servizi d’ordine sono la risposta più immediata e conseguente, reparti avanzati del fronte rivoluzionario che traducono in forza «militare» la forza politica espressa dalle lotte sociali; sono il braccio del contropotere da imporre allo Stato sul territorio e sui luoghi di lavoro.

Lotta continua (Lc) fu indiscutibilmente l’organizzazione più importante, la più estesa, la più creativa nell’interpretare le sopravvenute trasformazioni della classe e i modi di condurre lo scontro politico. E il suo percorso nel creare le proprie strutture di difesa fu alla media distanza il più proficuo anche a fronte di «cugini intraprendenti» come il Movimento studentesco dell’Università Statale di Milano che per qualche tempo ne fu il modello ispirante ma limitato territorialmente. Almeno fino all’avvento dell’Autonomia organizzata che seppe proporre rinnovate forme di esercizio della forza di piazza.

Quello sulla forza in Lc fu un dibattito cruciale che, di fronte all’intensificarsi dello scontro, prese diverse direzioni e contribuì allo sviluppo e poi alla fine di quel fenomeno tutto italiano che fu la sinistra rivoluzionaria, ma anche ai cambiamenti che una democrazia bloccata, altrettanto fenomenica, non poté fare a meno di subire in quei dieci anni grazie alla forza politica e militare dispiegata nelle piazze e nei luoghi di lavoro. Fu una questione cruciale perché implicava l’essere o non essere rivoluzionari. Su quella questione, un’organizzazione che si diceva rivoluzionaria, come Lc, dovette affrontare una durissima battaglia politica interna che la portò alla dissoluzione sulla scelta discriminante tra progetto rivoluzionario e movimento di testimonianza e opinione.

Che nel decennio tra il ’67 e il ’77, l’utopia rivoluzionaria sia andata vicino a realizzare sostanziali cambiamenti è indubitabile. Lo dice il numero delle persone coinvolte a tutti i livelli e in ogni settore della società: ne furono coinvolte direttamente persino porzioni delle forze armate e ne soffrirono le forze di polizia che per la vastità e la durezza dello scontro subirono un riflusso negli arruolamenti. Lo dice la crescente incapacità di governare della Dc, indotta dalla forza e dall’ampiezza delle lotte sociali, che facevano cadere un governo dopo l’altro, fino a costringerla ad accettare prima di dialogare con il Pci e la sinistra, poi di considerarne le spinte alla collaborazione. Ma lo dice soprattutto il ciclo di lotte operaie che raggiunsero un livello di autonomia politica tale da travolgere temporaneamente tutte le barriere di mediazione con il potere, e da toccare nel ’73 quello che Marco Scavino definisce il momento più vicino, dall’occupazione delle fabbriche del biennio rosso, alla reale possibilità di una soluzione di rottura degli equilibri del dominio di classe in Italia.

Tutto quello doveva essere cancellato dalla memoria, nascosto dalla cortina mediatica degli «anni di piombo» perché nessuno deve ricordare.

La narrazione storica mainstream ha legittimato una versione degli anni Settanta italiani fatta di immagini fuori contesto che rendono difficile la comprensione della storia: le «stragi», i «pezzi dello Stato (sempre) deviati», la «violenza», il «terrorismo», le «Brigate rosse», ecc. ma lasciando fuori eventi di lotta sociale talmente importanti ed epocali da richiederne la rimozione insieme alle porcherie del potere. E tutti vi si sono conformati, anche i leader fuggiaschi di Lc che a quella narrazione hanno contribuito.

La storia vissuta dalle migliaia di «senza nome» che in quegli anni si sono battuti per conquistare giustizia sociale e per dare continuità all’antifascismo dei loro padri, è diversa e va a parziale compensazione di quel vuoto: è una storia che, come disse Carlo Albonetti, responsabile del Servizio d’Ordine milanese, al congresso di Rimini, «non tollera di essere liquidata».

È la storia di coloro che più di altri hanno dato al progetto politico di Lc le proprie energie, i propri entusiasmi, la propria passione politica e che, nel duro scontro di quegli anni hanno messo a repentaglio la propria incolumità, la libertà e persino la vita. Sono quelli che alla fine più di altri hanno perso e pagato con il ritorno a una vita anonima le illusioni di poter contare come cittadini attivi in un processo politico che avrebbe dovuto, secondo loro, avere esito differente, migliore o peggiore non è questo studio a doverlo stabilire. Sono quelli che in gran numero hanno pagato la sconfitta con la solitudine e un nuovo isolamento sociale, con esistenze devastate dalla droga o con le conseguenze delle scelte avventurose di lotta armata talvolta senza aver avuto il tempo di formarsi una preparazione politica che li dissuadesse in partenza. Per giunta e per ironia della sorte, nel loro percorso di dispersione, hanno assistito all’ascesa sociale e professionale di alcuni di quelli che li avevano convinti, organizzati, diretti e infine abbandonati. Per molti, un motivo in più di amarezza e disimpegno.

Per questo è ancora più inaccettabile che della storia di Lc si sia appropriato quel gruppo dirigente che ne causò la fine. Quella raccontata dagli ex leader nei pochi libri sull’argomento e nelle tante interviste è una storia falsata, è la loro storia, la loro versione, è una sineddoche autocelebrativa, come dire «Lotta continua siamo solo noi». È la narrazione di persone che giustificano l’abbandono delle proprie responsabilità di fronte a un potere che li ha da tempo assimilati; un’operazione di autolegittimazione che contribuisce a cancellare quegli anni e quei tanti protagonisti dalle pagine della storia sociale del nostro Paese, a consegnare una fedina penale immacolata allo Stato, al regime stragista della Dc, al Pci che dal 1975 si fa a sua volta Stato, complice della repressione dei movimenti diffusi nel Paese e guardiano dei ceti operai garantiti.

E allora ancora più necessaria era una nuova ricerca su un reparto avanzato di quella stagione rivoluzionaria. Perchè limitarla alla Lc torinese ? E perché ora?

Una prima risposta attiene al valore della documentazione storica: la microstoria è quella che più si avvale delle testimonianze dei protagonisti e quella che più si pone a verifica ed eventualmente a contrasto delle versioni formulate in tempi più lunghi dagli storici di mestiere. Con le testimonianze dirette dei protagonisti che assumono immediatamente valore di documentazione, per gli storici successivi è più difficile sbagliare; è più difficile che si creino o che si alimentino interpretazioni fuorvianti come nel caso della storia di Lc.

Il focus è mirato sul caso torinese perché, come scrisse a suo tempo Guido Viale, «Torino era la vera Lotta continua, nel suo estremismo, nel bene e nel male», dove Lc era nata nella grande stagione dell’incontro tra lotte operaie e studentesche, e dove tutta Italia guardava per capire cosa e come doveva succedere. Perché è la sede di Lc in cui si determina la rottura più profonda che porta alla dissoluzione dell’organizzazione e proprio sulla questione della forza; una rottura apparentemente insanabile tra le varie componenti che fu politica ma che, nella percezione condivisa dal corpo militante, era indotta dall’esaurimento della capacità di analisi, dagli errori, dal cedimento personale e dagli interessi diversi del gruppo dirigente locale e nazionale. Non per altro, la crisi di Lc torinese, emersa improvvisamente dopo una lunga incubazione sotto traccia, trascinò come un domino tutte le altre sedi e lasciò una lunga scia di amarezze e rancori che ancora oggi rimangono sedimentati nell’animo e nella memoria dei militanti torinesi, solo in qualcuno stemperati ormai da una sofferta eleborazione.

Dopo tanto tempo era ora di darsi da fare prima che l’anagrafe prevalesse irreparabilmente: incontrarsi è ricordare, confrontare le riflessioni di ciascuno, capire cose che erano rimaste poco chiare e che necessitavano di un terreno solido su cui trovare le conferme da sempre cercate; ora, perché le restrizioni della pandemia hanno permesso all’autore di mettersi a scrivere quella storia diversa che i «senza nome» meritano che venga trasmessa.

Questo libro arriva dunque a quarantacinque anni dalla dissoluzione di Lc. Da qualche anno avevo cominciato a rintracciare testimoni. Qualcuno l’ho ritrovato in Val Susa, dove partecipava attivamente all’opposizione alla Torino-Lione. Cambiati ma non poi cosi tanto: nuova passione ma diversa intensità di partecipazione, nuove forme di lotta ma stesso nemico, ci si riconosceva ma non c’era più la stessa vicinanza. Troppo tempo di mezzo, troppe vite cambiate. Era inevitabile però, con qualche remora iniziale, riuscire a parlare del passato. Era anche essenziale ritrovare la fiducia reciproca ma non è difficile che ciò accada quando «certi legami rimangono». Quello è stato il primo passo per viaggiare indietro nel tempo.

Non è stato facile persuadere diversi dei testimoni a ricordare. Qualcuno ha rifiutato, qualcuno ha esitato, qualcuno ha rimosso quei giorni dalla sua mente, qualcuno li ha rinnegati, qualcuno si autoderide con amarezza o con sarcasmo per averli vissuti con ingenuità, qualcuno ha raggiunto proprie conclusioni personali difficili da scalfire sulla base di rancori personali, qualcuno ha chiesto di rimanere nell’anonimato. Molti sono dispersi per il mondo, altri sono deceduti. Qualcuno ha fatto una vita che ha preso strade addirittura opposte e a maggior ragione considera quei giorni un episodio che non merita di essere ricordato. Quarantacinque anni sono tanti in effetti per la memoria ed era apparente l’ulteriore difficoltà di quasi tutti a rivangare gli umori che la dissoluzione di Lc torinese, nelle modalità in cui si era manifestata e risolta, ha lasciato dentro. Perchè è stato l’unico caso drammatico, quello torinese, rispetto a ogni altra sede nazionale di Lc dove la dissoluzione fu vissuta meno conflittualmente, quasi con accettazione, comunque con stanchezza. In altre sedi qualcuno la fine se l’aspettava: la crescita impetuosa dell’area autonoma aveva già severamente minato le strutture e la coesione interna del partito; qualcuno, insospettabilmente, la fine se l’augurava da tempo: Adriano Sofri in un’intervista filmata molti anni dopo dichiara con stucchevole prosopopea: «Io l’avrei sciolta con tutto il cuore almeno un anno prima e probabilmente era già tardi...»[2].

In tutte quelle esitazioni, quegli scrupoli, quei tormenti resuscitati risiede tuttora il valore di quell’esperienza politica e umana. È l’esperienza soggettiva-emotiva alla base dei ricordi che ha reso comunque preziosa questa ricerca, oltre all’occasione di ritrovarsi e riflettere, forse per l’ultima volta, sul passato comune. Ma, se nelle ombre del reducismo c’è gioia e celebrazione dei «tempi duri» passati, nel nostro caso la gioia si è limitata al ritrovarsi individualmente per parlare, non senza difficoltà. Niente cene o feste come quelle organizzate nel tempo da sessantottini o da gruppi sparuti di nostalgici dei cortei vissuti prevalentemente come momenti ludici, gli stessi che nei momenti più difficili si sono poi tirati indietro perché quando ti sparano addosso «la festa è finita».

Per ricostruire fatti e atmosfera sono stati sentiti diciassette protagonisti, tutti personaggi-chiave per ricordare insieme situazioni specifiche e fondamentali: l’azione, le decisioni o non-decisioni politiche, i rapporti interni, la dialettica tra dirigenza e militanti, tutti elementi rivelatori che danno il giusto peso agli eventi e che servono ad approfondire le ragioni della dissoluzione, andando oltre le versioni finora accreditate e gettando una luce diversa sulla realtà storica. Ho tentato di sentire anche gli ex dirigenti torinesi superstiti, ma solo uno, l’ex operaio Enzino Di Calogero, ha accettato di rispondere da remoto, due hanno rifiutato, un altro aveva già dato la sua versione dei fatti in un libro, quindi per una volta non sono loro i protagonisti anche se molte e indicative sono le loro tracce (dichiarazioni, interviste, ecc.) lasciate sparse nel tempo che in gran parte ho recuperato.

Anche in molti dei testimoni interpellati, a quasi mezzo secolo di distanza, il ricordo delle imponenti lotte operaie e sociali del settennio 1969-1976 si è affievolito pur avendolo essi vissuto intensamente. Il tempo ha richiesto il suo pedaggio, l’atteggiamento nei confronti della politica è cambiato e le lezioni sono state imparate. Le lotte di oggi sono molto più indifese, i dimostranti sono inermi di fronte alla violenza dello Stato, si è persa l’idea di un’autodifesa organizzata, il potere è molto più forte, i mezzi per opporvisi sono sempre più scarsi.

Per questo viaggio ho recuperato gli insegnamenti di Bianca Guidetti Serra, mia madre, che scrisse il libro Compagne, una raccolta di testimonianze di donne della Resistenza, militanti di partito e dei Gruppi di Difesa della Donna, che raccontano la loro stagione di lotta e, facendolo, recuperano il loro posto nella storia. In quei ricordi focalizzano i fatti individuali più che la dimensione politica ma descrivono un contesto realistico, autentico, affidabile. Il messaggio di quel libro è che la storia la fanno i molti che fanno il loro dovere fino in fondo e i conti con la propria coscienza per tornare infine alla nuova stagione di anonima vita quotidiana con l’orgoglio di avere fatto qualcosa di importante, di avere comunque contribuito a cambiamenti importanti. Quelle donne vissero la gioia di aver vinto la loro battaglia, magari per assistere dopo breve tempo al crollo dei loro sogni, all’inquinamento degli ideali che le avevano sorrette. I «senza nome» degli anni Settanta invece hanno vissuto pienamente la sconfitta, ma nonostante ciò sono in grado di sollecitare la riflessione su come si può far paura al potere e su come lo si può contrastare e costringere a fare i conti con la forza popolare organizzata. Chissà che la loro lezione non torni utile per le nuove battaglie di questo secolo...


Note [1] Non volendo contare gli anni del dopoguerra che videro la strage di Portella delle Ginestre e 81 operai e contadini uccisi dalle forze dell’ordine, 11 morti tra il 1955 e il 1959, e 20 morti del governo Tambroni, dal 1968 con l’eccidio di braccianti ad Avola e nel 1969 a Battipaglia, si inaugura il decennio delle stragi e si rinnovano le uccisioni di piazza (da D. Conti, Terrorismo anni Settanta, celebrazioni e verità, «il manifesto», 14 maggio 2021). [2] Testimonianza di A. Sofri in Noi non abbiamo vinto?, docufilm di Gianni Sartorio, 2006.


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Fabrizio Salmoni, è giornalista e blogger. Laureato in Storia Americana all’Università di Torino ha conseguito un master in Studi Americani all’Università del Texas. Ha diretto «American West. La rivista italiana di Western Lifestyle». In Val Susa ha contribuito a fondare i presidi giornalistici «Tg Maddalena» e «Tg Vallesusa». Collabora con il Centro Studi Piero Gobetti di Torino per la cura del Fondo di documentazione Tav di cui è promotore.

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