Beni terreni, religione e società dal primo cristianesimo al secolo XII
Sergio Bianchi, Eretici alla ruota, creta e legno, 1974
Il tema della povertà è parte importante dei contenuti dottrinali e della precettistica morale del primo cristianesimo e delle sue comunità.
Tradizione, messianesimo, povertà
È molto probabile che tale tema rispecchi la realtà della predicazione del Gesù «storico»: l’esegesi dei vangeli canonici ha mostrato che molte delle espressioni in materia sono loghia derivati dalle fonti più antiche. Descrivono cioè quasi dal vivo l’azione missionaria e rinnovatrice veramente condotta dalla figura del carismatico itinerante a cui viene fatta risalire la nascita della nuova dottrina. La predicazione sulla povertà, così come numerose pericopi dei Vangeli la riferiscono, è dunque uno dei contenuti più distintivi dell’azione missionaria di Gesù, se non già eversiva, almeno fortemente innovatrice e in pronunciata antitesi con la religiosità del suo tempo. Il giudaismo e l’ebraismo non hanno mai disprezzato la ricchezza, considerata dono e benedizione del Signore. Nell’Antico Testamento non c’è alcun elogio della povertà. Essa è spiritualmente rischiosa: il povero è esposto a risentimenti e rancori. La ricchezza invece è un segno della predilezione di Dio. Essa, però, non può eccedere, non può spingersi oltre un certo limite. Sovente, il ricco si rende arrogante verso il Cielo. E dunque, da retributiva la ricchezza deve subito farsi distributiva, rivolgendosi a sostenere il povero e il bisognoso. Deve diventare strumento di tzedakà, di giustizia. E chi la detiene deve piegarsi all’anno di remissione dei debiti, deve obbedire al divieto di prestare denaro a interesse e all’obbligo di pagare la decima, deve concedere il diritto di spigolare sulle sue terre: tutto ciò in consonanza con le mitzvoth della Torah. Ma la ricchezza è in ogni caso segno della benevolenza divina e strumento privilegiato di salvezza.
«Se il vostro Dio ama i poveri, perché non procura loro il sostentamento?» chiede il procuratore Turno Rufo a rabbi Akivà ben Joseph, autorevolissimo compilatore dei primi testi talmudici. Decisa la risposta: «Perché noi aiutando loro ci procuriamo la salvezza dalla gehinnà». Già da tempo in ogni caso, nel processo di costruzione di una identità nazionale basata su principi e precetti religiosi, una simile dottrina ha portato alla costituzione di caste privilegiate in cui ricchezza e potere si sono concentrate in forma rigidamente regolamentata; caste da cui si esprimono i vertici del comando sociale, culturale e spirituale. E contro le quali non possono che rivolgersi, in forma «naturale» e quasi obbligata, i «profeti» dei movimenti di liberazione e di salvezza che nascono tra i poveri e gli indigenti. Che cercano consenso e legittimazione attraverso momenti di predicazione e di agitazione rese credibili e significative dalla scelta di operare in condizioni assai dure, senza sostegno familiare, senza denaro, mezzi di trasporto, riserve di cibo. Senza quel «pane quotidiano» che è spesso al centro, in senso assai poco traslato, delle preghiere non canoniche tipiche di queste nuove forme di vita materiale e di scelta spirituale. Citiamo qui, coevi e conterranei di quello «cristiano», movimenti messianici, di liberazione e di salvezza come quello dei Qana-Zelotes e quello della Comunità di Qumran; o come quelli fatti risalire alle figure (a lungo travisate) di Yeshua Bar-abbas, di Yohanan il Battezzatore, di Yoḥanan ben-Levi di Giskala, di Eleazar ben Shimon. Negli scenari geografici e temporali in cui presumibilmente si muove Yeshua haNotzri (…citare qui il possibile nome ebraico di Gesù è definitiva sollecitazione a guardare alla sua sola figura «storica») le élites del potere politico-religioso sono i Sadoqim, casta sacerdotale alleata dei Romani, e i Perushim, corrente che tiene insieme una notevole religiosità con un giudaismo dai forti connotati gerarchici.
È contro di essi che l’azione «messianica» di Gesù indica innanzitutto la via di un rinnovamento «dal basso» della Legge e del suo Patto. In questa prospettiva, il suo carisma si confronta più volte con figure di ricchi a cui viene richiesto (quasi sempre con scarso esito) di rinunciare a ricchezze e patrimoni. Ed è sempre in questa chiave pauperistica, che la sua predicazione si spinge sino al tumulto contro i mercanti del Tempio: contro il simbolo più visibile del sistema di accumulazione che si muove intorno alle istituzioni religiose ufficiali. Tumulto che con buona probabilità sarà per il Gesù storico la causa principale del processo e della condanna a morte.
Il primo Cristianesimo
Nel tempo a seguire, le prime comunità «cristiane» tentano con tenacia di attenersi al precetto della povertà come scelta di vita, ma l’ambito limitato in cui riescono a operare, trasforma questo principio quasi fatalmente in forme chiuse di vita comune e comunitaria, in cui povertà e accesso concorde ai beni necessari alla vita si confondono e si equivalgono, diventando una sorta di regola rigida e settaria, alla quale non si può trasgredire, vedi l’episodio di Anania negli Atti degli Apostoli. Ma come un tale radicalismo venga rapidamente meno negli orizzonti della nuova religione, è dato che si può constatare già a partire da sommari passaggi delle Epistole paoline, ma soprattutto dalla prima letteratura normativa ed esortativa. La Didachè, testo contemporaneo agli ultimi vangeli, prescrive al ricco di condividere la propria ricchezza con chi ricco non è, in una forma che assomiglia sempre di meno alla messa in comune e sempre di più a un gesto unilaterale di benevolenza.
Nel cuore dell’Impero
Nel diffondersi nell’ecumene romano, il Cristianesimo va rapidamente incontro a un grande e paradossale mutamento storico e spirituale: quello di diventare un’organizzazione di massa capace di richiamare a sé e di ricollocare entro nuovi confini di cultura e di valori larga parte delle norme e delle consuetudini sociali preesistenti. Ciò anche attraverso l’offerta di più «facili» modalità di conversio e di adesione che partono dalla semplificazione e dalla generalizzazione dei suoi dogmi e delle sue regole di vita. Da conventicula e secta si trasforma cioè in ekklesìa e religio. Con tutte le implicazioni soprattutto «mondane» che ne derivano. Nella nuova società cristianizzata si fa velocemente strada l’idea che la ricchezza debba diventare un istrumentum saeculare che la Chiesa non può non possedere, e che deve in primo luogo conferire all’istituzione dignitas et plenitudo potestatis. E che in questa chiave va poi usato per il soccorso e la provvidenza nei confronti dei poveri. Tra i cristiani diventa sempre più comune che al credente sia chiesto di «dare» alla comunità a cui appartiene; un fenomeno che coinvolge in larga misura i ceti appartenenti a una classe media che (contrariamente a ciò che si pensa) ha larga presenza urbana e cittadina: per la quale la Chiesa appronta una serie di pratiche, come donazioni periodiche e lasciti, che diventano atti devozionali per chi cerca nella sua comunità prestigio e consenso o deve ottemperare
a obblighi penitenziali. Ciò spesso sulla sollecitazione e sulle spinte all’emulazione che possono venire dalla spettacolarità di gesti estremi come lo spogliarsi totalmente di ogni proprio avere (spesso patrimoni immensi) da parte di esponenti dei ceti più alti, matrone o vedove soprattutto, ma anche coppie di coniugi, in nome di una metànoia radicale e irrinunciabile. Tra le più conosciute vicende di questo tipo è quella di Piniano e Melania la Giovane, che nel 407, donano ai poveri le loro immense proprietà per poter condurre vita contemplativa a Gerusalemme. Una sorta di dottrina canonica su questo terreno va fatta risalire inizialmente a personaggi come Cipriano di Cartagine, a cui sono attribuite esplicite lodi al denaro, con cui si può comprare la salvezza. Più avanti, in un suo celebre commento ai Vangeli, Ambrogio sostiene che il peccato non consiste nelle ricchezze, ma nel cattivo uso che se ne può fare: esse, infatti, possono diventare un incentivo alla virtù per chi le possiede e le utilizza con cuore onesto e generoso. Clemente Alessandrino richiama ai ricchi il dovere dell’elemosina, giustificando come «fisiologica» la divisione della società tra poveri e ricchi. Più esplicitamente, Basilio di Cesarea sottolinea come l’accumulo della ricchezza sia permesso da Dio come incentivo alla generosità.
Agostino e la sua Ortodossia
Ma è soprattutto Agostino che pone puntigliosamente a sostegno di questa nuova «ortodossia» innanzitutto la teoria della liceità della ricchezza, che Dio permette perché per il ricco è strumento per andare caritativamente incontro al povero. E che con altrettanta forza sostiene l’efficacia penitenziale del donare alla Chiesa in remissione dei propri peccati. Un principio che in tutte le sue esplicazioni sarà sempre punto di snodo di differenti, contrapposte concezioni delle vie di salvezza verso la «vita eterna» - ci sarà qualcuno che lo definirà «un commercio». Agostino spinge infine a che vadano evitate rinunce avventate;
e teorizza che questa pia consuetudine debba in ogni caso essere indirizzata verso le gerarchie ufficiali della Chiesa, vescovi metropolitani in primo luogo.
Per inciso: caritas o liberalitas
Vale comunque la pena di tentare, sia pure per un breve inciso, il confronto di questo costume e della ritualità che lo accompagna con quanto ci è noto accadesse nella romanità pre o non cristiana. Appare subito che, al contrario di altri larghi momenti della vita e della società del tempo, la caritas christiana e la liberalitas della tradizione romana abbiano avuto pochissimo in comune. A Roma, la ricchezza conferisce auctoritas e dunque in qualche modo implica un ruolo sociale per chi la detiene. Il ricco intanto appartiene quasi automaticamente al rango degli honestiores tra i quali vengono scelti i dignitari e i funzionari pubblici. Ciò comporta che il suo amor civicus lo obblighi al patrocinium di opere pubbliche o di eventi spettacolari assicurati al populus e alla cittadinanza tutta. Ma ancora di più, lo Stato o il Fiscus imperiale sono istituzionalmente tenuti a fornire ai poveri e ai soggetti deboli della civitas elargizioni, donativi, cospicue provvidenze in generi di consumo che garantiscono il sostentamento di innumerevoli individui. Provvidenze che quando carenti possono anche essere reclamate dalla plebs frumentaria in nome di un diritto sancito se non dalla legge almeno da una consolidatissima consuetudine.
Pelagio e le illicite divitiae
Ma per tornare al centro del ragionamento: pochissime sono le voci che si levano contro una Chiesa opulenta, locuples et pecuniosa. La più forte rimane, siamo tra la seconda metà del IV e i primi decenni del V secolo, quella di Pelagio. Nel pensiero del grande maestro irlandese, il tema della ricchezza e della sua illiceità viene affrontato con la stessa rigorosa linearità con la quale tutti i grandi principi sulla natura e sul destino dell’uomo vengono da lui affrontati. Nel suo De Divitiis, Pelagio sostiene l’incompatibilità della ricchezza con qualsiasi forma di testimonianza cristiana. Chi possiede beni in eccesso deve sbarazzarsene, perché il Vangelo impone la povertà, e quindi l’iniqua distribuzione di beni materiali è di per sé un’ingiustizia. In più le ricchezze hanno sempre un’origine illecita e segnata dal peccato. L’uomo è creato da Dio per raggiungere la perfezione e solo nell’assenza di beni materiali può essere libero e responsabile di ogni sua azione. Della qualità e del rigore della visione del cristianesimo contenuta in simili tesi, danno piena misura la veemenza e la vis polemica con cui questo pensiero «forte» verrà confutato da Agostino. Seppure a stento, il pur possente defensor fidei nordafricano riuscirà a spingere Pelagio e il pelagianesimo fuori dai confini teologici della Chiesa di Roma. Siamo con ciò, a proposito di ogni possibile controversia tra ricchezza e povertà, già sul terreno sempre più arduo e pericoloso del confronto esplicito e dello scontro tra ortodossia ed eterodossia, tra dogma ed eresia.
Monachesimo, proprietà, uso
Nella Chiesa della tarda Patristica che cerca di dare stabilità canonica alle sue istituzioni, il tema della povertà rimane sempre speculare al tema di una ricchezza lecita se strumento di carità e in qualche misura fonte di soccorso ai poveri. Dall’apparire del monachesimo in tutte le sue forme, da quella solitaria degli eremiti e degli anacoreti orientali a quella più occidentale del cenobio e del monastero, la povertà diventa necessaria conseguenza e complemento di una vita contemplativa o comunque interamente dedicata alla pratica religiosa: essa è però sempre più una conseguenza delle scelte spirituali e devozionali della persona e della collettività che un movente da cui partire per condurre una nuova o rinnovata esperienza di fede. È a grandi linee in questo ambito che prende a entrare nella consuetudine delle comunità religiose l’espediente di considerare l’utilizzo ai fini comuni di un bene come «titolo» in qualche modo diverso dal suo possesso – pratica che nel tempo e nelle numerose controversie a venire riceverà la non chiara definizione di usum pauper.
Nei secoli dell’Eresia
La vulgata corrente si serve di solito del monachesimo per raffigurare il culmine dei primi mille anni di Cristianesimo. E del «bianco manto di chiese» che ricopre l’Europa, segno di un moltiplicato fervore devozionale, per illustrare il fatale passaggio al secondo millennio.
Ma se proseguiamo appena oltre il fascino evocativo di tali immagini, non possiamo non notare subito che la complessità degli avvenimenti della storia religiosa dei primi due secoli della nuova era è tale da non lasciare spazio in questa sede se non a un breve tracciato di sintesi. Controversie religiose e dottrinali, scismi o movimenti palesemente eterodossi di varia portata e di varia natura si manifestano quasi sempre mostrando palese intreccio tra pauperismo ed egualitarismo. Alla base di sempre più numerose e forti istanze di riforma e di rinnovamento, se non di vere e proprie rivoluzioni, ci sarà sempre la richiesta «minima» di una religiosità, di una religione e di una Chiesa che devono tornare a essere umilmente e poveramente «apostoliche». Non sono che un singolo percorso, ma davvero paradigmatico, le vicende della chiesa milanese e della sua cattedra vescovile nell’XI e nel XII secolo, intessute di moti popolari e pauperistici come la Pataria, suscitati da esponenti delle classi subalterne e del basso clero come il diacono Arialdo e il chierico Landolfo con suo fratello Erlembardo. Personaggi che trovano largo consenso nell’attaccare come «ladri e simoniaci» vescovi come Guido, successore del grande Ariberto; o Grossolano, costretto alla fuga dal Giudizio di Dio minacciato contro di lui dal vecchio prete Liprando. La stessa chiesa ambrosiana sarà pochi anni dopo altrettanto travagliata dal nascere dei Poveri Lombardi, a stento ricondotti, ma solo in parte, all’ortodossia degli Umiliati e delle loro regole quasi monastiche. Nulla, nemmeno il ciclo delle riforme cosiddette Gregoriane, riesce portare pace alla cristianità occidentale. Anche in questo caso, vale come esemplare la citazione di Arnaldo da Brescia e dei suoi Arnaldisti, la cui azione rivoluzionaria contro il potere temporale per un ritorno della Chiesa alla povertà evangelica, dettata peraltro da una profonda cultura teologica e da un’alta dose di spiritualità, ha grande risonanza europea, testimoniata come è per esempio da un cronista «imperiale» come Oddone di Frisinga, zio di Federico Barbarossa; e che riesce a scuotere le fondamenta delle istituzioni ecclesiastiche del suo tempo prima di essere soffocata dalle forche e dai roghi, grazie all’azione di personaggi come Bernard de Clairvaux. Ma è su una sorta di «secolo estremo», quello formato dagli anni che partono dal 1150 circa sino alla metà del secolo successivo, che va appuntata l’attenzione, per leggere dentro di esso la trama delle due più importanti «eresie» del Medio Evo occidentale: il Catarismo e il Valdismo. Tanto significative e di così vasta portata da essere causa operante del solo accordo «d’epoca» (1184) tra il Papato e l’Impero di Lucio III e Federico Barbarossa. Che porterà tra le altre cose alla redazione della Bolla Ad Abolendamcontro «l’eretica pravità». Documento di grande portata oggi storica, allora politica e dottrinale.
Catari
Del primo di questi momenti della religiosità europea ci preme subito dire che dovrebbe essere letto dal nozionismo storico non come una stramba e pittoresca «setta dualista», imbottita di mal digerito manicheismo; bensì, come un movimento di larghissima portata morale e spirituale, forse il più significativo dei tre secoli in cui ha vita. Che può vantare un orizzonte di fede di un’intensità e una profondità con pochi confronti. E nel quale il tema della povertà, pur se in maniera spesso non chiaramente delineato, è comunque assunto come condizione necessaria per ogni superiore o suprema manifestazione di fede, e riguarda perciò da vicino i ministri del culto, quei perfecti, quei boni homines, predicatori erranti obbligati, appunto, all’assoluto non possesso di beni, oltre che alla castità assoluta come rifiuto del male contenuto nella capacità umana di riprodursi. La scelta della totale indigenza in questa chiave è spesso il primo passo, già ritualizzato, verso quelle pratiche di rinuncia che iniziano con il consolament, investitura sacramentale ricevuta con l’imposizione delle mani dalla Comunità di appartenenza, e culminano all’estremo dell’endura, un digiuno «sacro» spinto sino alla morte. Pratica abbastanza frequente tra i Perfetti soprattutto in tempo di persecuzione. Per tutti gli altri credentes scelte così radicali non sono mai un obbligo e non sono mai imposte dalla «gerarchia» del Movimento.
Valdesi
Del movimento dei Poveri di Lione, o Valdesi, dal nome del suo suscitatore, Valdo o Valdez o Vaudes, la storia complessa e affascinate parte dalla «solita» Occitania, culla privilegiata di tante diversità linguistiche e poetiche, oltre che spirituali; per arrivare a stabilizzarsi nelle nostre valli alpine e giungere, attraverso il calvinismo, sino ai giorni nostri. Tra i movimenti di riforma religiosa dell’era media, il Valdismo è quello più strettamente legato al tema della povertà. Quella di cui il Vangelo predica l’obbligo come prima forma della vita cristiana: e che il suo fondatore sposa in forma mitica e mitografica spogliandosi del suo patrimonio di ricco produttore e mercante di stoffe. Curiosa valenza, detto per inciso, quella dell’arte della tessitura: non si sa bene perché, ceto produttivo nel quale allignano numerose le eresie. Gli stessi Perfetti catari esercitano in molti tale professione, e sono perciò chiamati spesso tisserant. Ma tornando a Vaudes, o Valdo: povertà, odio e disprezzo della ricchezza e di ogni scelta di vita a essa collegata, non devono però limitarsi a essere «privilegio» di una èlite di «supercredenti», ma scelta e pratica di una intera comunità di «militanti» che da laici fattisi liberi predicatori, intendono portare la parola di Gesù a diretto contatto delle classi più umili e più povere.
Che questa povertà sia vera forma di ministerium (mentre la ricchezza è solo dominium) è concetto basilare che viene anche sostenuto dalla necessità che il Vangelo sia veramente alla portata di tutti: da cui l’uso corrente nel movimento di una traduzione volgare del Nuovo Testamento dovuta a Bernardo Ydros e Stefano d’Anse. La povertà è anche fonte e legittimazione dell’uguaglianza di tutti i fedeli nell’ambito della Chiesa e di un sacerdozio universale affidato a tutti, uomini e donne, fondato sul merito individuale e non sopra una consacrazione esteriore. Il primo Valdismo non si pone al suo sorgere
al di fuori della chiesa: tende piuttosto a considerarsi parte militante di un rinnovamento anti-eretico, rivolto soprattutto contro il catarismo con cui alle origini condivide geografia e apparato linguistico. Ma prima ancora che causato da una scelta soggettiva, il destino dei Valdesi si determinerà attraverso l’oggettività dell’essere «naturalmente» legati ai ceti più umili, e dunque potenzialmente più sovversivi della società. È la stessa semplicità dei principi più elementari della loro confessione di fede che ha in sé i germi della rottura con il cattolicesimo. Il sacerdozio universale, per di più povero e pauperistico, è tema per esempio che non permette alcuna conciliazione con la Chiesa, e i Poveri di Lione si troveranno ben presto al di fuori di ogni possibile ortodossia romana. Nei loro tentativi di contatto con Roma, i primi valdesi non avevano comunque trovato che ostilità, spesso derisoria nei confronti della loro bona fides e del loro candore dottrinale. Solo pochi avevano colto da subito il potenziale pericolo per le istituzioni che un tale movimento possedeva. Tra i pochi, Walter Map. Lapidariamente, il legato britannico, acuto e attento osservatore della società religiosa del suo tempo, presente all’interrogatorio (III Concilio Lateranense) di due seguaci del primo Valdismo, giunti di fronte all’importante assise per esporre ragioni e articoli di fede del loro movimento, avverte il pericolo di una radicalizzazione del concetto di povertà nelle classi subalterne e nei ceti sociali più umili. Come già detto, il valdismo riuscirà sia pure a prezzo di continue persecuzioni a sopravvivere pur nella sua sempre più obbligata marginalità, sino a diventare volontariamente (Sinodo di Chanforan, 1532) una confessione del Calvinismo.
Fermiamoci qui
Ma con Valdesi e Catari siamo già in prossimità, non solo temporale, di rinnovate eterodossie, di nuove eresie, di scismi sanguinosi: accostiamo impropriamente tra loro nomi come quello di Frà Dolcino Torrielli il valsesiano, di Gerardo Segalelli il parmense, di Armanno Pungilupi il ferrarese – santificato prima di essere scoperto eretico ed eresiarca. Siamo anche più vicini al tempo di Domenico di Guzman e soprattutto di Giovanni di Pietro Bernardone di Assisi, detto Francesco. E in questa nuova, larghissima dimensione del tema non sembra almeno per ora opportuno entrare.
…più da vicino:
…Alzati gli occhi verso i suoi discepoli, Gesù diceva: «Beati voi poveri, perché vostro è il regno di Dio…
Luca 6, 20
Gli disse Gesù: «Se vuoi essere perfetto, va, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi». Udito questo, il giovane se ne andò triste; poiché aveva molte ricchezze.
Marco 10, 18-22
Gesù allora disse ai suoi discepoli: «In verità vi dico: difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli. Ve lo ripeto: è più facile che un cammello passi per la Cruna dell’ago, che un ricco entri nel regno dei cieli».
Matteo 19, 23-29
Gesù disse, «Beato il povero, perché suo è il regno dei cieli.»
Vangelo di Tommaso, 54
Nessuno infatti tra loro era bisognoso perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli: e poi veniva distribuito secondo il bisogno di ciascuno.
Atti degli Apostoli 4, 34-35
Se grazie al lavoro delle tue mani possiedi qualche cosa, donerai in espiazione dei tuoi peccati. […] Non respingerai il bisognoso, ma farai parte di ogni cosa al tuo fratello e non dirai che è roba tua. Infatti, se partecipate in comune ai beni dell’immortalità, quanto più non dovete farlo per quelli caduchi?
Didaché 4, 5-8
…Coloro che vengono condannati dall’autorità della sentenza di Cristo, non sono coloro che possiedono le ricchezze, ma coloro che non sanno usarle bene […] Non è dunque la ricchezza che è condannata, ma l’attaccamento ad essa.
Ambrogio, Commento al Vangelo di Luca, 5-6
Tolle superbiam: divitiae non nocebunt
Agostino, Discorsi sul Nuovo Testamento, Sermone 4
A questo deve giovarti la ricchezza: a non aver difficoltà nel fare elargizioni.
Agostino, Discorsi sul Nuovo Testamento, Sermone 36
… La ricchezza ha forse un’altra origine che non sia, in primo luogo, l’ingiustizia e la rapina? Posso dimostrarlo a partire, innanzitutto, da questa argomentazione: quasi tutti coloro che vediamo diventare ricchi, da poveri che erano, sappiamo che non possono riuscirci senza commettere qualche ingiustizia, o qualche rapina. […] Dunque: ti sembra giusto che uno trabocchi del superfluo, mentre un altro manca di quanto è necessario per la vita quotidiana? […] Vediamo che soprattutto i malvagi hanno ricchezze in abbondanza, mentre i buoni soffrono le miserie della povertà…
Pelagio, La ricchezza, 7, 2-5; 8,1
…ciò che si ha, reputarlo come bene comune del monastero, non come proprio…
Regola di San Benedetto, cap. 33, v. 6
Questa è la loro eresia. Essi dicono che la chiesa è soltanto presso loro, al punto che essi seguono con coerenza le orme del Cristo e rimangono i veri imitatori della vita apostolica, perché non cercano le cose che sono del mondo, non possedendo case, né campi né proprietà: così come Cristo non fu padrone di niente, neanche ai suoi discepoli è concesso di averne…
Evervino di Steinfeld, Epistula ad S.Bernardum de haereticis
sui temporis
Costoro mai hanno dimore stabili, se ne vanno due a due a piedi nudi, vestiti di lana, nulla possedendo, ma mettendo tutto in comune come gli apostoli, seguendo nudi il Cristo nudo. Iniziano ora in modo umilissimo, perché stentano a muovere il piede; ma qualora li ammettessimo, ne saremmo cacciati.
Walter Map, De Nugis Curialium
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