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Una teoria da ripensare?

Sul rapporto tra ricchezza finanziaria e ricchezza reale nell'epoca della speculazione


Ricchezza reale e ricchezza finanziaria
Immagine: Zanny Begg & Oliver Ressler, The Bull Laid Bear, 24 min., HD, 2012

Per capire le cause e le implicazioni del processo di finanziarizzazione dell’economia che ha luogo nel XXI secolo, Andrea Pannone riflette su come le scuole di pensiero neoclassiche e di ispirazione marxista impostano la distinzione tra ricchezza reale e ricchezza finanzaria. Se entrambi gli approcci riconoscono che i diritti finanziari dipendono dal sottostante materiale, in un contesto di inflazione finanziaria le due diverse forme di ricchezza mostrano andamenti progressivamente divergenti. Quali sono le motivazioni? Sta cambiando la direzione della relazione?


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Ricchezza reale e ricchezza finanziaria nelle teorie economiche

La distinzione tra ricchezza reale e diritti finanziari sulla ricchezza reale (ricchezza finanziaria) è una premessa fondamentale dell’economia politica, riconosciuta sia dalle scuole di pensiero neoclassiche che da quelle di ispirazione marxista. Nonostante la radicale differenza con cui i due approcci teorici vedono la relazione tra le due forme di ricchezza nell'economia[1], entrambi sono accomunati dal riconoscimento del fatto che i diritti finanziari dipendono dalla ricchezza reale sottostante, poiché rappresentano pretese legali su beni e servizi tangibili o sui flussi di reddito generati da essi. Questa relazione di dipendenza, però, diventa molto meno chiara in contesti di inflazione finanziaria – ossia di crescita continua dei prezzi degli asset finanziari (titoli, azioni, ecc.) – e speculazione eccessiva, allorché le due forme di ricchezza mostrano andamenti progressivamente divergenti a partire dagli anni ʼ90[2]. Questo impedisce ad entrambe le scuole di pensiero di spiegare adeguatamente le cause e le implicazioni del processo di finanziarizzazione dell’economia che ha luogo nel XXI secolo e che ha portato quella divergenza a livelli parossistici, accrescendo enormemente le diseguaglianze distributive (vedi Piketty 2014)[3]. Osserviamo infatti che i guadagni derivabili da questi asset non hanno propriamente la natura di redditi, almeno non come il concetto di reddito è sempre stato considerato nella letteratura economica ossia la controparte esatte del valore dei flussi di produzione. Per questo motivo la loro consistente e non temporanea espansione, che implica un trasferimento puro di moneta dai redditi dei fattori produttivi alle rendite, non sembra immediatamente riconducibile né al concetto di legittima ricompensa della produttività dei fattori di produzione – come vorrebbe la scuola neoclassica – ma nemmeno al concetto di sfruttamento dei lavoratori e al conflitto capitale/lavoro – come vorrebbero le più classiche scuole di ispirazione marxista[4].

 

Keynes e i suoi epigoni

Osserviamo poi che la crescita esponenziale dei prezzi degli asset finanziari implica che una consistente massa di risorse liquide si traduce in una loro continua richiesta, a fronte tuttavia di una scarsa riproducibilità della loro offerta[5], e genera così l’aumento del loro valore in intervalli di tempo molto brevi (anche inferiori al giorno). Ciò favorisce, anche con l’aiuto della leva finanziaria[6],  le condizioni per scommesse speculative e per il rafforzamento dei mercati dove si attuano tali scommesse, premessa indispensabile per la formazione di enormi patrimoni finanziari. Keynes, tra i primi economisti, aveva compreso che la moneta non serve solo a finanziare le transazioni produttive e l’inflazione delle merci prodotte ma anche, oltre a motivi precauzionali, per acquistare asset finanziari con lo scopo di lucrare sulla differenza tra i prezzi a cui sono acquistati e venduti, anticipando l’opinione media dei soggetti che intendono fare lo stesso (vedi l’esempio del beauty contest, in Keynes 1936, p. 154-155). Ad ogni modo, l’analisi di Keynes assume la preferenza per la liquidità come data e trascura gli effetti che l’aumento della domanda di moneta per motivi speculativi potrebbe avere sulla produzione a causa della contrazione simultanea dei flussi di spesa. Questo rende il semplice schema keynesiano scarsamente utile per comprendere perché il valore degli asset finanziari potrebbe discostarsi progressivamente dal valore della produzione, portando a una disconnessione tra la crescita dei mercati finanziari e l'andamento dell'economia reale[7]

La limitazione di Keynes è teoricamente risolvibile adottando una prospettiva di analisi intertemporale e introducendo la presenza sistematica dell’intervento statale realizzato in deficit, secondo l’insegnamento degli epigoni di Keynes seguito da molti governi moderni fino alla fine degli anni ʼ70. In questo modo il deficit di bilancio poteva svolgere funzioni di stimolo della domanda neutralizzando le spinte recessive indotte dal tesoreggiamento (Bruno 2024)[8]. Rimane tuttavia impossibile, all’interno di questo schema, spiegare perché la ricchezza di natura finanziaria dovrebbe tendere a divergere crescentemente dalla ricchezza reale.

 

Saving glut e non sazietà della ricchezza

Un estremo tentativo per fornire una spiegazione di tipo keynesiano all’interno della medesima prospettiva intertemporale di analisi è quello di interpretare l’ipotesi di saving glut (ossia di un eccesso di risparmio), posta in rilievo per la prima volta dal governatore della FED Bernanke nel 2005[9], come un fenomeno che permane a prescindere dalle decisioni di fare deficit pubblici e che non è riassorbibile dalla riduzione (anche molto forte) del tasso di interesse, come vorrebbero invece i modelli neoclassici. Una strada simile è seguita da Sergio Bruno (2024), che espandendo l’analisi di Tobin[10], riconduce il fenomeno dell’eccesso non temporaneo di risparmio sugli investimenti produttivi – e quindi il motivo per cui la liquidità si riversi in prevalenza sugli asset finanziari anziché sulla produzione e sull’attività innovativa – al concetto di «non sazietà della ricchezza», principio di antica derivazione filosofica che si riferisce alla continua aspirazione degli individui e delle istituzioni ad aumentare il loro patrimonio, spesso al di là delle necessità di consumo o sicurezza economica. Tale concetto, che travalica le motivazioni psicologiche alla base della preferenza per la liquidità a cui si riferiva Keynes, si sarebbe rafforzato negli ultimi decenni per effetto del prevalere di un’ideologia che esalta i meccanismi di mercato come mezzo per rispondere ai bisogni, come anche dell’espansione dell’offerta privata di impieghi quali le borse valori, le offerte finanziarie speculative, le assicurazioni, i fondi pensione e i fondi di investimento. Sebbene la tesi di Bruno contenga elementi di indubbio interesse, essa non è in grado di connettere adeguatamente l’aumento generale della propensione al tesoreggiamento alle profonde trasformazioni del meccanismo di accumulazione capitalistica nel XXI secolo. Ciò gli impedisce di comprendere appieno le reali dinamiche di potere che sono al cuore dei processi di finanziarizzazione dell’economia. In questa direzione si muove il mio tentativo di spiegazione.

 

Eccedenza di capacità produttiva e inflazione finanziaria

La nostra interpretazione del processo di finanziarizzazione inizia con una osservazione empirica relativa all’economia reale. A partire dalla fine degli anni ’90, l’esistenza di eccessi di capacità produttiva oltre il livello considerato «normale» – pur tenendo conto delle sue difficoltà di misurazione statistica – è un tratto chiaramente riconoscibile nella maggior parte delle industrie che operano globalmente (siderurgia, automobili, elettronica di base, ecc.). Nelle due decadi successive questa eccedenza tende a protrarsi nel tempo fino a diventare quasi strutturale praticamente in tutte le più importanti economie del pianeta: non solo negli Usa, nella maggior parte dei paesi europei e in Giappone, dove la media si attesta intorno al 73/74%, ma anche nei paesi emergenti comprese Cina, India, alcuni paesi dell’Europa Orientale e Brasile (vedi Crotty 2002 e 2017, Lavoie 2016, Gahn 2022, Nikiforos 2021, Guo et al 2022). Alla generalizzazione di questo fenomeno ha contribuito sicuramente il modello di produzione che si è affermato nel XXI secolo per effetto del processo di globalizzazione. Tale modello, costituito da nodi produttivi distribuiti in diverse parti del mondo che collaborano in modo sinergico per produrre i beni o i servizi finali, fa si che uno squilibrio che si determina a valle della catena del valore si trasmetta in sequenza a tutti gli altri nodi, diramando e amplificando lo squilibrio su tutte le economie del pianeta. In questo modo l’eccesso di capacità produttiva che si determina nelle economie del centro capitalistico diventa rapidamente un eccesso di capacità in quasi tutte le economie periferiche.

Tutto ciò, differentemente da quanto si potesse pensare, non ha implicato che le macchine (del tutto o in parte) inoperose si deteriorassero nel tempo sino a distruggersi, eliminando la capacità in eccesso. Come ha ben sottolineato Andrea Fumagalli (2024) nella recensione al mio libro Che cos’è la guerra? (Pannone 2023), dove sviluppo diffusamente questo argomento, la ragione risiede nella nuova forma che il fattore produttivo capitale ha progressivamente assunto. Dal 1985, l’indice azionario S&P500 (che raccoglie le 500 corporation americane a più elevata capitalizzazione di borsa) ha rilevato che la quota di capitale intangibile (brevetti, R&S, brand, formazione, comunicazione, ecc.) ha per la prima volta superato il capitale tangibile, quello dei macchinari, dei mezzi di trasporto, dei fabbricati. Tale dinamica è stata favorita dalle caratteristiche del nuovo paradigma tecnologico dell’ICT, basato non più su tecnologie meccaniche, ripetitive e statiche (produzione a stock) ma piuttosto su tecnologie linguistiche e comunicative e dinamiche (produzione a flussi). Ciò che diventa importante non è più solo la proprietà dei mezzi di produzione ma sempre più la proprietà intellettuale (controllo della generazione e della diffusione di conoscenza) insieme alla governance dei flussi finanziari, come nuova fonte di finanziamento e di valorizzazione. La flessibilità del fattore produttivo capitale induce quindi, anche in virtù di una serie di innovazioni nel campo del credito bancario, al noleggio più che all’acquisto, in modo da proteggere le imprese dai rischi di deterioramento fisico[11] e di obsolescenza tecnologica, questi ultimi sempre più accentuati dalle trasformazioni innescate dalla rivoluzione digitale. Ad ogni modo, la rata di affitto dei beni capitali rappresenta un costo fisso per l'impresa. Questa rata deve essere pagata regolarmente alla banca, come stabilito nel contratto di noleggio, per tutto il tempo in cui il capitale rimane in uso, indipendentemente dal livello di produzione o dalle vendite. Se le vendite dell'impresa sono inferiori alle previsioni, il costo fisso della rata di affitto viene distribuito su un numero inferiore di unità prodotte e vendute e l’impresa deve usare propri fondi o contrarre nuovi debiti per onorare l’impegno. Una capacità produttiva prolungatamente in eccesso rispetto al livello ritenuto normale, quindi, implica costi unitari sistematicamente al di sopra del livello minimo e un flusso di profitti più basso di quello atteso in base agli investimenti realizzati[12]. Questo determina un peggioramento delle aspettative delle imprese che le spinge a diversificare il loro portafoglio di investimenti verso l’acquisto di attività finanziarie, contribuendo ad aumentarne il loro valore e a gonfiare bolle speculative sui principali mercati borsistici mondiali, dove i capitali finanziari possono circolare liberamente dagli anni ’90 in ossequio alla filosofia del Washington Consensus. In questo modo i profitti derivati dalle attività finanziarie permettono di compensare (o più che compensare) il calo dei profitti derivanti da un’attività produttiva sempre più stretta dall’alternarsi di fasi di recessione, rallentamento e stagnazione. Dopo due forti crisi finanziarie (quella che segue al crollo delle quotazioni del NASDAQ nel marzo 2000, e quella che segue al crollo dei mutui subprime nel 2007) il valore delle attività finanziarie riprende a crescere stabilmente e i profitti da esse derivati si attestano negli ultimi 15 anni intorno al 25/30% di tutti i profitti delle imprese statunitensi.

 

Buyback e centralizzazione della ricchezza finanziaria

L’imponente crescita dei valori azionari che si verifica dopo il 2008 (ad esempio, tra il 2008 e il 2022, S&P Index + 200%, NASDAQ +500%), ha potuto beneficiare:

  1. dell’enorme disponibilità di credito a buon mercato resa possibile dalle politiche di «allentamento quantitativo» delle banche centrali adottate per rilanciare l’economia dopo la crisi finanziaria;

  2. del fatto che una quota considerevole di questa liquidità si sia tradotta in operazioni di buyback, ossia di riacquisto delle proprie azioni finalizzate a sostenere i corsi azionari, a rendere attrattivi nuovi acquisti dei propri titoli e a ottenere capital gain[13]


Più precisamente, i programmi di buyback, estremamente vantaggiosi anche dal punto di vista della tassazione[14], alimentano un’enorme crescita di profitti per gli azionisti poiché il numero di azioni in circolazione viene ridotto, facendo aumentare il valore per azione e attraendo una moltitudine di operatori finanziari, anche in virtù dell’ampia estensione a soggetti scarsamente solvibili del credito e della possibilità di indebitarsi a leva (vedi nota 6). Gli azionisti delle imprese maggiormente coinvolte in questi programmi sono spesso le grandi istituzioni finanziarie, i fondi di investimento e altri investitori istituzionali. Di conseguenza, queste entità hanno aumentato la loro quota di proprietà nell'azienda, rafforzando il loro controllo e influenzando le decisioni aziendali attraverso il voto in assemblea e altre modalità (votazioni non vincolanti, attivismo degli azionisti, comunicazioni e incontri, ecc.). Inoltre, i top manager e altri dirigenti aziendali hanno potuto aumentare enormemente i loro compensi basati sulla crescita dei valori azionari, esasperando ulteriormente il divario tra i loro redditi e quelli del resto della popolazione. Questo ha portato a una concentrazione ancora maggiore del controllo nelle mani dei principali azionisti e dei dirigenti, a scapito di una distribuzione più equa del potere decisionale e dei benefici aziendali[15]. Il processo si realizza ora a prescindere dalla dinamica competitiva tra imprese più forti e meno forti (vedi sopra) e corre in parallelo al meccanismo di estrazione del valore basato sulla produzione. Quel meccanismo, infatti, viene fatto oggetto di un vero e proprio «sabotaggio strategico», in quanto le risorse da destinare ai buyback e altre attività speculative (futures sulle materie prime, valute, metalli preziosi, ecc.) vengono distratte dagli investimenti produttivi, anche nei settori/imprese con maggiore attitudine all’innovazione (vedi Turco 2018, Lazonick 2023). I guadagni così ottenuti, spesso parcheggiati in paradisi fiscali e normativi off shore in attesa di vantaggiosi impieghi, vengono utilizzati per acquisire i pacchetti azionari di una miriade di imprese – a volte in competizione tra loro sugli stessi mercati reali ‒ attraverso artifici finanziari simili alle scatole cinesi.

In sostanza, ci troviamo sempre più in presenza di un modello di produzione dove la logica dell’accumulazione pecuniaria, governata da un numero estremamente ridotto di soggetti economici, prevale su quella produttiva. Il fine della centralizzazione non è più tanto, dunque, l’accumulazione del capitale a fini di profitto quanto l’accentramento del controllo a fini di accumulazione di potere. Lo stesso potere che consente loro di condizionare le decisioni dei governi e i provvedimenti legislativi che stimolano (anche forzatamente) la migrazione del risparmio verso le attività finanziarie e il sostegno alla loro performance, come visto ad esempio nel caso delle riforme al sistema pensionistico/assicurativo[16] o della normativa sui buyback (vedi nota 14). Ad ogni modo, nessun business finalizzato all'accumulazione di capitale pecuniario potrebbe vivere senza che si continui ad accumulare, almeno in qualche misura, capitale fisico per produrre beni. Il «sabotaggio», ossia il drenaggio di risorse a detrimento delle attività di investimento produttivo/innovazione, non può quindi estendersi oltre certi limiti in quanto senza la sfera della produzione il capitalismo stesso non potrebbe esistere. Questo è particolarmente vero in relazione a comparti come le tecnologie digitali, l’energia, la farmaceutica e la difesa; sia per la loro rilevanza strategica sia per la loro capacità di attrarre le scommesse degli operatori finanziari sui loro asset, trascinando nel gran bazar, attraverso i fondi che amministrano i loro patrimoni, anche milioni di piccoli risparmiatori[17]. Per altri settori industriali, invece, quali quelli orientati alla produzione di beni di consumo che un tempo dominavano l’economia globale (ad esempio produzione di automobili, elettrodomestici, industria tessile, industria alimentare, ecc.), persistenti problemi di sovracapacità, aggravati dagli effetti depressivi della fase pandemica, hanno influito sicuramente sulla decisione delle imprese di ridurre gli investimenti e l'innovazione, concentrando l’attenzione sulla gestione degli impianti produttivi sottoutilizzati e sulla riduzione dei costi per rimanere competitive, come anche su vigorosi tentativi di estorcere incentivi ed agevolazioni ai governi attraverso il ricatto occupazionale. È probabile allora che questi settori riescano a trascinare la loro esistenza in vita o a mantenere una qualche rilevanza (sebben ridotta) solo fino al punto in cui la logica dell’accumulazione pecuniaria abbia ancora l’opportunità di nutrirsi del loro valore.

 

Conclusioni 

In conclusione, la sempre più strutturale incapacità delle economie moderne di sfruttare il potenziale produttivo che esse stesse costruiscono si riversa sull’espansione abnorme dell’economia monetaria e finanziaria, «con una forza e una velocità in grado di travolgere regole, programmazioni, dati reali e dunque di cancellare la prerogativa del mercato di svolgere la propria funzione di attribuzione più o meno coerente del valore» (Volpi 2024). Una ristretta cerchia di interessi economici dispone oggi di un potere in grado di scandire i ritmi e la direzione di questo processo.  Ciò accresce inesorabilmente i fattori di instabilità e fragilità dei sistemi economici. Non è un caso che nel corso degli ultimi tre decenni i fattori di crisi siano più legati alla finanziarizzazione della produzione che alla struttura produttiva stessa. Se nel fordismo la crisi era originata da sovra-produzione o da sotto-consumo per poi trasmettersi al credito e alla finanza, ora avviene il contrario, segnando un radicale cambiamento della relazione tra ricchezza finanziaria e ricchezza reale che ha caratterizzato l’economia politica sin dai suoi albori.

 


Bibliografia

 L. Bebchuk ‒ H. Scott, The Specter of the Giant Three, «Boston University Law Review», Vol. 99, pp. 721-741, Harvard Law School John M. Olin Center Discussion Paper No. 1004, European Corporate Governance Institute (ECGI) - Finance Working Paper No. 608/2019,.

 B. Bernanke, The Global Saving Glut and the U.S. Current Account Deficit, Sandridge Lecture, Virginia Association of Economists, Richmond, Virginia, March 10, 2005, Federal Reserve Bank

 S. Bruno, Il migliore dei mondi, Sbilanciamoci, 17 agosto 2017

J. Crotty, Why There Is Chronic Excess Capacity, «Challenge», 45:6, 21-44, 2002.

J. Crotty, Capitalism, Macroeconomics and Reality: Understanding Globalization, Edward Elgar, Northampton MA, USA 2017.

S. Gahn, Towards an explanation of a declining trend in capacity utilisation in the US economy, Post Keynesian Economics Society (PKES) 2022.

J. Guo ‒ H. Dong ‒ H. Farzaneh ‒ Y. Geng ‒ C. Reddington(2022), Uncovering the overcapacity feature of China's industry and the environmental & health co-benefits from de-capacity, Journal of Environmental Management, Volume 308.

 J.M. Keynes, The General Theory of Employment, Interests and Money. Macmillan, London 1936.

 M. Lavoie, Convergence Towards the Normal Rate of Capacity Utilization in Neo-Kaleckian Models: The Role of Non-Capacity Creating Autonomous Expenditures, «Metroeconomica», 67 (1), pp. 172-201, 2016.

 A. Pannone, Che cos’è la guerra? La logica dei conflitti capitalistici tra XX e XXI secolo, DeriveApprodi, Bologna 2023.

 T. Piketty, Le capital au XXI siécle, Paris, Seuil. English translation (2014) Capital in the twenty-first century, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 2013.

 J. Tobin J., Money and Finance in the Macro-economic Process, Nobel Memorial Lecture, 8 December 1981

A. Volpi, I padroni del mondo. Come i fondi finanziari stanno distruggendo il mercato e la democrazia, Editori Laterza, Bari 2024.

 

 

Note

[1] In termini brutalmente sintetici: le scuole di matrice neoclassica vedono la ricchezza finanziaria come una rappresentazione e un facilitatore della ricchezza reale, dove i mercati efficienti assicurano che i valori finanziari riflettano il valore dei beni e servizi reali, garantendo un'allocazione ottimale delle risorse. I marxisti, invece, considerano la ricchezza finanziaria come una forma di capitale (capitale fittizio) che, pur derivando dalla ricchezza reale, tende a staccarsi da essa e a favorire la speculazione e l'accumulazione di capitale, esacerbando le disuguaglianze e creando instabilità economica (vedi nota 4).

[2] Nel 1980, il valore delle attività finanziarie a livello mondiale era grosso modo equivalente al PIL mondiale. Nel 2007 questo valore era cresciuto notevolmente, raggiungendo il 356% del PIL mondiale, come evidenziato dal rapporto di McKinsey. Oggi, il rapporto tra attività finanziarie globali e PIL mondiale (world financial depth) continua a essere elevato, anche se ci sono variazioni significative tra i diversi rapporti e metriche. Secondo un rapporto del Fondo Monetario Internazionale (FMI), il rapporto tra attività finanziarie globali e PIL mondiale è rimasto molto alto, intorno al 300% negli ultimi anni, nonostante alcune fluttuazioni legate a crisi finanziarie e variazioni economiche globali. Il Global Financial Stability Report dell’FMI del 2023 evidenzia come la profondità finanziaria globale sia stata testata da condizioni finanziarie più restrittive e da un aumento dell'inflazione, ma non specifica un dato preciso per il 2023. Tuttavia, il trend generale suggerisce che la proporzione delle attività finanziarie rispetto al PIL mondiale rimane elevata

[3] In letteratura molti autori hanno usato il termine «finanziarizzazione» per descrivere (almeno alcuni degli) aspetti descritti in questo articolo. Ad ogni modo i contributi sono piuttosto disomogenei e privi di una visione coerente di ciò che deve essere spiegato (Krippner 2005, p. 181). Infatti, come sostengono giustamente (Carnevali et al. 2022), a distanza di molti anni – gli albori della finanziarizzazione sono già riconoscibili a partire dalla fine degli anni ’70 ‒ manca tutt’ora un’interpretazione univoca del concetto.

 [4] Nel 29-esimo capitolo del terzo libro del Capitale (1894) Marx riconosce in effetti che la quotazione dei titoli – capitalizzazione di borsa ‒ viene regolata indipendentemente dal valore del capitale effettivo che questi titoli, almeno in parte, rappresentano. Dunque, quando questi titoli non rappresentano capitale effettivo ma soltanto dei semplici diritti sui proventi futuri, il diritto su uno stesso provento si traduce in capitale monetario fittizio, soggetto a continue oscillazioni. Tuttavia, queste oscillazioni possono discostarsi significativamente dal valore del capitale effettivo, che per Marx dipende dal valore-lavoro, solo per un tempo limitato. Dopodiché, spesso per effetto di una crisi finanziaria, la capitalizzazione di borsa tenderà a riallinearsi. «The fiction of fictitious value cannot be maintained indefinitely. At some unknown time in the future, prices will have to return to a rough conformity with values [. . .]» (Perelman, Michael. 1990. The Phenomenology of Constant Capital and Fictitious Capital. Review of Radical Political Economics, Vol. 22, Nos. 2-3, p. 83).

 [5] Solo una parte molto esigua delle transazioni finanziarie di un anno, infatti, riguarda nuovi titoli industriali emessi per finanziare nuovi investimenti in innovazioni e capitale produttivo. Il resto consiste nel cambiamento dei proprietari (anche solo frazionari) di un capitale già formato nel passato (vedi Bruno 2024). «Taluni beni che entreranno a far parte degli stock di ricchezza possono essere “flussi prodotti”, come ad esempio delle case, ma solo se si tratta di case la cui produzione è ultimata nello stesso anno e il loro valore viene depurato del valore del suolo su cui sorgono. Il suolo è infatti qualcosa che “esiste” e non è prodotto. Si tenga comunque presente che le case prodotte e vendute in ciascun anno sono di solito una piccola frazione di tutte le compravendite di case nello stesso anno». (Bruno 2017)

 [6] La Consob spiega così il concetto: «ipotizziamo di avere 100 € a disposizione da investire in un titolo.  Poniamo che le aspettative di guadagno o perdita siano pari al 30%: se le cose vanno bene, avremo 130 €, in caso contrario, avremo 70 €. Questa è una semplice speculazione in cui scommettiamo su un determinato evento. Nel caso in cui decidessimo di rischiare di più investendo, oltre ai nostri 100 €, anche altri 900 € presi in prestito, allora l'investimento assumerebbe un'articolazione diversa poiché utilizziamo una leva finanziaria di 10 a 1 (investiamo 1000 € avendo un capitale iniziale unicamente di 100). Se le cose andranno bene e il titolo sale del 30%, riceveremo 1300 €, restituiamo i 900 presi in prestito con un guadagno di 300 € su un capitale iniziale di 100. Otteniamo, quindi, un profitto del 300% con un titolo che in sé dava un 30% di rendimento». Ringrazio Sergio Bruno per avermi indicato questo riferimento.

 [7] D’altra parte, per l’economista di Cambridge, questa elusione rappresenta una strada obbligata. Data la capacità produttiva presente nell’economia, infatti, se la preferenza della liquidità riducesse la domanda aggregata si determinerebbe ex post un eccesso di risparmio sugli investimenti produttivi incompatibile con l’equilibrio keynesiano di breve periodo, ambito logico in cui è confinata sua teoria.

 [8] Osserviamo che in teoria il tesoreggiamento non coincide esattamente con la preferenza della liquidità. Mentre il primo si riferisce alla pratica di accumulare e trattenere denaro o altre risorse liquide senza intenzione immediata di spenderle o investirle, la preferenza della liquidità introdotto da Keynes è un concetto più ampio che riflette una strategia di gestione del rischio e una predisposizione alla sicurezza finanziaria. Ad ogni modo, dal punto di vista che rileva nel nostro discorso, non fa differenza che la moneta sia tenuta da un individuo sotto il materasso o dia luogo a depositi bancari ma il fatto implicito che il loro flusso non si riversi per intero nel finanziamento degli investimenti reali.

 [9] L'ipotesi di saving glut formulata da Ben Bernanke nel 2005 sosteneva che alcune economie, soprattutto quelle emergenti come la Cina, hanno accumulato, per effetto di un forte avanzo delle partite correnti nei confronti degli Stati Uniti,  un eccesso di risparmi rispetto alle loro opportunità di investimento interno. Questo surplus di risparmio è stato investito nei mercati finanziari delle economie avanzate, abbassando i tassi di interesse a lungo termine e alimentando la crescita di asset finanziari e bolle speculative. Questo afflusso di capitali ha contribuito agli squilibri globali delle partite correnti e ha creato una crescente divergenza tra ricchezza finanziaria e reale, portando infine a una maggiore vulnerabilità economica.

 [10] Osserva Bruno (2024) che, nel suo discorso in occasione del conferimento del premio Nobel nel 1983, Tobin coglie bene il fatto che il formarsi di riserve liquide è la premessa per l’acquisto di ulteriori ricchezze patrimoniali già esistenti, seguendo principi di differenziazione di portafoglio. Ad ogni modo, nel suo modello del 1981, Tobin considera bond e moneta come rappresentativi di tutta la «ricchezza di carta». Questo gli impedisce, secondo Bruno, di vedere come la liquidità si trasformi nel tempo in domanda di titoli, azioni, beni immobiliari, ecc., che hanno per loro natura valori e rendimenti variabili in dipendenza della domanda monetaria che li riguarda. 

 [11] I contratti di noleggio generalmente includono la manutenzione, il che garantisce che i beni siano mantenuti in condizioni ottimali. Questo riduce i costi imprevisti per l'impresa e garantisce che i macchinari siano sempre produttivi. A livello complessivo questo limita radicalmente il fenomeno della distruzione delle macchine per bassa utilizzazione.

 [12] Pur con tutte le loro imperfezioni, l’osservazione congiunta del ROA (Return on asset), del ROAA (Return on Operating asset) e del ROIC (Return on Invested Capital) favorisce una valutazione sufficientemente precisa del flusso di profitti in relazione al potenziale produttivo delle imprese. Ebbene, con riferimento agli Stati Uniti tutte e tre le metriche presentano trend simili caratterizzati da un evidente declino negli ultimi 47 anni. Ad ogni modo solo dopo le trasformazioni della tecnologia e del credito (a partire dagli anni ’90 più o meno) diventa possibile evitare la distruzione fisica degli asset produttivi scarsamente utilizzati e rendere cronico l’eccesso di capacità/capitale a livello aggregato che viene rilevato a livello empirico.

 [13] Dal 2009 al 2017, secondo i calcoli di Artemis asset Management, le sole aziende americane hanno riacquistato in Borsa azioni proprie per un totale di 3.800 miliardi di dollari. Nel 2019 i buyback del complesso delle aziende americane ammontavano a più di 800 miliardi di dollari. Nel 2021, il 68% di tutti i riacquisti dell’S&P 500 sono stati effettuati dai 50 maggiori «riacquistatori», che hanno anche ottenuto il 34% dei ricavi dell’S&P 500 e il 45% dei profitti, pagando il 28% dei dividendi. Nel 2022, i riacquisti di azioni proprie dell’S&P 500 hanno raggiunto un nuovo record di 923 miliardi di dollari, prima di diminuire nella prima metà del 2023 in seguito all’aumento dei tassi di interesse (Lazonik 2023). Ad ogni modo, secondo le stime degli analisti di Deutsche Bank, nel 2024 le operazioni di buback, relative al mercato Usa, potrebbero raggiungere complessivamente la cifra record di mille miliardi di dollari; analoga tendenza in crescita è attesa anche in altri paesi occidentali tra cui l’Italia.

 [14] Negli Stati Uniti, fino al luglio del 2019, le società quotate in borsa non pagavano alcuna imposta su di essi, rendendo estremamente più conveniente per gli azionisti l’operazione di riacquisto rispetto al pagamento dei dividendi, soggetti a tassazione alla stregua di redditi da capitale (con aliquota fino al 35%). Successivamente, l’Amministrazione Biden ha elevato l’imposta al 4%, attraverso l’Inflation Reduction Act (IRA), una legge approvata nel 2022. Come visto nella nota precedente, però, le aziende statunitensi continuano a ricorrere questa pratica in modo estremamente significativo.

[15] Vanguard, BlackRock e State Street Global Advisor sono i 3 maggiori Fondi di investimento del mondo controllano quasi il 90% delle società in cui la maggior parte degli operatori di borsa investono. Per dare un’idea, nello S&P 500 si rinvengono sia vecchi giganti della «Old economy» quali: ExxonMobil, General Electric, Coca-Cola, Johnson & Johnson,J.P. Morgan; sia tutti i nuovi giganti dell’Era Digitale: Alphabet-Google, Amazon, Facebook, Microsoft e Apple. I manager delle tre Big, di fatto, detengono circa il  5% delle azioni di tutte le corporation comprese nell'indice menzionato ma rappresentano il 25% dei voti nelle assemblee direttive delle imprese in questione. Questo permette loro di essere azionisti dominanti in tutte le più importanti company americane, soprattutto in quelle ad azionariato diffuso e senza un azionista di controllo (si veda Bebchuk e Scott 2019). Inoltre, data la loro grande disponibilità di risorse liquide ‒ solo Vanguard e BlackRock gestiscono patrimoni per un valore pari ad un quinto dell’intero Pil mondiale (vedi Volpi 2024) ‒esse possono rifornire le aziende che controllano di enormi risorse per portare a termine qualunque tipo di operazione finanziaria.

[16] I fondi pensione in Italia sono stati istituiti ufficialmente nel 1993 con la Legge n. 124 che riformava il sistema previdenziale e, successivamente, hanno subito diverse riforme per migliorarne l’efficacia e promuovere la partecipazione. Oggi i fondi pensione italiani dispongono di 170 miliardi di euro e le riserve tecniche delle assicurazioni di 900. Gran parte di queste gigantesche somme sono destinate a strumenti finanziari prodotti negli Stati Uniti in nome di un minor rischio e di un maggior rendimento. Questo significa che i colossi come Vanguard, Black Rock, State Street e alcuni altri giganti finanziari attraggono e attrarranno in misura crescente il risparmio globale, compreso quello italiano.

 [17] Evidente è il caso di un settore quale l’IA, sicuramente di grande importanza strategica, che viene spinto dalle enormi iniezioni di liquidità delle big Three, come anche dal continuo racconto della nuova «rivoluzione tecnologica», rilanciato dalle piattaforme e dai media di proprietà di Vanguard, Black Rock e State Street, che rafforza la bolla e condiziona in profondità l'immaginario dei risparmiatori sull’assoluta indispensabilità di questa tecnologia.


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Andrea Pannone è economista, esperto nell'analisi dei processi di innovazione tecnologica e dei loro riflessi a livello micro e macroeconomico. Si è laureato con lode e ha conseguito il dottorato in Scienze Economiche all'Università La Sapienza. Docente in diversi master, è autore di pubblicazioni nazionali e internazionali. Ha pubblicato per DeriveApprodi Che cos'è la guerra? La logica dei conflitti capitalistici tra XX e XXI secolo (2024).

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