In occasione del 25 aprile quest’anno un dibattito si impone. Il tema è ovviamente riguarda i possibili accostamenti tra quello che è accaduto in Italia tra il 1943 e il 1945 e quello che sta accadendo in Ucraina a seguito dell’abominevole aggressione russa.
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L’Anpi dichiarandosi contro l’invio di armi da parte del governo italiano a sostegno di quello di Zelensky ha già escluso ogni facile similitudine tra i combattenti schierati con quest’ultimo e i partigiani italiani operanti negli ultimi due anni della Seconda guerra mondiale. Ciò nonostante la tentazione di una simile associazione continua a riproporsi a livello dell’opinione dominante nel nostro paese trovando anche sostegni non scontati.
La prima domanda che sarebbe il caso di porsi è come mai ciò avvenga in occasione di questo conflitto, mentre niente di simile negli ultimi vent’anni è avvenuto in riferimento ad altre guerre di invasione e ad altre conseguenti reazioni armate da parte degli invasi, come accaduto ad esempio in Iraq, Libia, Siria, Yemen. Anzi, sarebbe da ricordare anche lo scandalo che travolse chi, a proposito della strage di Nassiriya di soldati italiani, tentò di giustificarla come atto di resistenza da parte del popolo iracheno invaso. Se ne dovrebbe concludere che la resistenza legittima sia solo quella condotta in nome di «valori occidentali»? In ogni caso, così certo non era per i partigiani italiani tra i quali primeggiava il riferimento alla vittoria sovietica sui nazisti a Stalingrado.
Ma a parte ciò, è senz’altro affrettata ogni analogia tra quello che è stato chiamato la «resistenza italiana» e quello che si suppone accada oggi in Ucraina. Per rendersene conto occorrerebbe ragionare sullo strano destino che nel nostro paese è toccato a questa parola «resistenza». Uno strano destino infarcito di equivoci. Ho scritto due libri nei quali mi dilungo in spiegazioni a questo proposito, ma evidentemente (nonostante che il primo sia stato citato persino da una ministra dell’interno durante una celebrazione ufficiale del 25 aprile) non hanno fatto notizia. O meglio non hanno fatto una notizia abbastanza potente da far vacillare il passaggio obbligatorio della narrazione rituale secondo la quale la Costituzione repubblicana nasce della Resistenza.
Tutto il problema si concentra su un punto cui fa cenno persino uno dei massimi esperti in materia. Claudio Pavone, nel suo celeberrimo saggio Una guerra civile. Un saggio storico sulla moralità della resistenza (Bollati Boringhieri, Torino 1991), sia pur a fatica, si trova infatti costretto a riconoscere «che il nome Resistenza è di origine francese e (...) in Italia è stato recepito solo post factum». Sarebbe a dire, né più, né meno, che chi questa supposta «resistenza» l’ha fatta davvero non la chiamava neanche così! E che è stata chiamata così solo quando si era già voltato pagina: quando cioè si trattava di reinventarsi la legittimità perduta di uno Stato già fascista e poco o nulla de-fascistizzato. Il tutto, per di più, inchinandosi alle strategie degli alleati angloamericani, i quali, loro sì, prediligevano la parola «resistenza», nonostante la sua origine francese, come notava appunto Pavone.
Per capire il perché di questa origine occorre rifarsi a un famoso discorso tenuto da De Gaulle il 18 giugno 1940 non per nulla da Radio Londra. In quell’occasione il generale francese chiamava a raccolta i resti del suo esercito sconfitto dall’invasione nazista. Obiettivo di fondo del discorso era eminentemente militare: far appello ai soldati non coinvolti col governo collaborazionista di Pétain al fine di organizzare azioni di disturbo e sabotaggio sotto la supervisione appunto degli alleati. È dunque da chiedersi come mai invece in Italia dopo l’8 settembre 1943 e lo sciogliersi dell’esercito italiano a nessuno venne in mente di chiamare alla «resistenza». L’ovvia risposta è perché, diversamente dalla Francia, l’Italia era stata e rimaneva in parte alleata dei nazisti, pienamente complice dei loro orrori, per cui restava priva non solo di un qualche credibile personaggio di spicco istituzionale come De Gaulle, ma anche di un esercito nemico di fascismo e nazismo anche se pur sconfitto e disperso come il suo. In Italia, sono stati i partiti antifascisti a rivendicarsi i custodi di una continuità democratica tale da ridurre il Ventennio a una semplice parentesi. Ma secondo le parole dello stesso notissimo leader comunista e partigiano Pajetta, questi partiti fino al 1943 erano ancora decomposti. Così se saranno capaci di resuscitare sarà perché ritroveranno vita all’interno delle bande partigiane che nel frattempo cominciavano a riunirsi. A partire dall’8 settembre 1943 saranno dunque queste ultime le uniche organizzazioni politiche autoctone in grado di costituire un’alternativa al collaborazionismo e all’attesa del progredire dell’invasione alleata. Un’invasione sì certo liberatoria rispetto al nazi-fascismo, ma pur sempre orchestrata altrove e secondo strategie non elaborate nel nostro paese.
Che le bande partigiane siano un evento singolare (sarebbe a dire né paragonabile ad alcun precedente antifascista, né omogeneo alle conseguenze repubblicane che le verranno attribuite), ma proprio per ciò eccezionalmente istruttivo è una delle tesi più controcorrente e contestate dei miei libri. Solo così comunque si può comprendere che i nostri partigiani, anche se – o meglio, soprattutto se – erano già stati militari o fascisti poi pentiti, si dovettero reinventare quasi tutto da zero, ispirandosi per lo più solo di quel poco che allora si poteva sapere dell’incredibile quanto entusiasmante vittoria di Stalingrado. Un riferimento fondamentale, quest’ultimo, che in tutta Europa favorì il formarsi di bande partigiane e tra di esse soprattutto quelle comuniste.
Ecco perché quella scatenata dai nostri partigiani nel corso della Seconda guerra mondiale è stata una guerra non solo irregolare, ma anche del tutto sorprendente. Ben distante cioè da quell’idea di resistenza proclamata da De Gaulle e intesa dagli alleati angloamericani come azioni di sabotaggio e disturbo compiute da squadre di guastatori senza alcuna ambizione politica. Ed ecco anche perché gli stessi alleati angloamericani dimostrarono spesso molte diffidenze rispetto a questa «resistenza»: arrivando ad esempio fino al famoso proclama con quale il generale Alexander nel novembre 1944, annunciando la sospensione delle ostilità, sia pur indirettamente lasciava mano libera a fascisti e nazisti nel perseguitare i partigiani. Ciò che non si perdonava alla «resistenza italiana era in effetti il non dichiararsi, né volersi tale e il suo ambire a molto di più: a rifare daccapo il proprio paese, e non certo in ossequio a quelle strategia angloamericane le quali in funzione anticomunista, e specie per opera di Churchill, non esclusero mai e poi, a guerra finita, effettivamente consentirono il riciclo di personaggi e retaggi fascisti e nazisti.
Che significa tutto questo rispetto a quello che sta accadendo in Ucraina? Per rispondere adeguatamente dovrei avere informazioni che non ho (per le scarse conoscenze di cui personalmente dispongo rispetto alla storia e alla realtà ucraina e russa), ma che non è neanche facile avere, visto l’attuale arruolamento bellico di ogni fonte di informazione. Tuttavia due osservazioni per così dire di metodo non mi paiono fuori luogo.
La prima riguarda la stessa parola «resistenza», così come venne utilizzata dagli alleati, poi dallo stato repubblicano italiano, senza alcun rispetto per il linguaggio (e quindi dell’esperienza politica concreta) degli stessi partigiani. Anche prescindendo da tali difetti congeniti di questa parola «resistenza» , quando la si applica ai fatti italiani tra il 1943 e il 1945 , si allude comunque a un’attività paramilitare condotta da formazioni in guerra contro il governo in carica, allora la repubblica di Salò. Ecco allora una differenza radicale rispetto a quanto accade oggi in Ucraina, dove a mia conoscenza, non esiste alcuna iniziativa da parte di formazioni ucraine contro il governo Zelensky. Il che significa anche, per converso, che per potere parlare legittimamente di «resistenza ucraina», comparandola così con l’esperienza partigiana italiana, si dovrebbe avere notizia dell’esistenza di formazioni in guerra, non solo contro l’aggressione russa, ma anche contro gli eserciti di Zelensky. Una cosa questa che oggi in Italia e in gran parte dell’Europa, strette alleate come sono a fianco di quest’ultimo governo, sembra inverosimile. Ma che risulterebbe meno assurda se si volesse tenere conto di tutte le responsabilità che questo governo ha avuto e ha nel seguire le strategie Nato: sia molto prima dell’aggressione russa e dopo di essa. Strategie che, al di là di ogni giudizio, non si può certo dire abbiano fatto di tutto per demotivare tale aggressione e difendere la pace per il popolo ucraino. Strategie, che non è un segreto per nessuno, puntano a far durare questa guerra a tempo indeterminato allo scopo dichiarato di dissanguare tanto la potenza militare, quanto la già non florida economia della Federazione russa.
La seconda osservazione riguarda invece l’esperienza partigiana italiana, in quanto tale, nella sua singolarità, indipendentemente dalla sua etichettatura come resistenza. La domanda, da questo punto di vista è se si abbia notizia di qualcosa di simile in Ucraina a quella che fu la convinzione ampiamente diffusa tra i partigiani italiani di rifare daccapo il proprio paese. Gruppi dissidenti e movimenti alternativi nel paese aggredito dalla Russia pare non mancassero prima dell’aggressione e indipendentemente da essa. Movimenti e gruppi non certo convinti né che il governo Zelensky, né che lo Stato da lui governato fossero gli unici o i migliori possibili per il proprio paese. Ma fino a che punto hanno capacità di dire la loro e prendere iniziative politiche da quando questa terrificante guerra si è innescata? Solo rispondendo positivamente a questa domanda potremmo supporre che in Ucraina esista un fenomeno simile a quello che nell’Italia tra 1943 e il 1945 ebbe i partigiani a protagonisti. Per giungere a questo risultato occorrerebbe un’inchiesta militante molto accurata di cui non ho notizia e che nessuno mi pare neanche auspica.
Nell’opinione pubblica europea a prevalere in modo schiacciante sembra infatti essere invece la foga per un sostegno incondizionato a favore sia di Zelensky sia dello Stato da lui governato, nonostante tutti i loro difetti in termini di corruzione e di esplicito condizionamento militare oltre che economico da parte di quei paesi, Stati Uniti in testa, che insistendo con l’espansione della Nato a Est hanno offerto il destro alla comunque ingiustificata e orrenda aggressione russa.
Né giova ad aprire spiragli sul necessario ma assente dibattito su tutte queste questioni, la tesi spesso agitata secondo la quale nel mondo vigerebbe già un regime multipolare, come in fondo era al tempo della Seconda guerra mondiale, innescata appunto dalla delirante pretesa hitleriana di istituirvi un primato ariano assoluto, anche a costo di distruzioni, massacri e genocidi senza fine. Non è da dimenticare che la tesi di un multilateralismo già mondialmente vigente fu sostenuta con enfasi da Obama nel 2007 nel famoso discorso del Cairo, nonostante il persistere alla casa Bianca della convinzione che l’appena iniziato dovesse essere il secolo americano. Un paradosso, questo, solo apparente, dal momento che secondo l’ideologia americana unicamente la democrazia garantisce il pluralismo per cui unicamente il primato della «più grande democrazia» del mondo può garantirvi un pluralismo tra Stati e paesi.
Quest’ultimo indubbiamente resta un ideale cui puntare, ma occorrerebbe riconoscere, diversamente dalla retorica a stelle e strisce, che la realizzazione di tale ideale è incompatibile con qualsiasi primato nazionale, quale che ne sia l’ideologia governativa. Così bisogna anche ammettere che, nonostante l’ascesa della Cina e dell’India in campo economico e della Russia in campo militare, tutt’oggi il governo del mondo resta ancora appannaggio di una superpotenza, quella americana, appunto, la quale (con le sue ottocento basi militari sparse nel globo, un armamento pari circa alla metà del resto del mondo e tutta la schiera dei suoi numerosi vassalli) per quanto in declino non accetta il suo declassamento.
L’epoca in cui siamo calati è dunque caratterizzata da svariati tentativi di contrariare o viceversa favorire questo declino. Ma tutto il problema sta nei modi nei quali ciò si realizzerà. Favorendo la pace e la cooperazione tra popoli, governi e Stati oppure tramite guerre e distruzioni all’insegna di un sovranismo foriero solo di disgrazie per l’intera umanità. L’invasione russa dell’Ucraina con tutti suoi orrori è un esempio lampante di quest’ultima nefasta tendenza. Ma affrettarsi, al contrario, a dare per scontato che in Ucraina ci sia una resistenza autoctona, quale quella che vi fu in Italia tra il 1943 e il 1945, comporta un evidente favoreggiamento di ogni tipo di ingerenza in questo paese utile a soggiogarlo a quella «guerra infinita» che da più di vent'anni è strategia americana dominante in non poche zone del mondo.
Immagine: S.B.
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