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Questione sarda: arretratezza o subalternità?



…la Sardegna si trova […], nei confronti del governo centrale, in condizioni economiche e politiche simili a quelle della classe operaia nei confronti del capitalismo.


Antonio Gramsci, La Sardegna e la classe operaia (1920)


Capire chi siano «i sardi» è una faccenda complicata. Cosa significa «sardità»? Assolutamente nulla se guardassimo a un comportamento, a dei valori ascritti all’appartenenza territoriale, all’etnia o al patrimonio genetico. Anche la categoria di «nazione» non è di grande aiuto. Dato un suo territorio definito dall’insularità e la distanza dai continenti, la presenza di una lingua propria utilizzata da ampia parte della sua popolazione, la consapevolezza diffusa di appartenere a una comunità distinta e il suo conseguente problematico inserimento entro la nazione italiana, sarebbe pienamente legittimo considerare la Sardegna una «nazione senza Stato» come altre in Europa[1]. Tuttavia, sarebbe pur sempre una costruzione sociale o un’invenzione, come tutte le nazioni; una «comunità immaginata» in virtù dell’esistenza di uno Stato (o in reazione a esso, nel caso delle minoranze) che dall’Ottocento ha creato e imposto a livello di massa l’identificazione in una nazione inventata. La Sardegna è un luogo multiculturale. Per esempio, il dogma nazionalista «una nazione = una lingua» non troverebbe facile applicazione, dato che una parte di popolazione parla una lingua diversa dal sardo: nella quasi totalità del Nord (in Gallura) e nella seconda città dell’isola (Sassari) si parla una lingua sardo-còrsa; per tacere d’altro (il catalano di Alghero, il tabarchino di Carloforte…).

Ciò che accomuna tutti i sardi – al di là della classe sociale, della lingua, della cultura – è la posizione. Non si tratta solo di geografia ma del posto che i sardi occupano entro l’ordinamento statale italiano e il sistema capitalista mondiale in rapporto ai suoi centri. Sono posizionati sicuramente all’interno del Nord globale, dunque in Occidente, fra la parte bianca e privilegiata del mondo; malgrado ciò, da un punto di vista socioeconomico, è evidente che l’isola sia una periferia sottosviluppata dell’Europa Occidentale[2]. Anche se non si può ridurre la Sardegna alla sola dimensione economica, così come il «sottosviluppo» non è un monolite e i popoli da esso afflitti non sono tra loro uguali. Penso che essere sardi significhi nascere e/o vivere in un determinato contesto del sottosviluppo, reso tale da fattori geografici e soprattutto storici, politici e culturali.

Le cause del sottosviluppo economico sardo sono state a lungo ricondotte a un’essenza o un carattere della Sardegna, rimuovendo le cause politiche ed economiche legate al dominio, interno allo Stato unitario e al capitalismo. D’altra parte, chi si è opposto a questo dominio da un punto di vista «nazionalista» ha per lo più riprodotto un essenzialismo identitario, caricato di valori positivi, che ha tuttavia ugualmente contribuito a mascherare la reale condizione dei sardi.

Gli studi postcoloniali e decoloniali, sorti nel Sud globale, possono essere uno strumento utile per leggere la questione sarda.


Questione sarda e colonialismo interno


In somma a dire le cose col loro nome, come deve far la storia, si annientava il Regno e si creava una colonia.


Giuseppe Musio, Senatore del Regno d’Italia, Lettera in risposta ai promotori della Rivista Sarda, (1874)


Decolonizzare il pensiero economico significa, nei suoi caratteri generali, capire quanto le storiche relazioni di potere coloniali abbiano formato l’attuale diseguaglianza tra Nord e Sud globali. Questa è il risultato del percorso storico di una moltitudine di processi, tra cui il colonialismo europeo, che ha plasmato il divario mondiale agendo attraverso le istituzioni politiche ed economiche dei Paesi dominati, producendo conseguenze ancora oggi operanti[3]. Tuttavia, soltanto negli ultimi due secoli, con la Rivoluzione Industriale, il divario di sviluppo a livello mondiale è diventato quasi incolmabile[4]. Guardando alla Sardegna, potremo, analogamente, affermare che l’attuale condizione di sottosviluppo sarda sia incomprensibile al di fuori delle relazioni asimmetriche che hanno caratterizzato la storia dell’isola e plasmato le sue istituzioni lungo gli ultimi sei secoli. Anche in questo caso, le differenze di sviluppo tra la Sardegna e i centri europei divengono molto ampie soltanto dal XIX secolo, in seno allo Stato unitario, a partire dalla nascita del Triangolo Industriale nel Nord-Ovest della penisola, negli anni Novanta dell’Ottocento[5].

Su di un piano formale, meramente politico-giuridico, la Sardegna non è mai stata una colonia, benché storicamente dipendente da centri politici ed economici localizzati al suo esterno. Nel Basso Medioevo, il rapporto dell’isola con Pisa e Genova riproduceva quello tra città e campagna sul continente[6]. Sebbene fu per alcuni una forma di colonialismo ante-litteram[7], l’isola godeva di un’apertura all’economia mediterranea. Conobbe per questo una notevole crescita economica e un’accumulazione interna[8] che, pur innescate da forze esterne, sono incompatibili con una condizione coloniale classica. Durante l’epoca moderna – sotto la Corona aragonese e spagnola - vigevano in Sardegna istituzioni fondate sul contrattualismo, con un Parlamento che rappresentava i ceti privilegiati, gli Stamenti, i quali mantenevano uno scambio do ut des con il sovrano: un contributo in cambio dell’approvazione di determinate richieste[9]. Le esportazioni dalla Sardegna dipendevano da prodotti di basso valore, legati all’agricoltura e all’allevamento, ed erano gestite da mercanti per lo più genovesi o iberici. Nei traffici del Mediterraneo, il ruolo dell’isola era marginale, funzionale innanzitutto alle esigenze di approvvigionamento del grano per i regni della monarchia ispanica[10]. Al suo interno l’economia sarda era frammentata e dominata dal feudalesimo, lasciando pochi margini per lo sviluppo di una borghesia forte abbastanza da emanciparsi dall’aristocrazia. Con il passaggio dell’isola sotto la Corona sabauda nel 1720 (sino al 1847, anno della Fusione Perfetta tra l’isola e il Piemonte), tale organizzazione politica ed economica, propria del Regno di Sardegna, rimase formalmente in piedi.

Superando una concezione meramente formale del colonialismo e cogliendo piuttosto il nesso economico che permette di riconoscere lo sfruttamento di un popolo da parte di un capitale esterno, indipendentemente dalla forma politica che ciò implica, è possibile parlare di colonialismo anche all’interno del contesto europeo contemporaneo. In particolare, il concetto di «colonialismo interno», proposto dal sociologo messicano Pablo Gonzales-Casanova (1965) in riferimento alla condizione delle comunità indie nel rapporto con le élite creole del Messico[11], ha permesso di analizzare come anche la costruzione degli Stati-Nazione europei abbia creato relazioni di fatto coloniali tra regioni centrali e periferiche[12]. Una «colonia interna»[13] è una regione substatale periferica in cui una minoranza culturale ha un livello più basso di sviluppo economico rispetto al centro, che sfrutta tale divario a suo profitto. Un’economia dipendente e complementare al centro, dominata da pochi settori e beni esposti all’export. È, inoltre, presente un aspetto mentale e psicologico determinato dal tentativo della cultura dominante di spiegare le differenze tra il centro e la periferia sulla base di pretese caratteristiche oggettive entro dicotomie quali civiltà/barbarie, modernità/arretratezza generando la razzializzazione dei gruppi coinvolti.

Se stiamo entro questo paradigma, diventa possibile utilizzare per la Sardegna il concetto di colonia interna, con la nascita convenzionale della questione sarda nel 1847. La Fusione, che superò le istituzioni di Ancien Régime, fu il culmine di un processo di superamento del feudalesimo dall’alto, compiuto non con una rivoluzione nazionale borghese ma a seguito di un suo aborto[14], con l’inizio di un processo di modernizzazione passiva che segnerà la transizione al capitalismo[15]. Oltre un secolo dopo, un’altra modernizzazione passiva segnò il passaggio da un’economia prevalentemente agricola alla terziarizzazione, passando per una fase di industrializzazione incompleta[16]. La modernizzazione sarda è, in questo senso, frutto di un processo coloniale. I suoi protagonisti, a differenza delle realtà europee più sviluppate, non sono stati gli imprenditori-innovatori emersi da commercio e manifattura ma tre organizzazioni: il capitale esterno; lo Stato; la classe politica sarda. Il primo, è stato favorito dalla politica economica statale; i governi centrali, con le loro scelte e obiettivi di politica economica, hanno avuto un ruolo determinante nello scandire le fasi del divario tra Sardegna e Nord Italia; la classe politica sarda ha svolto un ruolo di mediazione con il potere statale, traendo rendite dallo svolgimento di tale funzione. L’interazione fra questi ha portato al mantenimento di istituzioni ostili allo sviluppo e di un’economia dipendente dall’esterno.

Queste fasi sono state accompagnate da una razzializzazione dei sardi, identificati con lo stereotipo del pastore sardo, emblema della società tradizionale, considerato in simbiosi con la gestione comunitaria delle terre e dunque nemico della piena affermazione della proprietà privata nella prima metà dell’Ottocento[17]. Per la borghesia sarda, il pastore è il punto di riferimento da cui allontanarsi al fine di avvicinarsi all’Italia e all’Europa più progredita, dichiarando il proprio supporto alla modernizzazione sabauda. Con la Fusione Perfetta e l’integrazione entro il processo di costruzione dello Stato-Nazione questo discorso si consolida e riproduce un pensiero orientalista analogo a quello tra Nord e Sud globale o tra Occidente e Oriente[18].


La modernizzazione passiva

Inizialmente, fu il capitalismo ligure a essere particolarmente favorito nella penetrazione dell’isola. Ne controllava il commercio, l’estrazione mineraria e il trasporto marittimo delle materie prime[19] e, più tardi, anche l’industria molitoria. Il periodo di massima divergenza del PIL pro capite tra l’isola e la media italiana (1891-1951) coincise con l’orientamento protezionista dello Stato unitario. L’interesse principale dei governi italiani era diretto - per esigenze belliche oltre che dall’obiettivo di fare dell’Italia una potenza economica – al sostegno dell’industria del Nord Ovest italico, già dotato di capitale umano, risorse idriche e infrastrutture. Stretti tra gli interessi del capitale in quest’area e degli agrari nel Meridione, i diversi governi trovarono nel protezionismo un modo per conservare il proprio potere in un contesto dualistico come quello italiano[20]. In questa fase, la crescita economica e lo sviluppo di un’imprenditoria sarda sono stati interrotti, prima con lo shock determinato dall’inizio del protezionismo (1887-88, guerra doganale con la Francia) e successivamente con l’ingresso nella Grande Guerra.

La svolta protezionistica significò per la Sardegna una dura crisi agricola negli anni Novanta del XIX secolo, che pose fine a un periodo favorevole per le attività imprenditoriali vitivinicole e favorì lo sfruttamento della pastorizia isolana per la produzione di pecorino romano per il mercato statunitense[21]. In tale contesto, le teorie del razzismo positivista di scuola lombrosiana[22] furono funzionali a spiegare la recrudescenza della criminalità in Sardegna: non conseguenza della situazione politica economica ma «difetti» della razza. Come già riconosciuto a suo tempo da Gramsci[23], far ricadere le cause del sottosviluppo economico alle caratteristiche razziali di sardi e meridionali ha una chiara funzione politica, comprensibile entro la funzione del razzismo come «pilastro ideologico» del «capitalismo storico», volto a giustificare la diseguaglianza nella divisione internazionale del lavoro[24]. Perciò, il razzismo antisardo è stato un discorso coloniale: un apparato di potere che gira intorno al riconoscimento di differenze razziali/culturali/storiche, la cui funzione strategica predominante è quella di creare uno spazio per i popoli soggetti; di costruire il colonizzato come popolazione degenerata sulla base dell’origine razziale, al fine di giustificarne il dominio.

Anche i parziali miglioramento nell’agricoltura, tramite opere di bonifica, bacini idroelettrici e sostegno al credito agrario, promesse da una legislazione speciale (1907), chiamarono in causa società a capitale finanziario esterno: la Banca Commerciale Italiana (Società Elettrica Sarda) e la Bastogi (Società Imprese Idrauliche ed Elettriche del Tirso). Durante il fascismo, saranno la rivalutazione della lira - quota 90 - (1925-28) e la battaglia del grano (1925) a danneggiare l’economia dell’isola. La prima colpì viticoltura e allevamento, riducendo le esportazioni; la seconda portò alla crescita estensiva della cerealicoltura, a scapito delle colture pregiate, senza alcuno sviluppo tecnico. Nella fase autarchica e più bellicista del Regime (1935-43) fu intenso lo sfruttamento delle miniere di carbone per il fabbisogno continentale[25]. Proprio a causa della presenza mineraria nel Sulcis, la Sardegna, al termine della Seconda Guerra Mondiale risulterà l’area maggiormente industrializzata del Mezzogiorno.

Nel secondo dopoguerra, tra il 1951 e il 1971, ci fu un grande periodo di crescita economica, e di miglioramento delle condizioni di vita, con conseguente riduzione del divario con il Nord Italia. Tuttavia, anche questa modernizzazione si realizzò in maniera controversa, attraverso un progetto di pianificazione dello sviluppo economico - i Piani di Rinascita - sorto dalla collaborazione fra Stato e Regione Autonoma[26]. Il modello seguito, coerentemente con il pensiero dominante all’epoca, fu quello dei poli di sviluppo. L’installazione di un polo industriale in diversi punti dell’isola avrebbe generato la creazione di piccole e medie imprese - a servizio dell’industria principale - che a loro volta avrebbero provocato la creazione di altre attività. La scelta del comparto da incentivare cadde, tuttavia, sull’industria petrolchimica, la meno indicata a creare occupazione, data l’alta intensività di capitale e l’incapacità del contesto imprenditoriale sardo di soddisfare le esigenze di tale settore. Gli obiettivi di sviluppo sono rimasti inattesi mentre, a fronte di un’industrializzazione incompleta, il rapido declino della popolazione agricola è stato assorbito – oltre che dall’emigrazione - da un terziario non avanzato, principalmente legato all’espansione del settore pubblico.

Questa fase fu accompagnata da una nuova forma di razzismo, culturale, riassumibile nella tesi del «capitale sociale»[27], che misura la capacità dei cittadini a cooperare, in forme più ampie rispetto alla famiglia nucleare, dunque ad avere senso civico. Una spiegazione culturalista del sottosviluppo che impregna l’ideologia della classe politica sarda e italiana coinvolta nel nuovo progetto modernizzatore. È il pensiero socioantropologico dominante[28]che definisce la società tradizionale in relazione alle proprie mancanze rispetto alle società civilizzate, negandole ogni possibilità di evolvere indipendentemente, immaginandola come un organismo in cui ogni individuo è diretto al mantenimento dell’ordine sociale. Un esempio di questa teoria è il famoso libro di Antonio Pigliaru (1959) sul codice della vendetta barbaricina[29] che svolgerebbe appunto la funzione di sanzionare chi viene meno alla fedeltà comunitaria, base di certezza in un contesto naturale avverso. L’altro è sicuramente La famiglia esclusiva, scritto dal sociologo Luca Pinna (1971) su incarico della Regione, che gli commissionò uno studio sulle resistenze allo sviluppo economico programmato dalla Rinascita[30]. Ispirato alla teoria del familismo amorale di Banfield (1958)[31], scrisse che, in Sardegna, le persone esprimono ogni forma di solidarietà solo entro il nucleo familiare, manifestando ostilità verso gli altri gruppi; il comportamento verso gli estranei è descritto come individualista e opportunista, privo di rispetto per i beni altrui. Ancora una volta è il pastore l’emblema della sardità, intesa negativamente come ostacolo allo sviluppo economico. La relazione della Commissione Parlamentare d’Inchiesta sui fenomeni di criminalità in Sardegna del Senatore Giuseppe Medici (1972)[32] ci mostra chiaramente questo pensiero: un’idea della Sardegna come storicamente immobile e della pastorizia come ambiente culturale generatore del banditismo; il pastoralismo porterebbe all’esasperazione «elementi psicologici congeniali con la gioventù rurale barbaricina»; la pastorizia in Sardegna è «naturale», imposta dall’ambiente fisico ed economico sociale, è dunque necessario intervenire per la sua trasformazione.

Questa modalità di sviluppo, su impulso di un capitale privato esterno (in particolare le lombarde SIR di Rovelli e la Saras di Moratti) foraggiato da contributi pubblici e credito a condizioni di favore, non ha incrementato la produttività endogena dell’isola, al contrario ha alimentato un consistente deficit commerciale con l’importazione di merci esterne. La crisi petrolifera (1973-1979) porrà di fatto termine al progetto della Rinascita, così come alla fase di massiccio intervento pubblico nell’isola come nel Mezzogiorno, aprendo così una nuova fase di crescita del divario con il Nord. D’ora in poi, l’afflusso di spesa esterna verterà sul finanziamento di spesa corrente, generando quindi una «crescita dipendente» dei redditi e dei livelli di consumo senza alcuna corrispondenza con la produttività interna[33].

L’industrializzazione passiva di quel periodo segna ancora la struttura socioeconomica sarda attuale, con i suoi elementi coloniali: un’economia dipendente e disincentivata allo sviluppo endogeno, il cui import-export è fortemente condizionato dalla petrolchimica per circa il 70%[34]. La classe politica sarda continua a svolgere la medesima funzione di mediazione centro-periferia, legittimandosi per la sua capacità clientelare piuttosto che per i risultati positivi delle sue politiche. Altri elementi coloniali evidenti, nel presente, sono il complesso militare-industriale[35], con i due poligoni più grandi dello Stato, la presenza di un turismo di lusso[36] con capitale ampiamente esterno o la politica di drenaggio di capitale umano verso il Nord Italia[37].


Per una Filosofia de Logu


I tempi sono maturi in Sardegna per guardarsi non più con gli occhi dell’altro, ma con i propri, attraverso la conoscenza di ciò che, nel passato come nel presente, ci ha fatti diventare ciò che siamo, nella nostra articolata eterogeneità sociale, di genere, di culture. È un atto emancipativo, questo, cui non ci si può più sottrarre.


Sebastiano Ghisu e Alessandro Mongili, Filosofia de Logu. Decolonizzare il pensiero e la ricerca in Sardegna (2021)


La teoria del colonialismo interno, legata alla teoria marxista dello sviluppo, cadde in disuso dagli anni Ottanta. Tuttavia, proprio a partire dagli stessi anni si è assistito all’ascesa del pensiero postcoloniale e decoloniale. Pur essendo nato nel Sud globale, esso è una fonte di ispirazione al fine di elaborare una descrizione della realtà sarda che non sia una riproduzione manieristica di idee esterne. Per questo è nato Filosofia de Logu, un collettivo aperto di ricercatori e studiosi, una rete di individualità eterogenee per generazione, formazione, professione ed esperienze, unite da un manifesto per decolonizzare il pensiero e la ricerca in Sardegna[38]. Il termine «filosofia» non indica strettamente la disciplina ma la volontà di costruire un pensiero che sottoponga a critica quanto si ritiene normale, naturale. Si tratta di svelare la condizione sarda di subalternità, smascherando il pensiero dominante sulla Sardegna che condiziona ogni agire dei sardi; il termine «logu» in sardo significa «territorio» ed esprime l’esigenza di una conoscenza situata nel contesto isolano, la necessità di sviluppare le nostre idee a partire da un’analisi della situazione concreta sarda.

Due concetti in particolare sono utili per questo compito: «subalternità» e «colonialità», tematiche centrali per gli Studi postcoloniali e per i Subaltern Studies. Questi ultimi, in particolare, hanno ripreso da Antonio Gramsci, il concetto di subalternità, che rimanda alla relazione con un soggetto dominante del quale si subisce l’iniziativa, a causa della mancanza di coscienza politica[39]. Proprio la subalternità è un concetto chiave per leggere e comprendere la questione sarda, che altro non è che un intreccio di molteplici subalternità. Una subalternità economica, nei confronti del capitale esterno; una subalternità politica nei confronti dello Stato centrale; una subalternità culturale, che emerge evidente nello stigma che colpisce i parlanti la lingua sarda, rispetto a una italianità percepita come moderna, europea, progressiva, davanti alla quale la propria diventa espressione di arretratezza e isolamento[40], ma anche verso un’identità sarda «valorizzata» economicamente e svilita a fini turistici, sempre entro un’idea orientalista di Sardegna come territorio esotico, tra coste incontaminate e interno selvaggio[41]. La subalternità culturale è funzionale alle prime due, in quanto impedisce il raggiungimento di una consapevolezza politica volta a un processo di emancipazione; inoltre, favorisce la permanenza di un’identità sarda forgiata nella relazione asimmetrica con i poteri esterni e mantenuta anche dalle narrazioni nazionali interne, negando ai sardi la possibilità di esprimersi liberamente, portandoli a pensarsi in maniera stereotipata.

La colonialità[42] è costitutiva della modernità, la cui retorica promette progresso e sviluppo giocati su di un piano di profonde asimmetrie. Per nominare gli effetti del colonialismo ancora operanti nelle società latinoamericane, il sociologo peruviano Anibal Quijano[43] ha coniato il concetto di «colonialità del potere» e mostrato i lasciti della divisione razziale del lavoro e delle forme di dominazione create a partire dalla conquista dell’America. Per gli studiosi che lavorano intorno al concetto di modernità/colonialità[44], la modernità e la sua celebrazione sono soltanto una parte della storia dietro cui si nasconde il potere coloniale che ha, in contrapposizione, inventato la «tradizione». In Sardegna la «colonialità del potere» ha assunto la fisionomia della modernizzazione passiva: il processo attraverso cui l’isola è passata dal feudalesimo al capitalismo e da un’economia prevalentemente agricola a un’economia industriale e terziarizzata è stato scandito da progetti di sviluppo esogeni. La colonialità è stata costitutiva della modernizzazione sarda, dunque. Le classi dirigenti subalterne hanno identificato l’italianità con la modernità o, meglio, l’italianizzazione come tramite per integrare l’isola nella modernità europea e perseguire, in questo modo, le proprie aspirazioni sociali. La condizione sarda è stata inquadrata nella forma della tradizione e il sottosviluppo economico spiegato nei termini delle mancanze del popolo sardo rispetto al modello dei Paesi occidentali, entro un concetto lineare del tempo e della storia che vede i sardi come espressioni minori di un modello superiore.


Oltre l’identità, la condizione sarda

Il fattore principale della disuguaglianza globale, da quando è sorta la rivoluzione industriale, è costituito dalla posizione geografica. Lo stesso vale a livello di uno Stato come quello italiano, caratterizzato da un dualismo strutturale persistente[45]. La posizione conta. Non è la stessa cosa essere uomo o donna in una società patriarcale, essere bianchi o neri in una società razzista, nascere in una famiglia proletaria piuttosto che in una borghese. Nascere e vivere in un territorio sottosviluppato e sfruttato non è come farlo in uno sviluppato e dominante. Tuttavia, non si può negare l’esistenza di un conflitto sociale interno che vede una parte di società sarda legata proprio alla rendita di cui gode all’interno del rapporto asimmetrico della colonialità. Una classe politica mediatrice e una borghesia imprenditoriale ma dipendente e legata alla prima, che ha storicamente agito contro gli interessi della maggioranza sociale.

In Sardegna ci si è interrogati troppo sul concetto di identità; è invece necessario porre l’accento sulla condizione sarda, ovvero sul rapporto subalterno dei sardi con i centri del potere esterno, che è non solo apparato coercitivo ma anche apparato ideologico, egemonia attraverso cui si ottiene il consenso degli stessi dominati. Questa condizione è occultata dalla mitologia identitaria degli opposti nazionalismi. Il nazionalismo/indipendentismo sardo dominante appare diviso tra identitarismo etnoculturalista prigioniero degli schemi nazionalisti e orientalisti italiani e posizioni civico-liberali che mettono tra parentesi la questione sociale; il banale nazionalismo italiano di Sardegna, fondato su un’italianità civica, basata su determinati valori di comune appartenenza, nasconde la diseguaglianza territoriale strutturale e i rapporti asimmetrici su cui lo Stato italiano si basa realmente. Ogni emancipazione nazionale e sociale dei sardi, al contrario, non potrà che partire dal disvelamento della situazione concreta iniziando da una critica della ragion coloniale.


Note [1]C. Pala, Sardinia, «The Wiley Blackwell Encyclopedia of Race, Ethnicity and Nationalism» 2016, pp.1-3. [2]Il PIL pro capite della Sardegna è pari al 70% di quello medio dell’Unione Europea (Eurostat, newsrelease 38/2020 su dati del 2018): https://ec.europa.eu/eurostat/documents/2995521/10474907/1-05032020-AP-EN.pdf/81807e19-e4c8-2e53-c98a-933f5bf30f58. [3] D. Acemoglu, J. Robinson, The economic impact of colonialism, in S. Michalopoulos e E. Papaioannou, a cura di, The Long Economic and Political Shadow of History. Vol.I. A Global View, CEPR Press, London 2017, pp.81-87. Degli stessi autori si legga anche Perché le Nazioni Falliscono, Il Saggiatore, Milano 2013. [4] Sui dati storici si veda A. Maddison, The World Economy. A millennial perspective, OECD, Paris 2001. Sull’importanza della rivoluzione industriale per l’espansione senza precedenti della diseguaglianza globale, si veda B.Milanovic, Ingiustizia Globale, Luiss University Press, Roma 2017. [5] Sui dati del divario tra Sardegna e Nord-Ovest Italia tra il 1871 e il 2011 si veda l’appendice statistica di E. Felice, Perché il Sud è rimasto indietro, Il Mulino, Bologna 2013. Nel 1891 il PIL pro capite sardo era pari al 97% di quello medio italiano; nel 1901 tale quota scenderà al 91%; al contrario, il Nord-Ovest italiano passerà, nello stesso lasso di tempo dal 114 al 125%. Nel 1951, al picco della divergenza, il PIL pro capite sardo era al 63% di quello italiano e quello del Nord-Ovest al 152%. Nel 2011 il PIL pro capite sardo era pari al 77% di quello italiano, come nel 1871; mentre il Nord-Ovest, lungo questi 140 anni considerati, è passato dal 114 al 121%; il Nord-Est-Centro dal 100 al 114%. [6]La Sardegna era il luogo da cui Pisa si riforniva di grano, al fine rifornire di risorse agricole un'area - come quella toscana - urbanizzata ma dall'agricoltura insufficiente. Si veda O. Schena, S. Tognetti, La Sardegna medievale nel contesto italiano e mediterraneo (secc.XI-XV), Monduzzi, Milano 2011, pp.84-93. [7] Il principale fautore della tesi coloniale della Sardegna medievale è stato lo storico franco-americano John Day, La Sardegna sotto la dominazione pisano-genovese, UTET, Torino 1987, ispirato dalla teoria marxista dello scambio ineguale impoverente. Più recentemente, lo storico David Abulafia che in The Great Sea: A Human History of the Mediterranean, Oxford University Press, New York 2011, p.274, ha definito la Sardegna come la prima» esperienza coloniale» per Pisa e Genova. [8]La tesi di John Day è stata decostruita a partire dai lavori dello storico toscano Marco Tangheroni, il quale ha dimostrato la compartecipazione di elementi autoctoni al dinamismo economico, sociale e politico introdotto dall'influenza dei due Comuni. Inoltre, la campagna non fu del tutto privata della sua produzione e iniziò a superare il servaggio. Si legga La Sardegna: sviluppi urbani e sistemi economici in Marco Tangheroni, Medioevo Tirrenico, Pacini Editore, Pisa 1992, pp.23-34. [9] A. Mattone, Le istituzioni e le forme di governo, in AA.VV, Storia dei Sardi e della Sardegna, dagli aragonesi alla fine del dominio spagnolo, Jaca Book, Milano 1988, pp.217-252. [10]Sulla Sardegna «spagnola» si veda F. Manconi, La Sardegna al tempo degli Asburgo, Il Maestrale, Nuoro 2010. [11] P. Gonzalez Casanova, La democracia en México, Ediciones Era, Ciudad de México 1965. [12] Si vedano gli studi di sociologi ed economisti ispirati alla teoria marxista dello sviluppo. Per l’Occitania in Francia, R. Lafont, La Révolution régionaliste, Gallimard, Paris 1967. Riguardo la Galizia in la Spagna, si veda X. M. Beiras, O atraso economico da Galiza, Galaxia, Vigo 1972. Sulle nazionalità celtiche nel Regno Unito, M. Hechter, Internal Colonialism: The Celtic Fringe in British National Development, 1596-1966, Routledge, New York 1975. [13] Per una definizione esaustiva di colonialismo interno si legga K. Mattu, Colonialismo interno in Italia. Tra ricerca scientifica e prospettive politiche in A. Geniola, I. D. Mortellaro, D. Petrosino, a cura di, Stati, regioni e nazioni nell’Unione Europea, Editoriale Scientifica, Napoli 2018, pp.289-310. La stessa autrice ha applicato il concetto alla Sardegna in Internal colonialism in Western Europe. The case of Sardinia, «Master dissertation in Political Science», Universitat Autònoma de Barcelona, 2012. Si veda anche la definizione di colonialismo dello storico Wolfgand Reinhard in Storia del colonialismo, Einaudi, Torino 2002, il quale ipotizza la possibilità di estendere la definizione anche entro l’Europa, facendo l’esempio del Galles nei rapporti con l’Inghilterra. [14] Tra il 1794 e il 1796 in Sardegna ebbe luogo il cosiddetto «triennio rivoluzionario» sardo, mosso da un movimento riformatore la cui frangia più radicale era intenzionata ad abolire il feudalesimo, collegandosi ai moti antifeudali nelle campagne; la sua sconfitta e dura repressione, portò alla decapitazione della parte più avanzata della classe dirigente sarda dell’epoca. Si veda L.Carta, La «Sarda Rivoluzione» (1793-1802) in M. Brigaglia, A. Mastino e G. G. Ortu, a cura di, Storia della Sardegna, vol.II, Laterza, Bari 2006, pp.41-46. [15] I due passaggi cruciali di questo processo sono stati l’editto delle chiudende (1820) e l’abolizione del feudalesimo con un indennizzo gravante sui bilanci delle comunità (1839). Per una ricostruzione del processo di abolizione del feudalesimo attraverso la graduale affermazione giuridica della proprietà perfetta della terra, si veda I. Birocchi, Per la storia della proprietà perfetta in Sardegna, Giuffrè, Milano 1982. [16]G. Bottazzi, Eppur si muove! Saggio sulle peculiarità del processo di modernizzazione in Sardegna, CUEC, Cagliari 1999. [17] Per gestione comunitaria delle terre si intende la divisione del territorio coltivabile appartenente alla comunità di villaggio in due parti, una destinata alla coltivazione (bidatzone) e l’altra al pascolo (paberile), in periodica rotazione, al fine di assicurare l’equilibrio tra attività agricole e pastorali. Tuttavia, almeno dal XVII secolo nei villaggi era in corso una tendenza all’individualismo agrario che rende poco verosimile l’idea di un’autentica comunione delle terre. Quando si pose il problema dello sviluppo dell’agricoltura, in particolare con il pensiero fisiocratico di metà Settecento promosso dal riformismo sabaudo nell’isola, l’esistenza di questa gestione comunitaria fu data per certa. Il pastore errante – data la necessità di pascoli – era indicato come il suo principale sostenitore, dunque come nemico della proprietà privata della terra - realizzabile attraverso la chiusura dei terreni - e quindi dello sviluppo dell’agricoltura; tuttavia, in età moderna, sembra improbabile una netta distinzione tra pastori e contadini, dato che le aziende rurali svolgevano entrambe le attività (quella di allevamento era funzionale a quella agricola) ed è provato come la pastorizia fu il settore determinante la crescita di queste anche nelle aree a dominazione agricola. Comunanza delle terre e pastore errante erano due costruzioni ideologiche funzionali all’intervento politico-economico nella realtà sarda, per creare una classe di proprietari terrieri fedeli alla Corona sabauda e restringere il potere del feudalesimo. Si vedano: G. G. Ortu, Villaggi e poteri signorili in Sardegna, Laterza, Bari 1996; G. Salice, Dal villaggio alla nazione: la costruzione delle borghesie in Sardegna, AM&D, Cagliari 2011; G. G.Ortu, Le campagne sarde tra XI e XX secolo, CUEC, Cagliari 2017. Per quanto riguarda la «invenzione» del pastore e la costruzione dell’identità sarda a partire dai progetti e interventi per lo sviluppo agricolo tra Settecento e Ottocento, rimando al mio capitolo Identità sarda e interventi economici, in S. Ghisu e A. Mongili, a cura di, Filosofia de Logu. Per decolonizzare il pensiero e la ricerca in Sardegna, Meltemi, Milano 2021, pp.139-153. [18] Negli ultimi trent’anni sono diverse le ricerche storiche su questo tema. Fra i tanti: Jane Schneider, a cura di, Italy’s Southern Question: Orientalism in One Country [1998], Routledge, New York 2020; N. Moe, Un paradiso abitato da diavoli. Identità nazionale e immagini del Mezzogiorno, L’Ancora del mediterraneo, Napoli 2003. [19] M. L. Di Felice, La storia economica dalla fusione perfetta alla legislazione speciale (1847-1905), in AA.VV, La Sardegna – le Regioni dall’Unità d’Italia ad oggi, Einaudi, Torino 1998, pp.289-419. [20] Per una ricostruzione storico economica istituzionale dell’Italia unitaria è consigliato E. Felice, Ascesa e Declino. Una storia economica d’Italia, Il Mulino, Bologna 2015. [21] F. Atzeni, Riformismo e modernizzazione. Classe dirigente e questione sarda tra Ottocento e Novecento, FrancoAngeli, Milano 2000. [22]P. Orano, Psicologia della Sardegna, Tipografia della Casa Editrice Italiana, Roma 1896; A. Niceforo, La delinquenza in Sardegna, Sandron, Palermo 1897; G. Sergi, La Sardegna. Note e commenti di un antropologo, Bocca, Torino 1907. [23] A. Gramsci, Alcuni temi della questione meridionale (1930) in La questione meridionale, Editori Riuniti, Roma 1966. [24] I. Wallerstein, Historical Capitalism, Verso, London 1983. [25] L. Marrocu, Il ventennio fascista (1922-1943), in AA.VV, La Sardegna – le Regioni dall’Unità d’Italia ad oggi, Einaudi, Torino 1998 pp.675-684; Il ventennio fascista in Storia della Sardegna, vol.II, dal Settecento ad oggi, Laterza, Bari 2006, pp.121-133. [26] Su questo periodo storico si vedano, tra gli altri: S. Ruju, Società, economia, politica dal secondo dopoguerra a oggi (1944-98), in AA.VV, La Sardegna – le Regioni dall’Unità d’Italia ad oggi, Einaudi, Torino 1998, pp.775-992; P. Maurandi, L’avventura economica di un cinquantennio, in A. Accardo, a cura di, L’isola della rinascita. Cinquant’anni di autonomia della Regione Sardegna, Laterza, Bari 1998; G. Sapelli, L’occasione mancata, CUEC, Cagliari 2011. [27] D. Acemoglu, Introduction to Modern Economic Growth, Princeton University Press 2009, pp.119-123. [28] Secondo lo struttural-funzionalismo, una società tradizionale opera al fine di preservarsi e il comportamento individuale è diretto al mantenimento dell’ordine sociale. Per la teoria della modernizzazione, ogni società è destinata a svilupparsi lungo un percorso lineare dall’arretratezza alla modernità, tramite la distruzione delle resistenze provenienti dalla tradizione. Per una sintesi del pensiero struttural-funzionalista sul tema si vedano: A. Barnard, History and Theory in Anthropology, Cambridge University Press 2004, pp.61-79; U. Fabietti, Storia dell’Antropologia, Zanichelli, Bologna 2001, pp.148-160; R. Wilk, L. Cliggett, Economies and Cultures, Westview Press, Boulder (Colorado) 2007, pp.87-94, pp.102-104. Per una sintesi della teoria della modernizzazione: G. Bottazzi, Sociologia dello sviluppo, Laterza, Bari 2009, pp.62-92. [29]A. Pigliaru, Il codice della vendetta barbaricina, Il Maestrale, Nuoro 2007. [30] L. Pinna, La famiglia esclusiva, Ilisso, Nuoro 2010. [31] E. C. Banfield, The Moral Basis of a Backward Society, The Free Press, Glencoe (Illinois) 1958. [32] G. Medici, Relazione, in Commissione Parlamentare d’Inchiesta sui fenomeni di criminalità in Sardegna, XXIII (3), pp.9-85, 1972. Essa diede un importante contributo alla legittimazione della creazione di un polo industriale nella Sardegna centrale, volto a trasformare la società barbaricina; su questo si veda G. Columbu, Il golpe di Ottana: il processo di industrializzazione della Sardegna centrale come strumento di colonizzazione del territorio, Facoltà di Architettura dell’Università di Milano 1975. [33] R. Paci, Sviluppo economico e dipendenza. 1951-1993 in Crescita economica e sistemi produttivi locali in Sardegna. CUEC, Cagliari 1997, pp.35-59. [34]M. C. Massa, P. Farris, G. Pillai, M. Ravenna, Congiuntura economica. Commercio estero. Dati regionali. IV trimestre 2020, Regione Autonoma della Sardegna, Cagliari 2021. [35] A. Pili, Questione Sarda e complesso militare-industriale, «Jacobin», 15 aprile 2021, https://jacobinitalia.it/questione-sarda-e-complesso-militare-industriale/. [36]G. Piga, Costa Smeralda, ricavi in crescita, «La nuova Sardegna», 6 aprile 2015 https://www.lanuovasardegna.it/regione/2015/04/05/news/costa-smeralda-ricavi-in-crescita-1.11184439 . [37] M. Piras, E. Lobina, Emigrazione giovanile qualificata in Sardegna, Fondazione Sardinia, Cagliari 2018. [38] Il collettivo è autore del libro Filosofia de Logu. Decolonizzare il pensiero e la ricerca in Sardegna (Meltemi, Roma 2021). Rappresenta il primo tentativo di leggere la questione sarda con gli strumenti del pensiero post e decoloniale. Il testo è animato dal filo conduttore di una critica della ragion coloniale: undici capitoli di altrettanti autori che, spaziando tra varie discipline, cercano di decostruire l’identità sarda subalterna e di porre in evidenza la sua esistenza nelle pratiche che continuano a riprodurre i meccanismi della modernizzazione passiva. [39] G. Liguori, Subalterno e subalterni nei “Quaderni del carcere”, «International Gramsci Journal», vol.2, 2016, pp.89-125. [40] Su tema identificazione tra italianità e modernizzazione e lo stigma che colpisce i parlanti la lingua sarda si consigliano, di A. Mongili, Topologie postcoloniali, Condaghes, Cagliari 2015 e Quadro normativo e processi di trasformazione nell’uso e nel prestigio sociale della lingua sarda in S. Baroncelli, a cura di, Regioni a statuto speciale e tutela della lingua. Quale apporto per l'integrazione sociale e politica? Giappichelli, Torino 2017, pp. 61-82. [41] G. Satta, Turisti a Orgosolo. La Sardegna pastorale come attrazione turistica, Liguori Editore, Napoli 2000. P. Clemente, Un’isola nell’isola. Un bricolage antropologico con pezzi di Costa Smeralda in L. Marrocu, F. Bachis, V. Deplano, a cura di, La Sardegna. Idee, luoghi, processi culturali, Donzelli, Roma 2015, pp.153-195. [42] Sugli studi decoloniali e il concetto di colonialità per essi si veda W. Mignolo, C. Walsh, On Decoloniality. Concepts, analytics, praxis, Duke University Press, Durham 2018. [43] A. Quijano, Colonialidad del poder, eurocentrismo y America Latina, in E. Lander, a cura di, La colonialidad del saber: eurocentrismo y ciencias sociales. Perspectivas latinoamericanas, CLACSO, Buenos Aires 2000. [44] Si consiglia il lavoro collettivo: W. Mignolo, A. Escobar, a cura di, Globalization and the Decolonial Option, Routledge, New York 2013. In particolare, sul concetto di colonialità come parte oscura della modernità, si veda W. Mignolo, The Darker Side of Western Modernity, Duke University Press, Durham 2011. [45]A livello globale, si veda B. Milanovic, cit. A livello italiano, oltre a E. Felice, cit., si veda G. Viesti, Centri e periferie. Europa, Italia e Mezzogiorno nel XXI secolo, Laterza, Bari 2021.


Immagine di Christopher Wood.

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