top of page

Augusto Graziani

Pubblichiamo un inedito di Augusto Graziani nel decimo anniversario della sua morte. Si tratta di un intervento sulla «Questione meridionale» (una questione di sviluppo?) tenuto  ad un seminario organizzato dagli studenti della Comunità Eureka Interscienza e Ricerca Sociale, tenutosi presso la Facoltà di Sociologia di Roma La Sapienza il 9 maggio del 2002. Il testo viene accompagnato da una prefazione di Francesco Maria Pezzulli, che ha ritrovato registrazione e documenti dell’iniziativa e da una breve postfazione di Andrea Fumagalli.

Il testo è pubblicato in contemporanea su Effimera.

 

* * *

 

Prefazione di Francesco Maria Pezzulli

Questo testo di Augusto Graziani è particolarmente utile perché vi è riassunto il suo punto di vista, in modo semplice e dialogico, su una delle tematiche che lo ha accompagnato per tutta la vita: la questione meridionale. Oserei dire che in queste poche pagine, oltre alla competenza scientifica del grande economista, emerge anche una sua certa «classicità». Graziani comincia la sua discussione con gli studenti ricordando loro, fatemela passare, che lui è un economista di sinistra, che ha abbracciato cioè quel principio secondo il quale, con Marx, sono le condizioni d’esistenza delle classi sociali che condizionano le loro dimensioni culturali e che dunque queste due cose vanno tenute insieme se si vogliono intendere per davvero le dinamiche di cambiamento. Ma parlando agli studenti, in modo sornione e divertito, si rivolgeva anche ai sociologi ed agli economisti del Mezzogiorno presenti, ai quali, prendendoli un po' in giro, gli rimproverava di aver dimenticato questo dato scientifico e politico essenziale. Con le sue parole: «gli economisti, e qui torno al mio peccato originale, non solo si muovono terra-terra ma sono anche colpevoli di un peccato di ambizione e cioè ritengono che il progresso della ricchezza materiale (della produzione, dei consumi individuali e collettivi) sia alla base, e che tutto il resto (lo sviluppo della cultura, della civiltà, dello spirito di convivenza e di tutte le altre virtù sociali che potete elencare) sia una conseguenza. Si potrebbe riassumere dicendo che per un economista la povertà è una cattiva consigliera, mentre la ricchezza apre la strada al progresso anche culturale e sociale».

Per Augusto Graziani la questione meridionale è stata sempre e soprattutto un problema concreto di rottura con il passato, con ciò che un tempo venivano definiti «residui feudali» delle società sottosviluppate. Ed è innegabile che tali residui fossero presenti nel Mezzogiorno e che, sotto certi aspetti, lo sono ancora oggi. Non ci si deve meravigliare, dunque, che gli approcci che tendevano a sublimare tale «rottura» dietro una qualche eleganza logica o stilistica fossero considerati dall’economista napoletano ideologici e dannosi per la risoluzione della questione. Risoluzione, si badi, non riduzione o tamponamento. Perché la questione meridionale è stata per Graziani (e per gli economisti ed allievi della sua cerchia) la questione dell’eliminazione del divario di reddito medio per abitante tra il Nord e il Sud del paese; eliminazione che negli anni ’60 e primi anni ’70 è parsa un obiettivo raggiungibile, nonostante le numerose criticità che le grandi industrie a partecipazione statale hanno incontrato e favorito nel Sud.

Dunque, abbiamo un Graziani fermo sul primato dello sviluppo economico come fonte del cambiamento anche culturale ed a favore della grande industria pubblica, contro i fautori della cultura come motore dello sviluppo meridionale e gli economisti del «piccolo è bello». Rispetto a questi ultimi, il problema, che per Graziani era assolutamente chiaro, consisteva nel fatto che la cultura meridionale, generalmente intesa, nascondesse anche la criminalità, il clientelismo, il particolarismo, l’individualismo e tutti quei «residui feudali» che i piani di sviluppo un tempo promettevano di combattere. Allora, aver considerato la cultura come un monolite o, peggio, averne considerato soltanto dei «pezzetti» di comodo (ad esempio, che la presenza di associazioni culturali in un determinata regione sia di fatto rappresentativa di un certo capitale sociale positivo) ha reso astratto ogni ragionamento sulla questione e rimandato la sua risoluzione nel lungo termine che, come diceva Keynes, altro grande economista amato da Graziani: «è una guida fuorviante per gli affari correnti: nel lungo termine saremo tutti morti».

A tal proposito, nel testo che segue è evidente la contrarietà di Graziani verso l’approccio dei «distretti industriali» e dello «sviluppo locale» che, dopo gli importanti lavori di Becattini (1998) e Garofoli (1999), hanno riscosso particolare successo tra gli studiosi e gli economisti dello sviluppo meridionale. In sintesi, i sistemi locali di sviluppo ed i manifatturieri «distretti» sono figli della deindustrializzazione degli anni ’70, che ha espulso migliaia di operai dalle grandi fabbriche e moltiplicato le piccole realtà produttive, spesso piccolissime, basate sul lavoro a domicilio e su quello autonomo nei servizi. Ma l’emergere di questa nuova imprenditorialità, per chi segue l’approccio dello sviluppo locale, non è direttamente correlata alle necessità lavorative degli operai espulsi, quanto piuttosto alla presenza di antiche tradizioni secolari che sono riuscite a trovare un proprio percorso di modernizzazione. La tradizione culturale, insomma, non i soggetti in carne ed ossa. Come nel Veneto, dove il fiorire delle molte reti di piccole e medie imprese, piuttosto che in relazione alla ristrutturazione dei grandi impianti chimici, viene spiegato come «l’esito di una lunga sedimentazione nelle società locali di saperi produttivi diffusi (…) nati grazie al paternalismo organico degli industriali dei primi dell’800». Aggiungiamo che, secondo questi teorici, lo sviluppo si diffonde progressivamente a partire dai territori dove sono già presenti segni di dinamicità imprenditoriale e, affinché ciò possa avvenire anche nel Mezzogiorno, bisognerebbe stabilire gemellaggi tra distretti del centro-nord e distretti del Sud. Queste le domande di Becattini in merito al suo disegno di «industrializzazione leggera» del Mezzogiorno: «perché lasciare che gli imprenditori dei distretti decentrino le fasi più semplici di loro processi in Romania anziché nel Mezzogiorno? Perché incrementare occupazione e redditi a Timosoara anziché a Grumo Nevano? Perché non indirizzare questa ricerca di subfornitura verso il mezzogiorno, apprestando condizioni politiche, sindacali, giuridiche e infrastrutturali di accoppiamenti efficaci dei Sud più reattivi allo sviluppo coi centro-nord più intraprendenti?». La risposta di Augusto Graziani, come si evince dal testo che presentiamo, è nitida: lo sviluppo non si diffonde dai territori sviluppati a quelli arretrati in modo progressivo e le potenzialità dei gemellaggi sono già state evidenti nella realizzazione delle opere pubbliche e nella spesa clientelare. Invece, al di là di ogni iperbole, il mattone elementare sul quale è possibile costruire un processo di sviluppo del Sud, per Graziani, rimane ancora la classe lavoratrice dispersa sul territorio, da riaccorpare, perché è l’unica capace ad un tempo di costituire impresa e sottrarsi all’intrallazzo politico e affaristico. In questi termini, anche le piccole imprese, private o autogestite che siano, possono essere veicolo di sviluppo, secondo Graziani, soltanto se riassociano i lavoratori e se riescono a costituire un «tessuto connettivo di classe lavoratrice che possa erodere dall’interno quel blocco di potere sempre più capace di resistere agli attacchi esterni e che tiene in pugno l’intero sistema produttivo». Tale blocco è la causa principale del mancato sviluppo del mezzogiorno e qualsiasi teoria e politica economica che non lo considera tale, come dimostra la storia del Sud, è inevitabilmente destinata al fallimento.

 

 Questione meridionale: una questione di sviluppo? (di Augusto Graziani)

Buonasera a tutti e grazie dell’invito. Voi capite bene che tra tanti illustri relatori, cultori di sociologia, di epistemologia, di politologia, io mi trovo così come un gatto capitombolato giù dal terzo piano e non so se alla fine del dibattito potrò dire di essere ancora vivo. Dico ciò perché gli economisti si muovono terra-terra e parlano in genere di cose tangibili, moralmente miserabili, come la ricchezza materiale che noi disprezziamo e da cui tentiamo di tenercene lontani il più possibile per attingere invece alle vette dello spirito.

Io dichiaro subito, sinceramente, che personalmente non disprezzo la ricchezza materiale e non disprezzo coloro che la perseguono, quindi dovrete accontentarvi, ascoltando me, di ascoltare una morale limitata. Una seconda cosa che vorrei dire è che io non ho grande simpatia per le definizioni. Si dice in genere, prendendoli in giro, che i tedeschi hanno una mania per le definizioni: «cosa si deve intendere per strada ferroviaria?» si chiedono i tedeschi. Ecco, a me non piace molto questa cultura delle definizioni, parlerò evidentemente di sviluppo e di sottosviluppo, e poi potremmo vedere confrontandoci se stiamo parlando delle stesse cose. Ma partire con definizioni è cosa che io ho trovato sempre molto difficile e limitante, anche perché gli economisti, e qui torno al mio peccato originale, non solo si muovono terra-terra ma sono anche colpevoli di un peccato di ambizione e cioè ritengono che il progresso della ricchezza materiale (della produzione, dei consumi individuali e collettivi) sia alla base, e che tutto il resto (lo sviluppo della cultura, della civiltà, dello spirito di convivenza e di tutte le altre virtù sociali che potete elencare) sia una conseguenza. Si potrebbe riassumere dicendo che per un economista la povertà è una cattiva consigliera, mentre la ricchezza apre la strada al progresso anche culturale e sociale. Ad esempio, certe grandi città sono state anche grandi centri di cultura, hanno attirato anche grandi artisti e letterati, perché erano ricche e in quelle città costoro trovavano da vivere e così via.

 Allora con questa deformazione mentale di occuparsi soltanto di ricchezza materiale e di considerare il resto come strettamente connesso o addirittura come la conseguenza della maggiore o minore ricchezza materiale, veniamo al problema del Mezzogiorno.

La questione meridionale per lunghi anni è stata trascurata e dimenticata, negli ultimissimi tempi, invece, c’è stato un ritorno di attenzione, un risveglio di curiosità e interesse, proprio adesso che la politica di intervento straordinaria del Mezzogiorno è stata dichiarata ufficialmente conclusa ormai da una decina d’anni.

L'Unione Europea ci dice: «possiamo aiutarvi con gli investimenti ma sempre nei termini di co-finanziamento, quindi per ogni lira che mettiamo noi, una lira la dovete mettere voi», e molti mettono in risalto le difficoltà delle regioni meridionali a seguire questo approccio.

Comunque sia, la questione meridionale ritorna alla ribalta per ragioni che in parte sono connesse all'intera economia nazionale, ma in termini lievemente diversi da quelli con cui veniva presentata nel passato. Un tempo, all’origine dell’intervento straordinario, c'era un argomento che sosteneva che l'obiettivo, lo scopo, l'ambizione dell'intervento doveva essere quello di eliminare il famoso divario di reddito medio per abitante tra Nord e Sud, quindi sopprimere, contrastare il processo di divergenza e trasformarlo in un processo di convergenza fino ad arrivare all'eliminazione del divario. Un obiettivo estremamente ambizioso, poi rapidamente abbandonato perché troppo ambizioso e sostituito da obiettivi più attenuati: ci accontentiamo di mettere in moto un processo di sviluppo, ci accontentiamo di avere uno sviluppo autonomo finanziato dagli interni, ci accontentiamo di avere investimenti autonomi, nel senso che siano le capacità imprenditoriali locali a prendere l'iniziativa, senza questi investimenti esterni che hanno sempre un po' il sapore della colonizzazione. 

In realtà c'è stato un periodo, lo ricordo perché è connesso al problema del ritorno alla ribalta del problema del Mezzogiorno, dove sembrava che veramente Nord e Sud si muovessero su un terreno convergente, stessero compiendo un cammino comune. Convergente sempre sul terreno materiale quantitativo del reddito medio per abitante, il famoso indicatore imperfetto ma, insomma, il meno imperfetto che si conosca.

Questo è il periodo degli anni Sessanta e primi anni Settanta, quello che viene usualmente indicato come il periodo dei grandi investimenti nel Mezzogiorno, il periodo della grande impresa, il periodo del grande interesse delle imprese a partecipazione statale per il mezzogiorno, che inizia nel 1958 con il centro siderurgico di Taranto e poi continua attraverso diversi investimenti pubblici e privati, in varie regioni, nella petrolchimica, nelle raffinerie, eccetera. Ed alla fine si conclude nel 1973 con l'Alfasud di Pomigliano d’Arco, in provincia di Napoli, seguito soltanto dallo stabilimento, sempre Fiat, di Melfi in Basilicata. Per cui gli economisti, osservando questa sorta di coincidenza, sono in genere tentati a dire che questi investimenti in grandi unità produttive, con grandissimi difetti di gestione, furono però gli elementi di rottura che trasformarono la divergenza in convergenza. Cattiva gestione, dicevo, adesso non possiamo entrare nei dettagli, ma diciamo che venivano gestite senza alcun riguardo per l'ambiente locale, quindi privi di effetti propulsivi. Questo è un fatto che può essere anche interpretato e spiegato nelle sue ragioni, un fatto gravemente negativo non solo perché gli effetti propulsivi mancarono, ma perché diedero fiato agli avversari di questa politica, i quali non ebbero difficoltà a dire: «avete voluto i grandi impianti nel mezzogiorno tanto per sperperare denaro pubblico. Cosa avete fatto? Cattedrali nel deserto e nient’altro».

Veniamo al giorno d’oggi, perché ormai sono passati molti anni ed è cominciata l'epoca della globalizzazione. Senza voler dare definizioni impossibili, globalizzazione certamente significa piena libertà nei movimenti di merci, anzitutto per i progressi tecnologici, per la diminuzione del costo dei trasporti e il crollo di quello delle comunicazioni, ogni impresa può frammentare la produzione, può collocare ogni fase di lavorazione in paesi anche lontanissimi, tutto viene comunque diretto dal centro, magari da una grande capitale dei paesi più avanzati. I semilavorati vengono trasportati, separati, riuniti, rimessi insieme per il montaggio, spediti direttamente ai centri di smistamento commerciale attraverso ordini telematici. Le merci insomma si muovono silenziosamente e più rapidamente e l'impresa madre che ha in mano la finanza e la direzione muove merci, lavorazioni, investimenti, occupazione, disoccupazione, in mille diversi paesi del mondo. In altre parole, grande concentrazione finanziaria e grande frammentazione produttiva.

Un secondo aspetto della globalizzazione è che questa non riguarda solo il movimento di merci, ma anche quello dei capitali, infatti per consentire ad una grande impresa di manovrare le sue operazioni produttive disseminate in tutto il mondo, occorre anche consentirle di muovere finanza, liquidità, denaro, laddove bisogna effettuare un pagamento o si prospetta di realizzare un incasso.

Infatti, tra tutti i paesi avanzati, vige ormai il principio della libertà di movimento dei capitali e l'Italia è stato uno dei primi, forse avrebbe dovuto essere uno degli ultimi, nel 1990, che ha liberalizzato totalmente il movimento dei capitali. Questo ha aperto alla concorrenza in tutto il mondo, anche se l'industria italiana non era abituata a questo regime di assalto concorrenziale perché si era sviluppata durante il miracolo economico, all'ombra dell'allora mercato comune europeo, Tra i sei paesi europei più industrializzati, l’Italia era il meno avanzato, si andava specializzando in industrie che non erano d'avanguardia, c'era l’automobile, certamente, ma c'era anche l'industria del legno, del mobili per ufficio, poi quella dei televisori, degli elettrodomestici, eccetera.  Mentre gli altri paesi dell'allora mercato comune europeo (Francia, Germania, Olanda) navigavano sull'avanguardia tecnologica, sull'elettronica, l'alta velocità, il nucleare, si spostavano cioè verso settori avanzati (in Germania ad esempio erano presenti la chimica, la farmaceutica, l'ottica di precisione), l’Italia aveva una nicchia in questo mercato comune, era specializzata in industrie non d’avanguardia e protetta dalla cintura doganale comune. In questa situazione la globalizzazione ha inferto un colpo mortale all’Italia, perché si è trovata di colpo esposta alla concorrenza mondiale con solo due strade da poter percorrere: o cercare di trasformare, seppure gradualmente, l'industria italiana in un'industria avanzata (cosa che sarebbe risultata difficile, ma che comunque non è stata fatta), oppure cercare, non dico di vincere la concorrenza, ma almeno di sopravvivere nella concorrenza mondiale riducendo i costi. Ridurre i costi significa eliminare i grandi impianti dove i costi, soprattutto il costo del lavoro, è più elevato perché c'è il controllo dei sindacati, perché le paghe devono essere contrattuali, le condizioni di lavoro devono essere quelle prescritte, perché bisogna rispettare le norme ambientali contro l'inquinamento; quindi chiusura dei grandi impianti, decentramento, frammentazione della produzione. E questo ha avuto i suoi riflessi sul Mezzogiorno perché anche le cattedrali nel deserto si sono immediatamente rivelate come cattedrali nel deserto e niente di più, e il Mezzogiorno è diventato terra di decentramento per le imprese del centro nord che hanno cominciato gradualmente a trasferirvi segmenti di produzione. La prima è stata la linea Adriatica, poi queste imprese si sono arrampicate su per le valli che risalgono verso l’appennino meridionale, là dove si trovavano lavoratori, perché lì bisognava portare la produzione senza muovere i lavoratori portando ogni pezzetto di produzione là dove era possibile ottenerla al costo più basso. Allora, questo apre la questione di oggi del Mezzogiorno: come dobbiamo giudicare questo declino dei grandi impianti che storicamente erano stati quelli della convergenza, quelli di maggiore successo? E come dobbiamo giudicare questo fiorire della piccola, piccolissima, mini impresa, fino al lavoro domiciliare? Secondo alcuni il giudizio dovrebbe essere negativo, perché la mini, piccola e piccolissima impresa non sarà mai un veicolo di ingresso né del progresso tecnico né dell'organizzazione moderna, sarà piuttosto sempre un insieme di lavorazioni basato sul lavoro nero irregolare - volendo usare una parola un più drammatica sullo sfruttamento della disoccupazione - e non consentirà mai quel salto di qualità che un vero processo di sviluppo economico produttivo esige. Secondo altri, invece, le cose stanno in maniera diversa. Come sapete ci sono grandi ottimisti del Mezzogiorno mentre i pessimisti annoverano alcuni economisti distintissimi, come i professori Adriano Giannola e Alfredo Del Monte, che in passato scrissero una monografia molto pregevole sulla questione meridionale e che sono ancora tra i sostenitori della grande impresa come veicolo di rottura. Ma ci sono anche tanti economisti meridionali entusiasti, come il professor Viesti dell’Università di Bari, il professor Cersosimo dell'Università della Calabria e il professor Bellante dell'Università della Basilicata i quali invece si trovano sulla sponda opposta. Quando si dice a volte: «Beh anche il mezzogiorno dovrebbe sviluppare come la Toscana i suoi distretti industriali», Gianfranco Viesti è pronto a rispondere «noi i distretti industriali nel mezzogiorno li abbiamo già». Quel suo volume Come nascono i distretti industriali, infatti, elenca 31 distretti industriali già presenti nel mezzogiorno; e Domenico Cersosimo, che è uno studioso più analitico, ha pubblicato di recente una monografia su un distretto industriale che si trova in Basilicata, nel Comune di Lavello, specializzato ad altissimi livelli di biancheria che viene esportata in tutto il mondo. Costoro sostengono che il vero avvenire del Mezzogiorno si trova qui, perché queste sono iniziative locali che danno luogo ad un'autonomia locale e non ad un’industria di tipo coloniale imposta dall’esterno. Forse si comincia in maniera modesta, ma tutti sappiamo che bisogna partire dalla gavetta e con buona volontà ci si tira su. Ma c'è un problema che viene, a volte drammaticamente, contrapposto a queste diagnosi parzialmente ottimiste ed è il problema dell'organizzazione sociale e culturale del Mezzogiorno.

Il Mezzogiorno dicono molti avrà forse queste nuove iniziative produttive che abbiamo detto, supponiamo anche di esser fiduciosi, però non possiamo dimenticare che il mezzogiorno ancora oggi soffre di due mali molto gravi: il primo è quello di avere un’amministrazione pubblica carente, non entro nei dettagli, tanto chiunque sia entrato in un ufficio pubblico del Mezzogiorno sa a quali sofferenze è esposto il cittadino. Il secondo è il dilagare della criminalità organizzata, la quale, si sottolinea, non solo in passato si è soffermata sulle opere pubbliche ed ha tratto grandi vantaggi dagli stanziamenti di spesa pubblica per ogni evenienza, ma oggi controlla il mercato del lavoro per trarre ogni possibile beneficio da queste piccole iniziative che pullulano in tutto il mezzogiorno. Ci sono illustri economisti, come Paolo Sylos Labini, ma posso citare anche il professor Sergio Zoppi che non è un docente ma per tantissimi anni ha presieduto il Formez, quindi ha avuto il mezzogiorno tra le mani come alto funzionario e anche come studioso, i quali ritengono concordemente che l'ostacolo maggiore allo sviluppo del Mezzogiorno risieda proprio nel dilagare della criminalità organizzata. Se questo è un problema che potesse essere superato con lo sviluppo produttivo oppure sarà un ostacolo fatale per lo sviluppo produttivo io non so dire, lascio la palla ai miei colleghi sociologi.

 

L'emigrazione di oggi del Sud è di tipo intellettuale, non più bracciantile, non è più il povero contadino calabrese trasportato con la Freccia del Sud al Nord e poi la mattina dopo alla catena di montaggio della Fiat. Oggi il giovane meridionale esce dall’Università, vede che non ci sono industrie adeguate nel Meridione e trova un lavoro nel Nord. Questo è un fenomeno purtroppo gravissimo è palesa la grande illusione del giovane che usciva dalla scuola, veniva parcheggiato all’Università per poi scoprire che nel sud non avrebbe trovato un lavoro. Oggi trovano lavoro nel Sud i manovali, grazie al processo di decentramento di cui parlavamo prima, non trovano lavoro i giovani formati. Nel Nord Est trova lavoro chi va a fare l'operaio in fabbrica, anche senza un titolo di studio, chi ha la laurea addirittura è quasi costretto ad emigrare all'estero: questo per dire che la natura della disoccupazione è cambiata in tutta Italia. Oggi il ritardo del Sud è evidente, penso solo alla rete stradale meridionale: ci sono le strade ma sono inadeguate, penso poi alle ferrovie, al problema idrico, mancano gli acquedotti, le condutture e molte città del sud d’estate hanno l'acqua solo qualche ora al giorno. Insomma è evidente che c'è una forte carenza di opere pubbliche essenziali. Quando vediamo governi che in pochissimo tempo approvano il ponte sullo stretto di Messina quando nel Mezzogiorno non ci sono né strade, né ferrovie, né acqua potabile fornita regolarmente, è evidente che ci troviamo di fronte ad una follia nel caso in cui queste decisioni siano prese in buona fede. Il problema dell'allargamento europeo, ha ragione chi ha detto che il Mezzogiorno diventerà in questa Europa allargata una delle regioni più ricche, quindi figuriamoci quanti aiuti avremo! Il problema è però che in questo allargamento dovremmo tenere conto di una certa omogeneità culturale, ma il problema è che su questo piano gli interessi hanno la meglio: la Germania ha un interesse immediato nell’allargamento, per crearsi una nuova immensa area economica e commerciale che gli consenta di rivaleggiare con USA e Giappone. La Germania finché c'è stato il Marco ha imposto la sua valuta in tutta la regione balcanica, adesso invece con l’euro… ma la Germania è sostanzialmente il banchiere di questi paesi e si appresta a diventare anche il grande potere industrializzatore. Dietro questo allargamento quindi ci sono in Europa interessi economico industriali e di potere politico pressanti. È stato chiamato in ballo il problema della cultura, perché lo sviluppo non si fa soltanto con i soldi, ma gli interessi riescono a catturare anche la cultura e noi abbiamo esempi concreti imbarazzanti: in USA, quando si tratta di fare alleanze nel Sud America con alcuni strati sociali vengono scelti o i ceti più retrogradi della Chiesa Cattolica o i ceti più autoritari dell’esercito. Questo avviene perché per gli USA queste sono le uniche comunità organizzate efficienti con le quali è possibile avere un colloquio. Ecco che però si crea attraverso questi legami una cultura locale che finisce per avere la meglio. Ed è così, quando venivano nel Mezzogiorno e facevano i legami con i partiti dominanti e con le classi amministrative più corrotte del Sud, perché erano quelle che controllavano le elezioni e assicuravano il flusso dei voti ai partiti di maggioranza, portavano sostanzialmente il potere ai ceti più retrivi, deformavano la cultura locale, anche se non la soffocavano, per lo meno la mettevano in condizione di non poter aggredire.

Quando si dice che l'economia non basta per risolvere questi problemi, ma è necessario aprire ad una multidisciplinarietà, per me va benissimo, ma la scienza economica, considerata la scienza del comportamento razionale, non può più sostenere la sciagurata e dominante scuola di pensiero per cui l'economia è davvero la scienza della conquista del potere economico e non della razionalità, è cioè la scienza del conflitto. Questo lo dico per tutelare la mia posizione…

Per quanto riguarda la questione se il Sud sia sviluppato almeno culturalmente, mi sembra che ci siano molti aspetti importanti, ad esempio ci sono anche meno suicidi. Ma rispetto a questo tema, mi viene in mente una vecchia analisi fatta dal romanziere torinese Giovanni Arpino, che scrisse due brevi racconti, uno sul Sud e uno sul Nord, che avevano un profondo sottofondo interpretativo sociologico. Quello sul Sud era un delitto d'onore e raccontava il caso di uno che aveva ammazzato la moglie perché non l'aveva trovata casta al momento del matrimonio. Difeso da un grande avvocato riceve il minimo della pena e quando torna libero, dopo poca detenzione, viene accolto trionfalmente come un eroe: l'autore allora dice «ecco questa è una società che ha valori solidi, ha delle cose in cui crede, ha una sua cultura radicata. Questa è una società che può fare strada». Poi c'è il romanzo sul Nord, che si intitolava Una nuvola d’ira, che racconta la storia di operai emigrati a Torino, una storia di follia, di depressione e di suicidio: «ecco questa è una società psicologicamente moralmente profondamente malata». Questi interventi sullo sviluppo culturale mi hanno fatto ricordare l'antica contrapposizione che Arpino faceva più di 30 anni fa e mi sembra che non sia ancora oggi priva di contenuto.

 

C’è chi dice, come ad esempio Franco Cassano: «perché questo sviluppo deve essere concepito in maniera unilaterale, al quale tutti i meridionali dovrebbero uniformarsi, mentre i meridionali non saranno mai uguali ai settentrionali e il Mezzogiorno farebbe bene a cercare legami nel Mediterraneo». Questo è giusto ma vorrei aggiungere che purtroppo questa unilinearità dello sviluppo non è una cosa spontanea, ma una cosa forzata, per le ragioni che spiegavo prima. Noi siamo tutti vittime della industrializzazione che proviene da altre regioni, a noi ci hanno imposto l'automobile poi il televisore, poi il telefonino sciagurato, eccetera e, attraverso queste imposizioni commerciali, abbiamo anche avuto delle imposizioni culturali. Ricordo in proposito quello che diceva il mio maestro Manlio Rossi Doria quando noi, un po' frondisti, dicevamo: «insomma questi americani credono di venirci ad insegnare», lui rispondeva: «voi che criticate tanto vedrete che tra venti anni la società italiana farà quello che oggi sta facendo l’America, non c'è nessuna differenza, se non un ritardo di dieci anni». Questo è un flusso forzato. Come resistere? Io accolgo il suggerimento di Cassano, dicendo però che questa non è una libera scelta, ma una battaglia, una lotta da conquistare e come io non lo so. Ci volgiamo al Mediterraneo? Beh è qui che si riproduce una guerra non solo militare ed economica, ma anche culturale, tra gli USA, le potenze finanziarie occidentali e un’area immensamente più povera, disorganizzata, che non riesce a trovare la sua strada perché deve lottare per costruire, materialmente, il proprio futuro. Una lotta che vede per i due schieramenti armi disuguali, purtroppo.

 

Postfazione (di Andrea Fumagalli)

 Augusto Graziani è stato uno dei più lucidi e critici economisti italiani, meritevole al pari di Luigi Pasinetti di ricevere il premio Nobel, se non avesse sviluppato un approccio teorico troppo radicale per l’accademia. Tra i vari temi che hanno innervato la sua ricerca teorica, oltre alla teoria del circuito monetario, è presente anche la cd. «questione meridionale». Graziani comincia ad occuparsene nel suo secondo libro, del 1969: Lo sviluppo di una economia aperta. Diversamente dalla teoria economica dominante (basata sulla teoria ricardiana dei vantaggi comparati) e riattualizzata negli anni ’20 del secolo scorso da Bertil Ohlin e da Eli Heckscher, secondo Graziani la competitività di un paese non dipende né dalle dotazioni fattoriali né dai vantaggi comparati. La scelta dell’Italia di aprirsi al mercato internazionale, con l’adesione alla Cee del 1956, ha come conseguenza l’adozione di certe tecnologie adeguate alla competizione internazionale, in grado di determinare la dinamica della produttività e la quantità di lavoro occupabile: ciò avviene nelle fabbriche del Nord-Ovest con l’adozione delle tecniche tayloriste di produzione nei settori dell’automotive e dei beni durevoli, farmaceutica e macchine utensili. In questi settori è possibile godere di salari relativamente più alti della media nazionale, anche se molto più bassi dei partner europei a cui l’export era rivolto. Il resto della forza-lavoro può trovare occupazione in quelle imprese che non producono per l’estero, e che rimangono intrappolate in un circolo di bassa produttività e bassi salari. Si genera così uno dualismo crescente e divergente tra Nord e Sud, dal momento che i settori esportatori si collocano al Nord e quelli più poveri al Sud. Il cd. «miracolo economico» italiano del II dopoguerra è generato quindi da una crescita trainata dall’export che acuisce tuttavia le differenze territoriali. Tale modello di crescita è inoltre facilitato dalla vasta emigrazione di forza lavoro operaia (l’operaio massa di Nanni Balestrini in Vogliamo tutto) dal Sud al Nord-Ovest nelle grandi fabbriche con l’effetto di calmierare la dinamica salariale a vantaggio di una crescente competitività di prezzo.

Tale spiegazione era opposta a quella più in voga negli anni ’60, delineata da Vera Lutz, che spiegava il dualismo territoriale come esito dell’azione sindacale. Per Graziani, l’azione sindacale si svilupperà alla fine degli anni ’60 con l’abolizione delle gabbie salariali (accordo 18 marzo 1969), in un periodo troppo tardivo per consentire che la crescita economica degli anni ’60 potesse favorire una convergenza tra Nord e Sud.

La «questione meridionale» è di conseguenza figlia del modello di sviluppo che ha contraddistinto l’economia italiana nel secondo dopoguerra del secolo scorso. Si tratta di un problema quindi di natura strutturale, fondato sul dualismo tecnologico, retributivo e di formazione. Fattori che, come rileva lo stesso Graziani in questo intervento mai pubblicato, non possono essere irrisolti nell’immediato con la semplice adozione di investimenti pubblici nelle aree del Mezzogiorno. Investimenti che portarono alla creazione di grandi imprese a partecipazione statale che, come nota lo stesso Graziani, «venivano gestite senza alcun riguardo per l'ambiente locale, quindi privi di effetti propulsivi».

A vent’anni da questo intervento e alla luce del dibattito attuale su estrattivismo e dispossessione, ci sembra ravvedere nell’intervento di Augusto Graziani un’anticipazione di questi temi, anche se, per ovvie ragione, solo accennati. Le grandi imprese statali del Sud possono essere considerati con un innesto sul territorio semi-rurale, artigiano e commerciale (tradizionale) di qualcosa calato dall’alto. Nei tardi anni ’60 e nei primi anni ’70 vi furono segnali positivi di una possibile convergenza. Ma tale fase poi non è riuscita a sedimentarsi, sia a causa della forte emigrazione verso nord, soprattutto di giovani, sia perché la creazione di grandi poli industriali non è stato in grado di sviluppare e economie di scopo sinergiche con il territorio. Non vi sono state quindi esternalità positiva e a lungo andare si sono manifestate anche esternalità negative. I casi più eclatanti sono stati Gioia Tauro ieri e Taranto oggi. Ma è soprattutto sul piano ambientale e del deturpamento del territorio che si sono verificati i danni maggiori.

Da questo punto di vista, in ultima analisi, anche se non si è trattato di una vera e propria dispossession o land grabbing, i risultati finali hanno finito ad essere simili a quelli di una politica non di ricostruzione ma di estrazione.

È quindi lecita la domanda che si pone Augusto Graziani: fu vero sviluppo? Se 20 e più anni fa la risposta poteva essere incerta, oggi possiamo dire che non c’è stato sviluppo ma un impoverimento relativo funzionale ai nuovi processi di accumulazione estrattivista.


* * *


Augusto Graziani è stato uno dei maggiori economisti italiani della seconda metà del XX secolo e studioso di problemi di teoria e politica economica, partecipando al dibattito sulla situazione economico-finanziaria del paese per un cinquantennio. Nelle tappe più rilevanti del suo percorso scientifico è sempre costante il legame con l’approccio meridionalistico quale fondamentale punto di riferimento.


Francesco Maria Pezzulli sociologo e ricercatore indipendente. Ha insegnato presso l’Università La Sapienza di Roma e svolge attività di ricerca e inchiesta nel Laboratorio sulle Transizioni, il mutamento sociale e le nuove soggettività dell’Università degli Studi di Roma Tre. Si occupa delle tematiche inerenti lo sviluppo capitalistico e il Mezzogiorno italiano.


Andrea Fumagalli è docente di economia all’Università di Pavia. È stato fondatore della rivista «Altreragioni». Con Sergio Bologna ha curato Il lavoro autonomo di seconda generazione (Feltrinelli, 1997). Altri suoi lavori sono: Bioeconomia e capitalismo cognitivo (Carocci, 2007) e La moneta nell’impero (insieme a Christian Marazzi e Adelino Zanini, ombre corte, 2002). Per DeriveApprodi ha pubblicato: La moneta del comune (2015), Economia politica del comune (2017), Valore, moneta, tecnologia (2021).

Comments


bottom of page