Taranto, dissalatore ed ecologia del sacrificio
- Simone Villani
- 6 giu
- Tempo di lettura: 10 min

Finanziato al 73% col Fondo di Sviluppo e Coesione e al 27% col Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, il progetto di costruzione del dissalatore del fiume Tara si inserisce perfettamente nella lunga storia di gestione emergenziale e devastazione ambientale del territorio tarantino, riverbero fedele di quanto accade più in generale nei Sud mediterranei. L’investimento in infrastrutture invasive rivela l’interesse a investire in settori che soddisfino le richieste energivore di un sistema che non è messo in discussione alla radice, e che si basa sul governo necropolitico dei territori distribuendo la vulnerabilità alla morte prematura secondo gerarchie razziali.
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Ci avete tolto l’aria.E ora volete toglierci anche l’acqua.
Dal presidio davanti alla Camera di commercio, Taranto, 10/05/2025
A Taranto è in progetto la costruzione del più grande dissalatore d’Italia – un primato che richiama alla memoria la più grande acciaieria d’Europa – che sorgerebbe sul versante occidentale della costa ionica, in un’area già fortemente compromessa dalla presenza della raffineria ENI, dell’ex Ilva, della discarica Italcave e di quelle gestite dalla Cisa S.p.A., l’azienda di gestione dei rifiuti che ha ricevuto l’appalto per la costruzione del dissalatore in consorzio con la Suez Italy, Suez International, Edil Alta, Ecologica spa, AI Engineering e Consorzio Uning.
Il progetto di costruzione ha già sollevato diversi dubbi sulla salute del fiume, presenta il problema dell’espianto di centinaia di ulivi nei suoi pressi e degli agrumeti direttamente posseduti dai contadini, nonché costituisce uno sconvolgimento delle relazioni ecologiche tra l’ecosistema-fiume e le comunità che ci vivono insieme, già depresse dalla presenza della fabbrica. Criticità sollevate dai movimenti, dall3 cittadin3, dalle associazioni ambientaliste, e persino dal ministero della cultura, da Arpa Puglia e Asl Taranto. È chiaro, tuttavia, che il problema non è circoscrivibile nella presunta migliorabilità del progetto da parte dei suoi promotori, Regione Puglia e Acquedotto Pugliese; piuttosto, si trova nella decisione stessa di costruire il dissalatore e nella retorica scelta per giustificarne la costruzione, elementi che se analizzati ci rivelano il quadro d’insieme in cui s’inserisce quest’opera.
L’acqua estratta dal fiume andrebbe infatti distribuita nella regione per affrontare il problema dell’emergenza idrica e della siccità. Tuttavia, come testimoniano già numerose ricerche e perizie, sul territorio sono già presenti numerosi invasi che potrebbero essere riparati e potenziati, riducendo i costi e l’impatto ambientale. Ma perché allora non si investe in queste manutenzioni, invece che progettare una nuova grande opera? La risposta sembra risiedere nell’interesse a investire i finanziamenti del PNRR e del FSC in settori strategici e ad inserire nuovi attori transnazionali nella gestione delle infrastrutture pubbliche.
L’emergenza economica e l’emergenza climatica
Il progetto di costruzione del dissalatore è infatti un elemento della spesa dei fondi europei e nazionali per l’attuazione del progetto di una «transizione verde», ossia di investimento in un nuovo settore produttivo individuato come redditizio per uscire dalla depressione post-pandemica. Nel progetto del dissalatore si conguagliano quindi le risposte a due tipi di emergenza: quella economica (riprendersi dalla depressione) e quella climatica (far fronte alla siccità).
Tuttavia, sappiamo che il ricorso alla strategia di pianificazione per il governo dell’emergenza è stato storicamente lo strumento adottato dal complesso stato-capitale per il governo dei nostri territori meridionali ed insulari. È l’emergenza rifiuti, l’emergenza povertà, l’emergenza criminale, l’emergenza rurale, l’emergenza mafiosa che contribuiscono a confermare l’idea coloniale di un Mezzogiorno arretrato, sottosviluppato, incivile e barbaro che verrà prontamente salvato dall’intervento istituzionale della pianificazione. Non solo: l’emergenza come strategia di legittimazione dell’intervento di pianificazione finisce col nascondere le intenzioni e le responsabilità politiche dietro la finta neutralità dell’azione «tecnica», che interviene per sanare un problema «oggettivo», e che perciò limita lo spazio della contestazione alla valutazione della sua più o meno corretta applicazione. Non si può dire che nei nostri Sud i problemi ci sono perché «non c’è lo Stato»: al contrario, storicamente è stata proprio la pianificazione dall’alto a regolare l’economia e la politica di questi territori. Alla gestione emergenziale dell’economia dei Sud, oggi si aggiunge anche la pressione a gestire l’emergenza climatica, ma il succo non cambia; cambiano piuttosto i settori strategici di investimento e pianificazione.
Quando confrontiamo questa retorica, ci chiediamo innanzitutto: per chi la crisi ecologica è un’emergenza? Taranto e i Sud mediterranei conoscono la crisi ecologica ed economica da decenni: la vivono come condizione permanente. Per chi gli ultimi anni sono stati il risveglio da una condizione di indifferenza di fronte alla crisi ecologica, o meglio di risveglio da una condizione di privilegio? E invece per chi questo sonno è stato sino ad ora l’assenso a politiche dell’abbandono? Quando pensiamo a delle strategie per affrontare le crisi ecologica, per chi sono pensate queste strategie? E invece per chi continuare a rimandare significa cronicizzare un’emergenza? Se solleviamo il tappeto, sotto troviamo ancora la stessa polvere: la narrazione coloniale dei Sud come non-ancora moderni serve a legittimare l’ordine di priorità con cui affrontare le decisioni pubbliche e politiche.
Investimenti e soluzioni spaziali
In secondo luogo, la costruzione di questo dissalatore come gestione pianificata dell’emergenza economico-climatica rivela un’altra necessità del capitale e del suo spirito di autoconservazione. Nel capitalismo, infatti, il capitale deve costantemente circolare per evitare le crisi. In generale il capitale investito nella produzione genera un profitto attraverso la vendita delle merci prodotte – realizzando così il plusvalore che esiste in modo potenziale nella merce prodotta dal lavoro sfruttato; tuttavia, quando i settori produttivi sono poco redditizi, il capitale si rivolge a beni fissi come le infrastrutture o gli edifici per realizzarsi in profitto. In altri termini, costruire – spendere – è un ottimo modo per investire capitale. Sembra un controsenso, ma solo perché il sistema funziona in modi contraddittori per auto-stabilizzarsi. Questo processo di investimento strutturale produce un’antropizzazione finalizzata all’accumulo che cambia le geografie e gli equilibri territoriali, permettendo di regolare i flussi di capitale secondo necessità: tramite una soluzione spaziale (spatial fix), il sistema è temporaneamente stabilizzato. Perciò si ottengono grandi progetti di sviluppo urbano, anche quando non ce n’è bisogno o si potrebbe fare diversamente: lo scopo non è produrre qualcosa per il suo uso, ma per scambiarla. Tuttavia, quando questi investimenti falliscono nel realizzare i profitti attesti, i progetti vengono abbandonati.
Lo vediamo anche per la vicenda del fiume Tara. Legittimata attraverso il ricorso alla retorica della necessità di affrontare al più presto il problema della siccità della regione, la costruzione del dissalatore costituisce un palliativo ad un problema ecologico complessivo. Se l’obiettivo fosse realmente quello di affrontare il problema ecologico della siccità, gli investimenti verrebbero orientati verso una riconversione profonda del modello produttivo: la siccità di cui parliamo qui, infatti, è conseguenza dell’aumento della temperatura globale generato dal capitalismo fossile, che sottopone i territori ad un’arsura che aumenta i gradienti di evaporazione del terreno e li espone ad una carenza di precipitazioni sufficienti a riempire i corsi d’acqua, rallentando la crescita di alberi e colture, aumentando l’attacco dei parassiti e danneggiando le infrastrutture di trasporto. Senza agire sulle cause profonde, si investe denaro e si creano nuove infrastrutture senza risolvere il problema alla radice.
Non solo: così si fa un passo avanti nell’applicazione di un modello di sviluppo estremamente energivoro. Nonostante la minore concentrazione di sali nel fiume Tara rispetto al mare, dissalare un corso d’acqua attraverso un impianto rimane un progetto che richiede un consumo di energia; nonostante i generici richiami alle Garanzie di Origine, non abbiamo indicazioni precise sulla rinnovabilità dell’energia consumata in tempo reale. Il rischio evidente è che il dissalatore, pur presentato come progetto «green», vada semplicemente ad affastellarsi sopra i sistemi di produzione fossile già esistenti senza soluzione di continuità. Come l’introduzione dell’eolico, dell’elettrico e del fotovoltaico in Puglia non sono stati di per sé la soluzione al problema dell’inquinamento, l’introduzione del dissalatore creerà un mosaico incoerente dove tecnologie rinnovabili e sistemi di contrasto alla crisi climatica convivono con sistemi fossili. Tuttavia, come si potrebbe sperare, non si tratta di una fase provvisoria: secondo una versione ecologica del paradosso di Jevons, l’innovazione tecnologica lungi dal contenere il consumo di energia, finisce per alimentarlo – ciò accade esemplarmente nel capitalismo «verde». Otteniamo così un paesaggio contraddittorio che risulta consequenzialmente da un modello economico che continua ad aumentare il proprio fabbisogno energetico e non cambia i propri modelli di sviluppo, mascherando la mancata trasformazione strutturale con soluzioni che rinviano all’infinito la possibilità del cambiamento.
Tuttavia, il problema non sta solo nella trasformazione dell’energia in profitto: a rischio è la salute sia dell’ecosistema biofisico che di quello sociale, che nella complessità della vita ecologica quotidiana sono un tutt’uno. Se il fiume Tara si prosciuga, se gli ulivi e gli agrumeti vengono espiantati, se la fauna locale migra altrove, se le persone non possono più fare i bagni al fiume e ritrovarsi per godere delle sue acque e della socialità che esse generano, il problema si allarga a comprendere l’identità di un luogo, le sue tradizioni, la cancellazione di una storia e di un rapporto ecologico. C’è una necessità, che è quella di riorganizzare la riproduzione della vita di fronte ad un lutto ecologico, e c’è una dignità politica profonda, a fronte dei ripetuti lutti – umani ed ecologici – che l3 tarantin3 hanno dovuto affrontare, nel continuare a farlo. In gioco c’è la possibilità stessa di autodeterminare il proprio futuro; c’è lo spettro di confrontare l’accresciuta vulnerabilità alla morte prematura di questi territori.
Ecologia di sacrificio e razzismo ambientale
Taranto è un luogo la cui vulnerabilità alla malattia e alla morte è stata accresciuta da decenni di industrializzazione forzata. La storia non è nuova, la conosciamo bene: comincia con la Marina e l’Arsenale, i Cantieri Navali, negli anni ’60 si esprime con la conversione a monocultura d’acciaio della città, poi la base NATO, le discariche, la raffineria, oggi le crociere di lusso e il dissalatore. Questa vulnerabilizzazione prolungata dei corpi e dei territori, dei luoghi cari alle comunità locali, degli ecosistemi, non è semplicemente una sottrazione: produce materialmente un ambiente antropizzato ecologicamente connotato secondo la disposabilità, il rifiuto, il sacrificio.
Ancora prima che arrivasse la sentenza dell’ONU – che nel 2022 ha dichiarato Taranto zona di sacrificio – ci chiedevamo perché e in che modo vivessimo vite sacrificate. Sacrificate a chi? Del resto, sappiamo che il diritto internazionale arriva sempre in ritardo rispetto ai processi di autodeterminazione dei popoli in lotta: il processo per la formalizzazione dell’accusa di genocidio ai danni del popolo palestinese è ancora in corso. Quando pensiamo alla zona di sacrificio, a quasi due anni dall’inizio del genocidio, non possiamo non continuare a pensare alla Palestina e alla pulizia etnica del suo popolo. Terre sacrificabili e persone sacrificabili (disposable land, disposable people): così il potere coloniale, alle diverse latitudini del capitale, esercita la sua forza necropolitica, decide chi è sacrificabile e chi non lo è.
Il razzismo è il suo strumento organizzativo, un fenomeno sistemico che sostiene il progetto del suprematismo bianco e la distribuzione della vita e della morte. Non si tratta semplicemente di un fenomeno di discriminazione basato sul pregiudizio, che sarebbe possibile superare con una maggiore educazione e una maggiore rappresentazione delle persone razzializzate. Secondo l’elaborazione di Ruth Gilmore, il razzismo è un sistema di distribuzione differenziale di vulnerabilità alla morte prematura: un sistema che innerva la società in modo tale che alcuni gruppi siano più esposti alla morte, alla malattia, alla detenzione in carcere e nei cpr, alla profilazione razziale e all’omicidio da parte della polizia, all’espulsione, alla migrazione, alla precarietà e alla sofferenza rispetto ad altri. La sua tentacolarità può essere più facilmente compresa se lo intendiamo come un sistema di definizione differenziale – per negazione – di tutto ciò che non corrisponde al progetto eurocentrico di modernità coloniale, un sistema di affermazione per via negativa del suprematismo bianco. Il suprematismo bianco non ha bisogno di prendere la forma del fascismo per esistere: esiste in ogni definizione negativa di ciò che non è abbastanza «bianco».
Questo significa che la definizione di ciò che è razzializzato varia nel tempo e nello spazio, e che la razza non è un dato biologico ma un progetto politico, sociale e storico. Se pensiamo alla storia politica reazionaria, fascista e coloniale dell’Italia, la definizione di ciò che è altro rispetto ad una supposta identità nazionale ha preso le sembianze di diversi gruppi sociali: i «terroni», gli albanesi, i migranti nigeriani, gli italiani con origine marocchina e tunisina, genericamente gli «arabi» o gli «africani»; da quando la strategia della «guerra al terrore» è stata adottata dai paesi dell’Occidente, l’Italia ha creato come suoi nemici i «terroristi», di volta in volta individuati nei migranti, nei musulmani, oggi anche nei palestinesi in lotta e in diaspora. L’islamofobia, la povertà intergenerazionale, l’esclusione dall’assistenza sanitaria e il ricatto del permesso di soggiorno sono parte integrante del progetto di definizione del suprematismo bianco, di cui la modernità cattolica eurocentrica è espressione. Per la nostra comprensione meridiana, abbiamo bisogno di tenere a mente questo elemento di definizione su scala globale delle gerarchie della razza e pensare i nostri Sud in un quadro transnazionale più ampio.
Leggiamo il discorso di Damu Smith durante l’Earth Day Protest a Washington del 18 aprile 2001:
Tutti noi abbiamo decine di sostanze chimiche nei nostri corpi, nei nostri tessuti, nel nostro sangue, che provengono da una serie di industrie inquinanti e processi industriali in corso in tutto il pianeta. In particolare, negli Stati Uniti e in altri paesi industrializzati, abbiamo industrie come il vinile e la plastica e industrie petrolchimiche che emettono tossine pericolose che danneggiano la salute umana e causano la morte di molte persone. Veniamo avvelenati e uccisi contro la nostra volontà. … Mentre tutti sul pianeta soffrono di contaminazione tossica, ci sono alcune comunità che sono state prese di mira e che, come risultato di un targeting basato sulla razza e sul reddito, stanno ricevendo una quota sproporzionata dell'inquinamento del pianeta e della nazione. Le persone nere, afro-americane, latine, native americane, asiatiche e i bianchi poveri stanno ricevendo una quota sproporzionata dell'inquinamento della nazione. Di conseguenza, la malattia e la morte in quelle comunità sono più alte. Dobbiamo opporci e sfidare il razzismo ambientale.
In un contesto di vulnerabilità alla morte prematura in cui ancora riversano i Sud di questo paese e del mediterraneo, nel solco di narrazioni coloniali che ancora definiscono ciò che è degno di vivere e ciò che merita la morte, progetti come quello del fiume Tara contribuiscono a creare le condizioni materiali della razzializzazione di questi territori. Non si tratta di una banale scelta amministrativa o un mero errore progettuale, ma l’espressione coerente di un ordine di priorità che distribuisce selettivamente le possibilità di vita e morte degli ecosistemi.
Il genocidio in Palestina non è solo un momento tragico nella storia dell’umanità. È il pretesto per il sistema di potere coloniale di riaffermare sé stesso in continuità con la sua storia, e di riverberare il suo progetto suprematista in tutti gli angoli del mondo. È a partire dal confronto con l’idea di una modernità europea come superiorità morale, sociale, culturale, religiosa, tecnologica, che ogni altra cosa può assumere il suo posto: è per questo che la lotta per la liberazione della Palestina ci riguarda tutt3, perché tutt3 siamo chiamat3 a confrontarci con questa idea di suprematismo, che informa e organizza ogni aspetto della nostra vita. Ogni progetto politico che non provi a invertire di senso questa relazione è destinato a riaffermarla, è destinato all’incapacità di affrontare il problema alla radice; non solo, di posticipare il tempo in cui verrà risolta.
Per ciò che riguarda la salute di Taranto, gli enti regionali e privati sono chiamati ad assumersi la responsabilità di invertire la rotta di questa nave che cola a picco. Sono chiamati a fermare il progetto del dissalatore. È a causa di questa mancanza di responsabilità che lasciamo la nave sulle scialuppe di salvataggio, e migriamo. Sacrificio e migrazione sono nella nostra esperienza due facce della stessa medaglia. Per noi che siamo migrat3, a chi resta va il nostro pensiero. Che sia rimanendo o migrando, cerchiamo di resistere a quello che qualcuno vorrebbe farci vivere come un destino: cerchiamo di sottrarci al sacrificio.
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Simone Villani (1998) è ricercatore precario, traduttore, articolista e attivista. Originario di Taranto, vive a Bologna.
Drift Boss rewards brains over reflexes. Sure, you’ll have to hide and run occasionally—but most of the time, your weapon is logic. Clues, contradictions, old letters, and corrupted files lead you to the truth behind each soul’s debt.