top of page

Quando le stelle sono cadute sulla terra

Per Franco




Franco Piperno
Franco Piperno in una foto dell'archivio storico de L'Unità

Un ricordo di Franco Piperno scritto da Gigi Roggero.


 ***

 

«Sono in disaccordo con i miei amici qua a Roma che hanno fatto una Camera del nuovo lavoro, perché penso che sia sbagliato tentare di organizzare i precari attraverso un sindacato, secondo me è un errore. Ovviamente penso anch’io che ci siano queste forme di lavoro nuovo, e peraltro non vedo negativamente queste cose part-time ecc., anch’io chiaramente credo che ci sia bisogno di garantire loro dei diritti; ma questi diritti sono proporzionali alla loro forza, non è che vengono da qualche teoria generale su quello che è giusto per gli umani, è legato alla loro capacità di organizzarsi»

(intervista a Franco Piperno, 31 agosto 2000).

 

E così, caro Franco, anche tu te ne sei andato. Un giorno, durante un dibattito a Cosenza, tua città di adozione, al termine di una discussione vibrante e bellissima, mai scontata, come sempre erano le discussioni con te, mi dicesti che un giorno avrei dovuto darti ragione. Lo hai sostenuto con tono pacato e ironico, senza alcuna presunzione o necessità di dimostrare alcunché, con il tuo ineguagliabile sorriso. Ineguagliabile perché sgorgava innanzitutto dagli occhi. Non ricordo più l’oggetto specifico della discussione. Ricordo però che, come in tante altre occasioni, a distanza di tempo ti ho dato ragione.

La capacità di insegnare discutendo, ecco ciò che appartiene solo ai pochi. Maestri saremmo tentati di aggiungere, se non che il termine è abusato e sporcato da ignobili aggettivazioni che, puntuali, si ripetono anche in questa occasione, uscite dalle penne di chi scrive perché non sa pensare. In quelle discussioni con te capitava spesso di arrabbiarsi, e questo era il tuo obiettivo. Non stupire o provocare, come in tanti credevano per chiudersi a riccio nella difesa dei propri dogmi o del proprio ego. Perché solo nell’arrabbiatura si poteva cominciare a riflettere, liberandosi dai ceppi della mente, da ideologie o facili certezze che, senza che ce ne accorgiamo, si impossessano di noi, rendendoci prigionieri della pigrizia. Non l’ozio, che hai sempre rivendicato come tempo liberato dal lavoro. Bensì la banalità di una verità senza fatica. Il contrario del vero non è il falso ma il banale, diceva qualcuno. Ecco, ci hai sempre insegnato a cercare il vero e dunque a fuggire dalla banalità. Ce lo hai insegnato senza pretendere di insegnarlo. E chi non ha utilizzato l’arrabbiatura per riflettere ma per dare un ulteriore giro di chiave ai propri ceppi della mente, tanto peggio per lui o per lei.

Ci siamo conosciuti per la prima volta nell’agosto del 2000 quando, insieme a Guido e a Francesca, siamo venuti a Roma per intervistarti per un progetto di «conricerca», dicevamo con suggestiva cautela, che avrebbe condotto a un libro uscito per DeriveApprodi, Futuro anteriore. Dai «Quaderni rossi» ai movimenti globali: ricchezze e limiti dell’operaismo italiano. Non una ricostruzione storiografica, ma il tentativo di usare il passato come un presente virtuale, partendo dai limiti per trasformare le ricchezze in risorse di pensiero politico da utilizzare. Impresa non facile, perché a distanza di tempo quelle esperienze, nelle teste dei protagonisti, sono inghiottite dalla sdolcinata melassa nostalgica e dalla stucchevole retorica memorialistica. E ancor più oggi, di fronte alle difficoltà del presente, la triste via di fuga è il contrario di quello che tentavamo di fare: il presente viene utilizzato come un passato virtuale. Facebook diventa così la patetica macchina del tempo in cui riattivare improbabili mitologie e deliranti diatribe, e soprattutto per sfogare la frustrazione della solitudine. È il perverso risultato dell’incapacità di fare i conti con l’età che avanza e la comprensione del mondo che indietreggia. Lì gli anni Settanta diventano settantismo, malattia senile del comunismo.

Questa malattia non ti ha mai sfiorato, caro Franco. Al contrario, come pochi altri, cioè i grandi della nostra patristica sovversiva, il settantismo lo hai sempre irriso. Quando qualcuno provava a riportarti dentro quella gabbia, tu non ti facevi prendere. Come quella volta a Trieste, nel 2005, dopo che era riscoppiato la ciclica polemica su Primavalle. «Cosa ne pensa di questo?», ti chiese a bruciapelo un giornalista, accendendo la telecamera a tradimento e mostrandoti un volantino dei fascisti locali che ti accusava di essere un assassino che se ne deve andare immediatamente dalla città. Tu non ti sei scomposto o stupito nemmeno per un secondo, con scenografica calma e serietà hai scorso il foglio e, senza alzare gli occhi, è partita la sciabolata: «Leggendo questo volantino penso di poter dire di non aver sprecato la mia vita». Fine dell’incontro per ko alla prima ripresa.

È proprio questo che ti ha permesso di vivere il comunismo come un comportamento, uno stile di relazioni, un’abitudine. «Il mio interesse, anche proprio umano, sentimentale, è per tutte le forme di cooperazione che noi possiamo attivare senza prima aver fatto la rivoluzione e avere scacciato i nostri nemici. Se noi pensiamo ad esempio che il comunismo sia un’alternativa prima di tutto di vita quotidiana, non di ideale proclamato, ma di modo di vivere, anche di umanità a mio parere, anche oserei dire di dolcezza, di un vivere più caldo, allora se è così la cosa interessante è sperimentare quello che a noi sembra adeguato a questo, e subordinare tutto a questo tipo di esperienza». Il comunismo come qualcosa che si vive e non che viene istituito da ente sovrano, o meglio un comunismo che si istituisce vivendo nella rottura radicale con ogni pensiero universalista e statuale. È ciò che ti ha condotto all’interesse per il genius loci, per la comunità – termine tremendamente ambiguo e, anche per questo, da te ritenuto tremendamente importante. Fondare una città, ecco un grande progetto militante. Non aspettare la città celeste o rossa, ma fondarla qui e ora – questo è il comunismo.

Non era sempre facile seguirti, certo. Sempre, tuttavia, ne valeva la pena. A partire dalla tua critica della scienza, un bagaglio di inestimabile valore che, come per i grandi filosofi fino a Socrate, ha avuto nella trasmissione orale una forma estremamente più consistente che nel pur rilevantissimo lascito scritto. Attenzione, non semplicemente l’utilizzo capitalistico della scienza per fare i profitti e le guerre. Ma la critica della scienza in sé, degna del miglior Musil, in quel processo che conduce ai fach-idiot, gli idioti specializzati che «sanno tutto su niente». L’esatto contrario dell’individuo sociale, cioè «l’individuo che è all’altezza del genere», una delle ipotesi marxiane più care a Franco. Un fisico che criticava la scienza, insomma. Non con un atteggiamento anti-scientifico bensì anti-scientista, ovvero contro quel processo di teologizzazione della scienza e della tecnoscienza che è oggi sotto gli occhi di tutti.

Anche qui risiedeva la tua nietzscheana inattualità. Nel volgere gli occhi al cielo non per cercare Dio ma le stelle. Per leggere lì la mappa delle nostre genealogie, in un passato che continuamente ci guarda e che noi fatichiamo a guardare. Nella rottura del tempo lineare, architrave del pensiero illuminista, tuo e nostro grande nemico. «Il tempo è una variabile dipendente dalle esigenze collettive; non è viceversa che ci sia un tempo che scorra comunque qualsiasi cosa fai e quindi sia la misura di tutte le cose». E così, «guardando le stelle (avendo naturalmente la capacità di guardarle, non osservando distrattamente il cielo), oppure osservando un albero o un animale che partorisce, tu hai questo senso di appartenenza a qualcosa che è una cosa che avviene prima di ogni cultura, o se si vuole è la prima cultura». In quelle straordinarie nottate passate incantati dal tuo raggio verde che penetrava l’oscurità del cielo e dai tuoi straordinari racconti per leggerlo. Alla ricerca delle capacità smarrite: «Penso che un cittadino che sa qualcosa del cielo e un cittadino che ignora tutto sul cielo, sono individui in buona parte differenti. Il primo ha l’opportunità di riflettere sui temi suscitati dalle immensità del cielo e sulla irrilevanza – non solo dell’Italia – ma dell’intero sistema solare; acquisita questa cosa, la accetta come un fatto compiuto. Questo è lo stesso balzo che si percepiva nell’antichità, dove ad Atene al tempo di Pericle, un ragazzo che studiava conosceva (secondo Vigée) una ottantina di stelle e una quarantina di costellazioni, sicuramene facilitato dal cielo notturno molto visibile». Per poi dormire al mattino fino a tardi, come era nelle tue abitudini («ho fatto fisica nucleare che non mi piaceva anziché un’altra perché era l’unica in cui le lezioni erano al pomeriggio!»).

Il nuovo non esiste, ripetevi spesso contro l’ideologia imperante del nuovismo. Perché è semplicemente una ricombinazione di elementi già esistenti. E il futuro non esiste, una delle prime cose che, criticandomi, mi hai insegnato. È vero, anche qui avevi ragione. E la tua critica, come sempre sferzante nella forma e dolce nella sostanza, ha illuminato il percorso. Come una stella, appunto. Abbiamo afferrato politicamente Koselleck attraverso di te. Il futuro è una menzogna condivisa dalla morale cristiana e da quella socialista: nella forma del paradiso o del sol dell’avvenire, serve ad allontanare continuamente la salvezza, ovvero a far accettare il sacrificio al servizio di dio e del partito. A partire da qui, ci siamo detti, esiste una differenza radicale tra futuro e prospettiva, intesa come capacità di non farsi consumare dal presentismo. E lì, con il grande dirigente di organizzazione, ci siamo ritrovati su un terreno più avanzato.

Caro Franco, come hai scritto in occasione della scomparsa dell’amico e compagno Alberto Magnaghi, la tua morte ci diminuisce. E però, noi sentiamo forte la potenza della tua vita, del tuo pensiero, della tua tagliente ironia. Della tua amicizia, maturata in questi 25 anni, anche quando passava un sacco di tempo prima di rincontrarsi. Perché con te ci si rincontrava sempre. Vorremmo chiudere con una delle fulminanti battute che, insieme a tante altre cose, ti hanno reso celebre. Ma qui, davanti ai nostri limiti, ci fermiamo. E continuiamo a sforzarci, con il tuo raggio verde, di trovare la luce delle stelle nell’oscurità della terra in cui viviamo.


***


Gigi Roggero è il direttore editoriale di DeriveApprodi. Pubblicista militante e curatore, per Machina, della sezione freccia tenda cammello. Ha pubblicato con DeriveApprodi: Elogio della militanza (2016), Il treno contro la Storia (2017), L’operaismo politico italiano. Genealogia, storia e metodo (2019), Per una critica della libertà. Frammenti di pensiero forte (2023); è inoltre co-autore di: Futuro anteriore e Gli operaisti (2002 e 2005).

Comments


bottom of page