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Dalla lotta di classe alle lotte di classe


«Doc(k)s», Fire


La disfatta storica della «rivoluzione mondiale», a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, ha lasciato i movimenti orfani dello strumento politico più efficace per condurre le lotte contro il capitale e le altre forme di sfruttamento e di dominio (patriarcato, colonialismo, neo-colonialismo, razzismo, sessismo). Con la rivoluzione hanno perso il loro vantaggio strategico, la loro capacità di dettare il terreno dello scontro, ritrovandosi alla mercé dell’iniziativa capitalistica, che subiscono ormai dagli anni Settanta.

Ma quando gli oppressi ritrovano forme di azione collettiva, la rivoluzione, anche se timidamente, anche se in maniera confusa, ritorna a popolare i loro discorsi e le loro azioni. La memoria delle lotte e delle battaglie, cancellata durante gli anni della sottomissione alla logica della governamentalità, rispunta nei due potenti cicli di lotta che si sono dispiegati dopo il crollo finanziario del 2008 su scala mondiale, quello del 2011 e quello, forse ancora più radicale, del 2019. Come affermava un politologo francese a proposito del movimento dei gilet gialli, questi ultimi avrebbero fatto risorgere nell’«opinione pubblica» l’immaginario della lotta di classe. Ciò che emerge è piuttosto la realtà delle lotte di classe al plurale che, come in Cile o in Algeria, in Francia o in Sudan, in Iraq, Libano, Iran ecc., cercano di rinnovare la tradizione rivoluzionaria, facendo tesoro dell’esperienza delle vittorie e delle sconfitte.

Non possiamo costruire una teoria delle nuove forme che la rivoluzione dovrebbe assumere. Questa potrà essere elaborata soltanto da coloro che proveranno a farla e pensarla. Quello che, umilmente e in maniera limitata, possiamo ricostruire, sono le condizioni oggettive e soggettive che sembrano di nuovo puntare verso una rottura con il capitalismo e le altre modalità di dominio e sfruttamento. La prima di queste condizioni è cogliere il passaggio dalla lotta di classe (capitale-lavoro), che era stata il motore della rivoluzione fino alla prima metà del XX secolo, alle lotte di classe, al plurale.

La macchina capitalista (capitale e Stato) ha sempre saputo comandare e sfruttare le differenti classi (lavoratori, donne, schiavi e colonizzati) anche se non è sempre all’origine della loro costituzione. Le divisioni di classe, di razza e di sesso sono dei punti di forza nelle mani del capitale, almeno a partire dal «lungo XVI secolo». La visione delle lotte di classe unicamente concentrate sul rapporto capitale/lavoro è limitata, pericolosa e in ultima analisi falsa. Il passaggio dalla lotta di classe alle lotte di classe non costituisce che un tentativo di colmare un ritardo dei movimenti rivoluzionari sulla strategia della macchine del Capitale che ha, da sempre, costruito e utilizzato questi dualismi sia dal punto di vista economico che politico.

Il pensiero del Sessantotto, e soprattutto il pensiero critico che si è sviluppato a partire dagli anni Ottanta, sembra aver confuso la critica della dialettica con la fine dei dualismi di classe che, al contrario, durante tutta l’epoca neoliberale, con un’accelerazione a partire dall’inizio del nuovo secolo, persistono, insistono e non hanno fatto che consolidarsi. Le rivolte, le insurrezioni, le mobilitazioni che infiammano il pianeta da ormai dieci anni, mettono al centro della battaglia politica la realtà di queste lotte di classe.

Prendendo in prestito liberamente dal femminismo materialista una cartografia della configurazione delle società capitalistiche contemporanee, possiamo avere un’idea più precisa della natura e dell’eterogeneità di questi dualismi e focolai di rivolte che non cessano di scoppiare dal 2011. Le differenze di reddito, di patrimonio, di abitazione, di scolarizzazione, di accesso alle cure, che si sono di nuovo acuite, non rinviano genericamente alle ineguaglianze, ma agli espropri e ai saccheggi del capitalismo finanziario. Le disuguaglianze non sono altro che il risultato, gli effetti di queste appropriazioni. Sono sempre il segno della lotta di classe tra i capitalisti e il proletariato. L’assenza di rivoluzione ha determinato un grande vantaggio dei primi. Sui secondi il razzismo, lungi dall’identificarsi con il «rifiuto dell’altro», di ridursi a un tratto culturale, psicologico o di carattere (o a un pregiudizio razzista, considerato all’epoca dei Lumi la causa dell’ingiustizia), afferma la dominazione della classe dei bianchi sulla classe dei non-bianchi. Storicamente, con la schiavitù e lo sfruttamento delle colonie, esso costituisce un modo di produzione «non propriamente capitalista» condizione indispensabile al funzionamento del mercato mondiale e responsabile, dal XVI secolo, dell’assoggettamento di milioni di persone. Nelle colonie, dice Fanon, ciò che divide è il fatto «di appartenere a una certa razza», in modo che «si è ricco perché bianco, si è bianco perché ricco».

Recentemente Trump ha rivelato la faccia nascosta del potere americano, costruendo tutta la sua campagna elettorale sulla pretesa di rappresentare i bianchi. Le ancora più recenti insurrezioni negli Usa sono delle lotte di classe a tutti gli effetti.

La creazione politica delle differenze sessuali tra uomini e donne, codificate dall’eterosessualità «obbligatoria», definisce la naturalizzazione di un altro modo di produzione «non capitalista» (di cui il capitalismo beneficerà largamente) e di un regime politico che fa di uomini e donne due classi antagoniste. Il modo di produzione domestico come il modo di produzione schiavistico, coloniale e neo coloniale non sono contenuti nel concetto di capitale. E si capisce facilmente perché. Al contrario del lavoratore, la donna è sfruttata e dominata in quanto donna, la sua subordinazione e la sua messa al lavoro passano attraverso il «sessismo». Nello stesso modo il non bianco è sfruttato e dominato in quanto uomo di colore e la sua subordinazione e la sua messa al lavoro passano attraverso il «razzismo». Il sessismo e il razzismo costituiscono delle relazioni di potere che Marx considera degli «anacronismi» mentre si tratta di dispositivi di potere indispensabili sia la funzionamento del mercato mondiale che al lavoro astratto.

David Harvey sbaglia quando considera che le relazioni razziali e le relazioni di potere sessuali «non dicono niente di particolare su come funziona il motore economico del capitale». Al capitale come processo economico, bisogna opporre un capitale come processo politico-economico la cui strategia compone e scompone i diversi modi di produzione e i diversi rapporti di potere, senza i quali il motore del capitale si fermerebbe immediatamente. Se le relazioni razziali e sessuali non sono comprese nel concetto di capitale è questo concetto che bisogna cambiare . Definire le mobilizzazioni di «Black lives matter» (prima di quelle odierne) come lotte antirazziste e non come lotte anticapitaliste manifesta l’urgenza, per David Harvey di cambiare il suo concetto di Capitale.

A questi tre dualismi bisogna aggiungerne un altro che ha giocato e gioca un ruolo fondamentale nell’organizzazione del capitalismo e nella dominazione delle donne, degli operai, degli schiavi, indigeni e colonizzati: la divisione cultura-natura. Non bisogna interpretarla alla Bruno Latour, come divisione tra esseri umani (dominio riservato alla politica) e non umani (dominio proprio della scienza), ma piuttosto come una gerarchia tra l’uomo (maschio, bianco, adulto, proprietario, europeo) e una «natura» che non è costituita soltanto dai non umani (la terra e le sue risorse), bensì anche da umani (schiavi, colonizzati, donne e i razzialmente inferiori). Privata di ogni «spirito», di ogni «anima», la natura è ridotta a pura quantità, ordinata dalla legge delle cause e degli effetti, oggetto di scienza. La riduzione dei non umani e degli umani a «oggetti» è una condizione fondamentale della loro oppressione e del loro sfruttamento. La natura sostituisce il Dio morente, determinando, come quest’ultimo, i posti e le funzioni «naturali» inscritti nei corpi di ciascuno.

La divisione stabilita da questi dualismi è in realtà una gerarchia che implica e legittima, ogni volta in maniera differente, lo sfruttamento specifico di una classe nei confronti di un’altra; la gerarchia è ugualmente all’origine di un regime di potere singolare che implica e legittima, ogni volta in modo diverso, l’oppressione di una classe da parte di un’altra. Le classi non sono preesistenti alla divisione gerarchica, ne sono il risultato, cosicché non ci sono proletari senza capitalisti, donne senza uomini e non-bianchi senza bianchi, nello stesso modo in cui non c’è natura senza l’uomo bianco, maschio, adulto, proprietario che se ne distingue come «eccezione».

Queste gerarchie costituiscono, per utilizzare un linguaggio marxista, tre «modi di produzione» differenti e tre regimi di potere eterogenei che coesistono e si implicano a vicenda, facendo emergere un problema politico inedito: i dominanti e i dominati di questi tre dualismi non coincidono, gli sfruttatori e gli sfruttati neanche. Questo pone un problema radicalmente nuovo per i rivoluzionari: il «nemico principale» non è unilateralmente definito, le diverse lotte di classe hanno obiettivi e priorità differenti che, dopo gli anni Sessanta, entrano effettivamente in conflitto tra loro.

Le classi così definite non sono omogenee poiché attraversate da altre gerarchizzazioni. La classe operaia, soggetto rivoluzionario egemonico per tutto il XIX secolo e la prima metà del XX, non può essere compresa senza le gerarchie di razza e di sesso che la dividono e giocano un ruolo economico e politico fondamentale per l’accumulazione e il potere capitalistico.

Nel dopoguerra le soggettivazioni rivoluzionarie e le innovazioni politiche più importanti non sono venute dalla classe operaia. Nel momento in cui le lotte delle donne, dei soggetti colonizzati e in minor misura degli ecologisti si manifestano, rendono impraticabili le politiche e le modalità di organizzazione del movimento operaio. La soluzione che quest’ultimo aveva adottato, gerarchizzare le contraddizioni in «principali» e «secondarie», per affidare la rottura a un soggetto rivoluzionario predefinito è, dall’emergere di questi soggetti politici irriducibili alla classe operaia, ormai impraticabile.

Possiamo già dedurre una cosa importante da questa trasversalità delle donne e dei non bianchi alla classe operaia e viceversa. Nessuno di questi dualismi, anche se reali, anche se fondati sui rapporti materiali di sfruttamento e di oppressione, anche se capaci di produrre degli assoggettamenti «alienanti» (operaio, donna, nero) non possono andare al limite delle divisioni che li costituiscono. Le opposizioni di classe non possono essere spinte agli estremi, come ha creduto a lungo il marxismo, producendo una semplificazione dove non si affrontavano che il capitalisti e gli operai. Questo è vero ugualmente dell’opposizione uomo/donna e per la divisione bianchi e non bianchi. Le rivoluzioni non potranno mai essere «pure». Queste differenti classi sono obbligate a «negoziare» uno sbocco comune alle loro lotte, poiché una rivoluzione riuscita è impossibile se portata unicamente da operai, donne o non bianchi.

I modi di produzione e di dominio delle donne, dei neo colonizzati, degli indigeni, non sono direttamente sovrapponibili a quelli del capitale. Le due gerarchie bianchi/non bianchi , uomini/donne sono caratterizzate da relazioni di potere personali. Come all’epoca della feudalità il potere si esercita attraverso un dominio diretto dell’uomo sulla donna e dei bianchi sui non bianchi. La famiglia nucleare è sicuramente una forme di riproduzione tipicamente capitalista, ma è stata costruita su un potere patriarcale che è «pre capitalista» , di modo che i due modi di produzione si ibridano ma senza perdere le loro specificità.

Per il Marx dei Grundrisse il capitalismo avrebbe cancellato definitivamente i «rapporti di dipendenza personali», instaurando «l’indipendenza personale fondata sulla dipendenza materiale». Ma quest’ultima non concerne che i salariati, mentre i tre quarti dell’umanità sono sotto il giogo della dominazione personale. La naturalizzazione, cioè la riduzione delle donne, dei colonizzati, degli indigeni, dei migranti e della «natura» a oggetti, non passa attraverso il feticismo delle merci e i suoi capricci metafisici (Marx), ma direttamente per il potere personale.

La produzione, come il lavoro delle classi non specificamente capitaliste, non è riducibile alla produzione e al lavoro organizzato dal capitale. Il lavoro delle donne, degli schiavi, dei colonizzati e degli indigeni non è come il «lavoro astratto» marxiano, un lavoro (formalmente) «libero», istituzionalizzato, contrattualizzato, pagato. Esso è, al contrario, gratuito o scarsamente remunerato e in ogni caso svalutato in quanto «non produttivo». La forza lavoro degli operai è venduta temporaneamente in cambio di un salario, la «forza lavoro» delle donne e degli schiavi (dei colonizzati e degli indigeni) è riappropriata una volta per tutte e al suo esercizio non corrisponde alcuna remunerazione (lavoro gratuito o lavoro mal retribuito!).

Senza l’estorsione di questo lavoro non «libero» e senza il saccheggio del «lavoro» della terra e delle sue risorse, il capitale e il suo favoloso sviluppo della scienza e della tecnica non potrebbero sopravvivere un giorno.

Questo nuovo quadro di lotte di classe qui rapidamente schizzato è nato con il capitalismo stesso, ma si è soggettivato in maniera radicale e generalizzata negli anni Sessanta e Settanta con le rivoluzioni per la liberazione del potere coloniale, i movimenti delle donne e le lotte ecologiste.


La violenza che fonda e la violenza che conserva

Quello che le quattro gerarchie di classe condividono è la modalità della loro costituzione. Le divisioni sono il risultato di guerre di conquista, di guerre civili, di appropriazioni che passano per la violenza su una classe da parte di un’altra.

Nella teoria degli anni Sessanta e Settanta, le guerre e le rivoluzioni che avevano creato le condizioni economiche, politiche e sociali all’interno delle quali gli intellettuali dell’epoca sono stati «forzati» a pensare, sono i due concetti più trascurati, per non dire ignorati. Il secondo dopoguerra è stato un’epoca di forti mobilitazioni politiche, di intensa «creatività» in tutti i settori della società, di conquiste in termini di diritti, salario, welfare. Tutti questi fenomeni sono il risultato diretto delle guerre e delle rivoluzioni, non soltanto avvenute nella prima metà del XX secolo, ma provenienti in egual misura del grande ciclo di rivoluzioni anti-imperialiste del dopoguerra.

Non bisogna cominciare dall’analisi dalla «produzione», ma dalla distribuzione di potere tra classi che la guerra civile, la guerra di conquista, l’uso della violenza e della forza hanno determinato. La presa (di potere), l’appropriazione, la vittoria degli uni sugli altri, distribuiscono le «parti», suddividendo coloro che comandano da coloro che obbediscono, coloro che lavorano da coloro che beneficiano dei frutti del lavoro di altri. Le classi delle donne, degli operai, degli schiavi, non sono preesistenti all’utilizzo della forza e alla guerra di conquista, ne sono il prodotto. Se non bisogna cominciare la nostra analisi dai modi di produzione, non bisogna neanche aprire l’indagine delle classi dalla loro relazione di potere e di assoggettamento a partire dalla norma, dal simbolico o dal linguaggio. Soltanto una volta che la forza ha diviso la «popolazione» in vincitori e vinti, intervengono l’organizzazione del lavoro, i dispositivi di assoggettamento, le norme biopolitiche, il simbolico, il linguaggio: istituzioni che saranno, in ogni modo, orientate dall’appropriazione, cioè orientate dai valori e gli interessi dei vincitori. L’ordine normativo, contro ogni tendenza idealista, è orientato dalla forza.

Questi diversi dispositivi hanno un solo obiettivo: trasformare i vinti in governati, consolidare l’appropriazione, affinare la presa delle soggettività da parte delle istituzioni che assicurano così la continuità del potere dei dominanti. La grande operazione biopolitica è stata, nel momento stesso in cui il neo-liberalismo ha iniziato a instaurarsi, quella di rimpiazzare le lotte delle classi con il «normativo», con la «società delle norme», indicazione seguita da una parte delle femministe e anche dai marxisti. La «società delle norme» traduce la violenza in dispositivo, la forza in «abitudine», l’appropriazione violenta in comportamento (condotta) normalizzato. Essa deve produrre l’homo oeconomicus, partendo non da una soggettività vergine come sembra supporre, ma da una soggettività vinta, in modo che l’assoggettamento è già da sempre precario, sempre pronto, se si costruiscono le condizioni politiche a trasformarsi in soggettivazione antagonista.

Il Cile e la sua lunga insurrezione del 2019, esattamente come le lotte del Sud globale, illustrano perfettamente questo ciclo della violenza che fonda un regime politico e un modo di produzione, e della violenza che li conserva, lasciando intravedere quello che potrebbe essere una violenza che li minaccia. L’esperimento neoliberale ha potuto imporsi soltanto dopo che i fascisti e gli americani avevano operato, attraverso il colpo di Stato di Pinochet, una redistribuzione del potere che le lotte di classe degli anni Sessanta e di inizio Settanta avevano fortemente minacciato. La vittoria fascista ha messo a disposizione dei liberali (Friedman, Hayek e i «Chicago boys» locali) una soggettività devastata sulla quale sperimentare la loro tecnica di «governamentalità». La riaffermazione della divisione gerarchica, la distruzione di ogni prospettiva egualitaria, la trasformazione dei rivoluzionari in vinti, sono le condizioni politiche della riorganizzazione della produzione neoliberale. Senza disfatta della soggettività rivoluzionaria le norme neoliberali non avrebbero avuto nessuna possibiltà di funzionare.

Le «norme» possono operare la trasformazione dei vinti in «governati» poiché la repressione ha distrutto fisicamente l’azione collettiva lasciando individui isolati (che compongono la popolazione foucaultiana) davanti alla forza dei vincitori. A questa condizione, i dispositivi neoliberali, successivamente applicati dappertutto nel mondo, hanno potuto rapidamente costituirsi senza incontrare una vera resistenza. La «norma» è il dispositivo per normalizzare e legittimare una situazione acquisita attraverso la violenza. Ma anche una volta assicurata la pace, la norma deve, ancora e sempre, essere accompagnata dalla forza (la violenza che conserva).

Il sorgere violento delle classi non è qualcosa che si situa nel passato. Accompagna sempre quello che può essere considerato come il proprio risultato. L’atto di separare coloro che comandano e coloro che obbediscono deve continuamente essere riprodotto e con lui la violenza dell’appropriazione che non cessa di riproporsi. Nel neoliberalismo la coesistenza della violenza che fonda e della violenza che conserva prende la forma di una compresenza dell’azione tecnico-economica, amministrativa, governamentale e dello stato d’eccezione (nel quale il fascismo storico si è sviluppato e nel quale il neo-fascismo contemporaneo sta prendendo ugualmente piede). La decentralizzazione e la moltiplicazione dei dispositivi biopolitici, la loro diffusione nel corpo sociale (governance), si accompagnano a una centralizzazione che sospende il diritto. Se una classe sfugge al controllo biopolitico, manifestando una «forza che minaccia» l’ordine esistente, lo stato d’eccezione o d’emergenza sono immediatamente dichiarati (dalla Francia al Cile al Nordafrica).

In questi momenti la repressione può raggiungere un alto livello di violenza, come abbiamo potuto constatare tanto in Cile, con i militari di nuovo nelle strade come nel 1973, quanto in Francia, dove la polizia mutila con determinazione i manifestanti, o in Nordafrica, dove a ogni sollevazione i morti si contano a centinaia tra gli insorti. I vinti cileni del 1973, dati i rapporti di forza, non hanno potuto fare altrimenti che sottomettersi, ma le battaglie, la memoria delle disfatte e delle vittorie non si sono dissolti con il montare del potere del capitale e dell’ideologia liberale. La memoria delle lotte persiste malgrado il tentativo della biopolitica di seppellirla sotto la coppia popolazione/individuo. Nel momento in cui l’azione collettiva è di nuovo possibile, le lotte insurrezionali cercano, immediatamente, di riallacciarsi con il passato rivoluzionario. Le parole d’ordine e gli slogan dell’epoca di Allende, che non sono stati ridotti al silenzio con gli omicidi di massa, risuonano di nuovo, ed esprimono la volontà e la necessità di riattivare la tradizione rivoluzionaria. Allo stesso modo, in un altro grande focolaio di insurrezione e insubordinazione, il Nordafrica, il 4 novembre 2019, una grande dimostrazione si è svolta in Algeria per celebrare l’inizio dell’insurrezione armata del Fnl il primo novembre 1954. In Iraq, sulla piazza Tahir occupata dagli insorti, un monumento alla libertà celebra la rivoluzione del 1958 degli «ufficiali liberi» contro la monarchia.

Nel sintagma «lotte di classe» bisogna mettere l’accento su «lotte», dunque sui soggetti che le conducono, sui loro processi di formazione, sulle strategie che adottano, poiché il processo di soggettivazione può darsi solamente uscendo dal quadro sociologico della «classe». Alla classe (di donne, di non-bianchi, di proletari) siamo assoggettati. Le lotte di classe sono tali solo se permettono di rompere con questi assogettamenti . Se all’inizio del potere c’è una guerra, una conquista, una appropriazione violenta, gli sfruttamenti e le dominazioni che ne seguono non devono essere descritti come l’azione di una struttura, del sociale, di un sistema. Esse devono piuttosto essere comprese come delle strategie che tentano di rinchiudere gli operai, le donne, i non bianchi nel potere impersonale di una struttura, di un sistema, di una società, assicurando l’interclassismo del «vivere insieme».

Ma sotto le istituzioni, sotto le norme, fremono ancora e sempre le battaglie delle classi. Le divisioni che l’appropriazione violenta ha aperto, non possono essere chiuse da alcuna struttura, alcun sistema, alcuna «società». La chiusura che il sistema del Capitale persegue è sempre alla mercé delle congiunture politiche. Alle totalizzazioni sociali, ai sedicenti automatismi dei sistemi tecnici, bisogna opporre che «ci sono delle lotte di classe», il che significa che ci sono delle strategie, degli scontri, c’è una politica e ci sono delle rotture sempre possibili.

Ciò che chiamiamo crisi allora non è un disequilibrio tra grandezze economiche, tra flussi finanziari, una caduta della produzione o della produttività, ma l’emergenza di soggettivazione delle classi capaci di rompere con le norme della produzione, i dispositivi di controllo biopolitici e gli assoggettamenti neoliberali. La crisi è diventata un modo di governo del capitale e dello Stato, ma la rottura della governamentalità apre una crisi completamente diversa, una crisi politica, una crisi dove si affrontano soggettività che stanno cercando di creare le condizioni della loro organizzazione.

Questi dualismi di classe, i loro differenti «modi di produzione» e l’eterogeneità dei regimi di potere che le caratterizzano, costituiscono i focolai di soggettivazione che scoppiano un po’ dappertutto nel mondo dal 2011. Le lotte contro lo sfruttamento economico, le lotte delle donne contro il patriarcato e l’eterosessualità obbligatoria, le lotte per la destituzione dei sistemi di potere neo-coloniali in Africa e America latina e contro il razzismo e le battaglie ecologiste si radicano nelle gerarchie di classe sensibilmente rafforzate dal neoliberalismo.

Queste stesse divisioni sono ugualmente la fonte dell’iniziativa capitalistica e dell’azione dello Stato: il razzismo e il ritorno del suprematismo bianco, come l’affermazione della superiorità degli uomini sulle donne, sono sicuramente le strategie politiche più efficaci per accompagnare l’approfondimento delle politiche di appropriazione capitaliste. Nel nord del mondo l’onda neo-fascista e reazionaria, sviluppata dopo il 2008, si soggettivizza sul razzismo che lo Stato stesso si incarica di sollecitare (razzismo di Stato non solo negli Usa, ma anche in Europa – la Francia ne è il modello paradigmatico) e sulla dominazione della donna. Gli «anacronismi» che avrebbe dovuto scomparire con lo sviluppo delle forze produttive rappresentano terreni dello scontro di classe. Da qualunque lato si decida di abbordare la questione politica, dal punto di vista del capitale o dal punto di vista della rivoluzione, le lotte di classe sono essenziali.

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